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dialogo

03 Feb 2018
Sticky Post By Stefano Cazzaro Posted in Articoli Recenti, Interviste Permalink

Comunicare, oggi, senza litigare. Intervista a Bruno Mastroianni

Sticky Post By Stefano Cazzaro On 3 febbraio 2018

La comunicazione sta prendendo sempre più spazio nelle nostre vite. Se consideriamo anche la sua dimensione mediata (dalla televisione ai social network), capiamo di essere costantemente in comunicazione. Per questo motivo abbiamo bisogno di professionisti che affrontino l’argomento con spirito critico e ci aiutino a orientarci, così da non rischiare di partecipare – anche inconsapevolmente – a fenomeni come l’hate speech.
Uno di questi professionisti è Bruno Mastroianni, docente di Comunicazione politica e globalizzazione, giornalista, social media manager… insomma, una persona che conosce le diverse sfaccettature del comunicare.
A giugno del 2017 Mastroianni ha pubblicato La disputa felice. Dissentire senza litigare sui social network, sui media e in pubblico, libro che parla di come interagire in contesti online e offline non insultando, ma, al contrario, cogliendo le opportunità di crescita che l’interazione porta con sé.
Ho intervistato l’autore partendo da una contraddizione della comunicazione contemporanea.

 

Nel corso degli anni, nonostante la progressiva centralità della comunicazione, il tema del dialogo – della “disputa felice”, come dici tu – non è riuscito a mettere radici nelle coscienze delle persone. Sei d’accordo? Quali sono le ragioni di questo insuccesso?

Concordo. Una delle ragioni è che spesso si separa l’essere dal comunicare, si crede che la comunicazione sia strumentale, si aggiunga alla vita invece di farne parte, ma le cose non stanno così: noi siamo ciò che comunichiamo e viceversa, le due dimensioni si influenzano a vicenda.
Nella nostra società globalizzata e digitalizzata, l’incontro con la diversità dell’altro è diventato un’esperienza quotidiana e costante. Si tratta di una novità nella Storia; nel passato, infatti, questo incontro era una scelta: ad esempio viaggiavamo solo per incontrare persone di contesti sociali diversi dal nostro. Oggi, invece, grazie a internet e ai social, abbiamo un contatto costante con qualcuno che parla un’altra lingua, che ha valori molto differenti. Tutto ciò richiede un cambiamento nel nostro modo di essere.
Non è solo una questione di culture: qualche anno fa c’erano gradi di separazione più netti anche tra vicini della stessa società, poi il web ha permesso a tutti di parlare e scrivere, togliendo la supremazia alle élite intellettuali.

Il sottotitolo del tuo libro è Dissentire senza litigare sui social network, sui media e in pubblico. Quali sono le differenze tipiche tra le dispute nei tre mezzi di comunicazione?

La differenza principale è il tipo di interlocutori: sui social network può farsi sentire anche chi non ha le competenze per affrontare un determinato tema, e può farlo anche con la violenza verbale; sui media tradizionali – pensiamo alla televisione – le dispute avvengono tra interlocutori selezionati, tra persone abilitate a parlare di certi argomenti.
La caratteristica comune, invece, è la dimensione pubblica: questa dimensione genera disorientamento perché non consiste solo in uno scambio di contenuti, ma al suo interno, ogni volta che comincia una disputa, il nostro mondo viene messo in discussione da quello altrui e ciò succede davanti a molte altre persone. Il cittadino comune è attrezzato culturalmente a gestire questa complessa dinamica sociale? Possiamo chiedere a ciascun cittadino di vivere in un mondo in cui si può essere costantemente messi in dubbio? Io credo di sì, ma serve un’educazione che ci eserciti a coltivare queste capacità.

A proposito di educazione, nel primo capitolo de La disputa felice parli della carenza di «percorsi culturali/educativi adeguati» alle sfide del web. Credi che questa carenza avrà effetti in futuro?

Stiamo già vedendo gli effetti di questa carenza: ciò che oggi incontriamo nei social è il risultato di una tendenza a concentrarsi sul momento “off” e non sul momento “on”, a tirarsi indietro e chiedersi: “Chi me lo fa fare, di stare in questa mischia continua?”, a non occuparsi della propria reputazione online. Ricordiamo che spesso le persone cercano i nostri profili in Google e Facebook per conoscerci, per scoprire qualcosa di noi.

Noi possiamo diventare esempi per queste persone disputando felicemente con i nostri contatti social? Mi sembra che nel tuo libro accarezzi questa idea.

Questo è il contributo culturale della disputa felice. Così come il trolling alimenta l’offesa e la provocazione, anche il reagire con pazienza ai commenti aggressivi può ricucire una fiducia sociale che stiamo perdendo. Anche perché spesso quell’aggressività nasconde disagi e questioni profonde nella società.
Ognuno di noi è un esempio: è chiaro che le istituzioni hanno più strumenti per esserlo, ma ciò non toglie che ogni cittadino può impegnarsi. Prendiamo il gruppo WhatsApp dei genitori di una classe scolastica: se i componenti non vedranno quel gruppo come un ambiente di scontro, ma cureranno la qualità della discussione, il contributo culturale sarà enorme.

La Chiave di Sophia è una rivista di filosofia pratica. Secondo te qual è il ruolo della filosofia nella società contemporanea?

Oggi la filosofia deve far crescere la consapevolezza sulle capacità umane. In una società sempre più tecnologica, la risposta dev’essere il più possibile non tecnica.
Ne La disputa felice faccio l’esempio della conversazione radiofonica tra Giuseppe Cruciani e una badessa di clausura nel programma La Zanzara. Perché ho scelto questo episodio? Perché quella badessa non è solo una brava comunicatrice, ma è stata innanzitutto presente a se stessa. Ciò dimostra che non è una questione di tecniche, ma di consapevolezza della propria persona. È il segnale che oggi, di pari passo con lo smartphone, abbiamo bisogno di più occasioni di riflessione sulle abilità degli esseri umani.

Stefano Cazzaro

[Immagine tratta da Google immagini]

 

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Comunicare, oggi, senza litigare. Intervista a Bruno Mastroianni febbraio 3rd, 2018Stefano Cazzaro
14 Ago 2017
Sticky Post By Alvise Gasparini Posted in Articoli Recenti, Philovintage Permalink

Fedro: verità e cose buone intorno a noi

Sticky Post By Alvise Gasparini On 14 agosto 2017

Un silenzio ci accompagna. Un contesto muto, o meglio ammutolito, si paventa e genera imbarazzo, quasi a chiedersi se sia possibile dire qualcosa di giusto, di sensato per rompere questa piatta condizione. Solo un folle, una persona atipica potrebbe farsi carico di un’operazione controcorrente, se non atto coraggioso. Ebbene la non-azione scelta dalla massa si fa azione collettiva, diventa quella cosa giusta da fare poiché eletta all’unanimità. Tutto e tutti rimangono immobili, «Nessuno arriva, nessuno se ne va» scrive Samuel Beckett in Aspettando Godot. Tale atteggiamento di rinuncia nasconde quell’insicurezza insita in ogni uomo che, se portata all’estremo, è capace di dominarci e porci nella condizione di opposizione alla possibilità, una chiusura all’ignoto verso il quale risultiamo prevenuti.

È perfettamente comprensibile la sensazione di sicurezza che tutti proviamo all’interno della nostra zona di comfort, all’interno delle mura di Atene. Eppure è proprio uscendo dalla suddetta città greca che Socrate, protagonista assieme a Fedro, dell’omonimo dialogo platonico, conosce quella realtà esterna, una verità dimenticata e ormai insperata: al di là della città non v’è alcun nemico. Certo si potrebbe incombere in un imprevisto, doversi confrontare con un pericolo e con degli sconosciuti, ma non è forse l’incognita necessaria e naturale che va a comporre il mondo in cui viviamo? Rimanendo all’interno delle mura di Atene, probabilmente, si può creare un micro-sistema autonomo, sufficiente ed indipendente, volto ad una auspicabile serenità, insomma una miniatura ben più controllabile del mondo per intero. C’è da chiedersi, però, se questa simulazione, se questo artificio valga la pena di essere considerato il mondo, la nostra realtà all’interno della quale sentirsi sicuri, rinunciando all’idea di un bontà maggiore e al di fuori di esso.

Lo stesso Platone, all’inizio del libro settimo de La Repubblica (514 b – 520 a), ci espone il mito della caverna, il quale rappresenta degli uomini in una condizione di schiavitù e falsa credenza, portati alla convinzione che la realtà della caverna sia tutta quella da loro conoscibile. L’uscita di Socrate dalle mura rievoca la medesima situazione, oltre che lo stesso stupore per l’inaspettata realizzazione di quella nuova realtà così diversa dalle aspettative costruite precedentemente. È così che nel Fedro veniamo invitati ad uscire di casa, uscire dalla nostre convinzioni per abbracciare il mistero e il non conosciuto che si cela dietro al prossimo angolo. Il passo da fare richiede una dose di fiducia e, in alcuni casi anche di coraggio, al fine di superare l’atteggiamento di attesa ed insicurezza incapaci di darci un risultato soddisfacente a lungo tempo. La natura umana è attratta dal mistero e cercherà sempre di uscire da se stessa, di liberarsi da un rapitore o un tiranno, anche quando esso sarà rappresentato da noi stessi.

Lo stesso Socrate ringrazierà Fedro per averlo convinto e si sentirà a suo agio, in mezzo alla natura, alle cose belle che non poteva ammirare in ugual modo all’interno della sua città. Già da questo contesto si evince come il dialogo necessiti di una condizione agiata, di serenità, aprendosi al mondo e alle sue infinite possibilità e bellezze. Le belle parole, i sentimenti e le cose buone che faranno parte del dialogo tra Socrate e Fedro altri non sono che l’attuazione delle possibilità umane, ciò che è celato nell’animo degli individui e che aspetta il kairos, il momento opportuno per sprigionarsi e librarsi nell’atmosfera e giungere ovunque secondo un movimento di libertà. Questa è la via indicata per lo svelamento delle cose, la ricerca della verità che la filosofia si propone di perseguire e che trova una matrice da un atteggiamento di leggerezza unito ad uno thauma, la meraviglia aristotelica per tutto ciò che ci circonda.

Proprio dall’osservazione di ciò che vive e sussiste attorno a noi, in modo buono e sufficiente, emerge la verità delle cose, quella domanda senza risposta che apre al dialogo filosofico intento a sviscerare l’essenza ultima e più profonda del mondo circostante. È il terreno fertile per l’amicizia tra Socrate e Fedro, per l’armonia della condivisione tra due individui dediti allo scambio e alla cura dell’altro mediante il confronto e la comprensione reciproca che solamente attraverso il logos può avvenire. Difatti lo stesso Platone cerca di trasmetterci un insegnamento o anche solo una personale percezione dell’amicizia attraverso un susseguirsi di battute, di disquisizioni sull’anima, la follia, l’arte e l’amore paragonabili ad un viaggio mentale dei due protagonisti. Un viaggio che solo due persone davvero in relazione tra loro sarebbero capaci di condurre, andando sempre più nel profondo, «chiamando le cose col proprio nome» come scrive Pasternak ne Il dottor Živago.

Si arriva ad ambire al tutto, a volersi confrontare con l’infinito, fino a quel punto di svolta, quella presa di consapevolezza capace di farci fare quel passo indietro, alleggerirci, lasciando andare ogni cosa senza troppo attaccamento. Giungendo a questo risultato si rilassa il proprio animo, gli si comunica che lo spettacolo dialogico si sta avviando alla sua conclusione e si apre al distacco dalle proprie parole e convinzioni, il tutto come nella pratica del mandala di sabbia nel buddhismo tibetano, opera che al momento della cerimonia finale si accetta di lasciar andare e dunque cancellare. Allo stesso modo il Fedro trova la sua cesura con la fine del dialogo tra i due protagonisti che si avviano assieme dopo che il giovane allievo di Socrate pronuncia le parole «Le cose degli amici sono comuni».

 

Alvise Gasparini

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Fedro: verità e cose buone intorno a noi agosto 14th, 2017Alvise Gasparini
20 Apr 2017
Sticky Post By Leonardo Albano Posted in Articoli Recenti, Filosofia pratica Permalink

Contro gli aspirapolvere

Sticky Post By Leonardo Albano On 20 aprile 2017

Mi schiero dalla parte dei pensatori mansueti, dei contemplatori e degli ascoltatori della buona musica, che nonostante l’emozione che può suscitare un certo brano, non alzano mai troppo il volume per amore della pace. Mi schiero dalla parte dei passeggiatori, dei vagabondi, degli ascoltatori, di tutti coloro che rifuggono il chiasso inutile e il cicaleccio qualunquista per abbandonarsi al silenzio. Mi schiero dalla parte dei monaci e dei meditativi, di comunica senza parole, senza recare alcun danno acustico all’ambiente circostante, e di chi sa quanto può essere degradante una vita turbata da inutile clamore.

Per tutti costoro e per chiunque voglia aggiungere la sua firma, propongo un bando contro gli aspirapolvere, affinché siano confinati dalla società umana e ostracizzati da essa per sempre. Sono macchinari fastidiosi e irritanti, che sviliscono completamente l’iniziativa pratica delle pulizie, rendendo volgarmente pigro un lavoro di grande calma e umiltà; e tutto in cambio di baccano e sbuffi violenti che torturano l’udito di chiunque si trovi con un pensiero per la testa. Un bell’affare, potremmo dire, proprio quel che ci vuole per rendere migliore l’umanità, ma perché lasciar la scopa a prender polvere nello sgabuzzino quando ci si trova ad avere diversi metri quadri su cui esercitare ciò per cui è stata fatta? Perché evitare a tal punto di impiegare qualche minuto in più per ripulire un pavimento? Usare una scopa è un’azione ripetitiva, lenitiva, acquieta le doglie del quotidiano tribolare con lenti e circoscritti movimenti, che non commettono alcun crimine acustico e adempiono egregiamente alla loro mansione. Le setole carezzano il pavimento come una mano innamorata, la polvere si ammucchia tranquilla in un grigiore sempre più fitto, e la purezza del silenzio è così preservata; tutto è lasciato all’intenzionalità, alla flessuosità delle braccia che accompagnano il manico, alle direttive della mente che si sollazza e si svaga in compitini minori, che organizza un criterio e un coordinamento per raccogliere tutta la polvere in un punto solo, invece di farsi vivere dalla incoscienza della macchina. La serenità di chi ramazza è intatta, il suo cervello rilassato, il discorso con la sua anima non viene interrotto; adagia la scopa alla parete e si dirige allo sgabuzzino per trarne fuori la paletta, poi riafferra la scopa, accompagna la polvere nella paletta, e mentre va in cerca del cestino canticchia un motivetto spensierato, senza ferirsi, senza insultarsi, perché se è la sua volontà a creare della musica, allora non vi è disturbo o interferenza, e la riflessione dell’Io prosegue la sua magniloquente vicenda.

Ma poi all’improvviso un ipotetico inquilino ritorna a casa e si accorge di un angolo lasciato un poco sporco dalla nostra innocua negligenza; e dunque, senza pensarci due volte, costui cava fuori dall’armadio un aggeggio ingombrante e spaventoso a guardarsi, che non appena viene acceso fa un chiasso insopportabile. Non c’è stanza che si salvi da quella violenza acustica, ogni angolo della casa piomba in un caos assoluto, il dialogo con l’anima si spezza, l’umanità interiore svanisce come inghiottita da un tornado, e tutto si trasforma in frastuono e delirio senza senso. Vorremmo dire al nostro inquilino di spegnere l’aggeggio, ma ci rendiamo conto che dovremmo urlare per farlo, sgolarci, perché magari lui nemmeno ci sente tanto ha le orecchie otturate dall’aggressività dell’aspirapolvere. Il chiasso mette a dura prova i nostri nervi, stringiamo i denti, respiriamo profondamente per non iniziare a litigare, sarebbe l’ultima cosa che vorremmo dopo esser stati malmenati da tutta quell’irruenza bruta; ma il nostro inquilino non accenna a smettere e anzi gli viene la bella idea di ripassare tutta casa con quell’aggeggio mostruoso, perché magari non si fida del nostro lavoro con la scopa. “Abbiamo un aspirapolvere, scusa, perché usi la scopa come i cavernicoli?”.

Chiudiamo il libro che stavamo leggendo e roteiamo lo sguardo verso il soffitto in cerca di una risposta ancestrale; non vediamo niente se non il biancore sgretolato della vernice, e il rumore dell’aspirapolvere si avvicina sempre più man mano che si ripassa ogni stanza. Dobbiamo fare qualcosa, intervenire, rimostrare. Dobbiamo educare la gente alla bellezza del silenzio, al raccoglimento interiore e alla convivenza onesta, dobbiamo far capire che anche in un oggetto così quotidiano e banale come un aspirapolvere può nascondersi l’insidia del male, che infiacchisce la manualità e offusca il cervello invece di coccolarlo. Dobbiamo trasformare e ripensare radicalmente il nostro rapporto con la tecnologia, considerare per prima istanza la nostra incolumità spirituale e poi usufruire di questi aggeggi con cognizione di causa, sapendo quanto danno possano arrecare a quel che ci rende umani. Non solo l’aspirapolvere zittisce prepotente il nostro pensiero, ma costringe anche coloro che ci stanno attorno a un tremendo baccano che non si sono meritati; non solo danneggiamo noi stessi, ma coinvolgiamo direttamente anche gli altri, e questa è la definizione categorica di un’azione generalmente stupida.

L’aspirapolvere è una maledizione moderna, uno strumento punitivo, un obbrobrio di affare che non risolve nulla se non la nostra svogliatezza. L’aspirapolvere trae energia dall’ansia di fare tardi e si mantiene nelle case per la nostra paura di perdere qualche minuto di più; peggio di un parassita, peggio di un vicino irascibile. Ma fidatevi di me, ascoltate i guaiti dei cani: spezzate il sigillo che vi lega a quella macchina, rimpadronitevi della vostra vitalità; altrimenti sarà troppo tardi e tra la polvere raccolta finirà anche la vostra anima.

Leonardo Albano

[Immagine tratta da Google Immagini]

Contro gli aspirapolvere aprile 20th, 2017Leonardo Albano
04 Apr 2017
Sticky Post By Emanuele Lepore Posted in Articoli Recenti, Filosofia pratica Permalink

“Tu non capisci”. Dialogo sul far della sera

Sticky Post By Emanuele Lepore On 4 aprile 2017

S: Dovresti uscire dallo studio, ogni tanto: sei sempre chiuso lì dentro, tra i libri e i quaderni, con la luce del pc che quasi ti brucia gli occhi. Da quanto tempo è che non fai due passi fuori?

M: Non capisci.

S: Cosa?

M: Non capisci.

S: Cos’è che non sto capendo, precisamente? Vivo con te senza riuscire a incontrarti in un momentaneo confronto, un momento in cui parliamo.

M: Di cosa vorresti parlare? Non c’è veramente molto di cui possa parlarti: la mia vita non è così interessante.

S: Se non fossi completamente assorbito da quelle tue pagine fitte di appunti, sapresti che, a volte, c’è bisogno di sentirsi chiedere come uno stia, di sapere come stia la persona con cui condividi la quotidianità.

M: Come se fosse realmente possibile.

S: Basterebbe davvero poco: se, per esempio, ritagliassi un’ora…

M: Non sarebbe ugualmente possibile. Non saprò mai dirti come sto e ogni risposta alla domanda “come stai?” non saprò mai comprenderla davvero. Come si fa a dire a qualcuno come si sta?

S: Semplicemente dicendo “come stai?” e “bene, grazie” o “male, grazie”. Tutto molto semplice.

M: Tutto troppo semplice, oserei dire in maniera atroce. Potrai anche essere in grado di dirmi “sto bene” o “sto male” ma, con ciò, sapresti solo mettermi al corrente che stai in un certo modo, che stai così e così, senza riuscire a dire una sola parola sul contenuto del tuo stare, su quel “bene” o su quel “male” che ti premeva comunicare.

S: Dici solo una marea di stronzate.

M: Forse sì, ma il punto è che gli stati d’animo, le emozioni, quello che uno ha dentro, sono un che di incomunicabile, di indicibile, perché sono irriducibilmente diversi gli  orizzonti entro cui cadono alcune esperienze: per queste cose non c’è un linguaggio corretto, un codice che possa tradurre come tu stai in un’informazione realmente comprensibile. Pensa solo a tutto il discorso di Wittgenstein…

S: Non so se sei stronzo o se leggi troppo.

M: Di certo, è evidente, tu leggi troppo poco.

 

Emanuele Lepore

[Immagine tratta da Google Immagini]

“Tu non capisci”. Dialogo sul far della sera aprile 4th, 2017Emanuele Lepore
11 Mar 2017
Sticky Post By Federica Bonisiol Posted in Articoli Recenti, Attualità Permalink

Emozioni, infanzia e futuro: lo sguardo di Galimberti

Sticky Post By Federica Bonisiol On 11 marzo 2017

Pensare il presente, il festival filosofico della città di Treviso, è ormai entrato nel vivo dei suoi appuntamenti. Lo scorso venerdì è stato il turno di Umberto Galimberti, il quale ha registrato il tutto esaurito all’Auditorium Pio X. Numerosi gli interessati che non potendo assistere all’incontro di persona hanno usufruito dell’efficiente diretta streaming per non perdere l’attuale contributo del professore, dal titolo Aspetti patologici della contemporaneità.

Al centro del percorso formativo e professionale di Galimberti, filosofo e psicoanalista di rilevanza nazionale, vi è la riflessione sull’uomo e su tutte le dimensioni che lo riguardano. Nel suo intervento per il festival ha trattato i disagi sociali: dalla poca attenzione verso il periodo dell’infanzia al sentimento di inadeguatezza provato dai giovani, dal matrimonio vissuto come gabbia che non rispetta la diversità e la libertà dell’altro, alla diffusa carenza di socialità e dialogo che caratterizza i rapporti contemporanei.

In apertura, Galimberti ha fatto notare quanto siano essenziali in tutti noi la riflessione e la ricerca del senso di vivere. In tale percorso di introspezione è per lui fondamentale la figura del filosofo, il quale ha, oggi più che mai, il compito di curare la vita. La filosofia, infatti, favorendo il dialogo e la condivisione dei pensieri, può aiutarci a comprendere il presente e di conseguenza a sentici a nostro agio con noi stessi e con gli altri.

In questo breve articolo, per inclinazione personale, mi vorrei soffermare nello specifico su un tema che sta molto a cuore allo stesso Galimberti: il tema dell’educazione. Durante l’incontro, infatti, il professore ha più volte ribadito l’importanza della pratica educativa, sottolineando come nel mondo attuale questa venga talvolta poco valorizzata o addirittura bistrattata. Riprendendo la lezione di Freud, Galimberti ha parlato a lungo dell’infanzia: la fase di vita che plasma in maniera incontrovertibile l’essere delle persone. Numerosi gli spunti di riflessione che egli ha proposto per farci indossare al meglio le vesti di educatori e genitori. Innanzitutto è necessario dedicare ai bambini un’abbondante dose di attenzione: un’attenzione che deve essere virtuosa e carica di ascolto reciproco, non un frivolo accontentare. I bambini hanno bisogno della nostra guida, delle nostre regole e delle nostre risposte alle loro domande, per orientarsi al meglio all’interno di quel mondo che pian piano iniziano a scoprire.

Secondo Galimberti i bambini di oggi sono bombardati di stimoli, che egli fa coincidere per lo più con le varie attività che vengono loro sottoposte durante il tempo libero, e che fanno sì in finale che il loro tempo veramente libero sia pari a zero. Essere genitori non è una dote; è un compito che si impara a svolgere alla stregua dei gesti positivi e degli errori che si compiono lungo quello stesso percorso. Molto spesso pensiamo che offrire ai bambini una vasta gamma di attività da scegliere e da svolgere, sia per loro un tutto di guadagnato. In tal modo essi possono acquisire fin da piccoli e con poche difficoltà i rudimenti di vari sport o la capacità di maneggiare vari strumenti musicali. Galimberti ci mette invece in guardia: l’abbondanza di stimoli ai quali sottoponiamo i nostri bambini può risultare nociva. I bambini, a causa della loro tenera età, non sono in grado di gestire da soli gli stimoli esterni che ricevono: ciò finisce per generare in loro un sentimento d’angoscia talvolta latente che va inevitabilmente ad influenzare il loro modo di stare nel mondo, generando paure ed insicurezze.

L’istituzione scolastica, in tutto ciò, non accorre in aiuto. Veicolo primario di conoscenze, e in linea di principio anche di valori, la scuola odierna non riesce ad espletare le varie responsabilità che sono proprie del suo ruolo. Galimberti è fermo e tagliente nell’affermare che “oggi non si guardano più le soggettività degli studenti, ma solo l’oggettività delle loro prestazioni”. La scuola dei tablet e della lavagne multimediali dovrebbe accantonare l’attenzione alla tecnica per lasciare posto ai sentimenti e alle emozioni. Qualità che nel mondo scolastico, e anche nella nostra società dell’efficienza, sembrano essere diventate dei tabù, ma che richiedono invece dei percorsi educativi costruiti ad hoc, attraverso il dialogo e il confronto, attraverso la riflessione su di sé e la condivisione del pensiero con gli altri.

Usando le parole di Miguel Benasayag1, Galimberti ci ricorda che «il futuro non è una promessa, bensì una minaccia». Sul finale dell’incontro egli lascia dunque trasparire un’amara e personale considerazione: a sua detta, infatti, la nostra civiltà sembra essere arrivata alla sua fine. Lo spirito di unione e di collaborazione è stato sostituito dalla corsa individualistica, e per ciò egoistica, alla carriera e al successo personale. Non essendo valorizzati, i giovani assumono una serie di comportamenti devianti per non esperire la loro presunta insignificanza sociale. I modelli che la società ci propone parlano di consumo, di ricchezza, di competizione. Io voglio pensare che la sconsolazione accennata da Galimberti sia stata soltanto di facciata, per spronarci ad agire e reagire. Per smuoverci all’operare per un’infanzia, una società, un mondo del lavoro, un futuro migliori!

Federica Bonisiol

Articolo scritto in occasione dell’incontro Patologie del contemporaneo (venerdì 10 marzo) organizzato dal festival di filosofia Pensare il presente, a Treviso dal 7 al 30 marzo 2017.

NOTE:
1. Miguel Benasayag, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli 2013.

Emozioni, infanzia e futuro: lo sguardo di Galimberti marzo 13th, 2017Federica Bonisiol
08 Mar 2017
Sticky Post By Alvise Gasparini Posted in Articoli Recenti, Filosofia pratica Permalink

Guardare in faccia la morte per imparare a vivere

Sticky Post By Alvise Gasparini On 8 marzo 2017

Non se ne può parlare. Non è il caso. Non è né il momento né il luogo per questa tematica. Non lo è mai. Ci sono argomenti di cui non si può parlare, è inutile, è stato deciso così dalle regole subliminali che regolano i rapporti e che guidano i nostri comportamenti, i nostri dialoghi. I cosiddetti “argomenti tabù”, che non trovano spazio in nessuna aula, a nessun tavolo, in nessun susseguirsi di dialoghi, non ve n’è l’ombra in quel brusio che anima i grandi e piccoli spazi in cui veniamo catapultati ogni giorno. È un proibizionismo dialogico e, se mi ritrovo qui a parlarne, pure letterario. Tale atteggiamento però, si sa, genera l’effetto opposto, ovverosia la ribellione, fa germogliare un seme di curiosità e desiderio nei confronti di ciò che ci è categoricamente negato. Un genitore deve fare attenzione a ciò che nega al figlio e con quanta durezza mantiene tale divieto, al fine di non generare una micro-ribellione, una scintilla che accende l’animo di un bambino oggi e di un popolo domani.

La buona letteratura, perché penso che ve ne sia anche una di tutt’altro stampo, fa leva su questo oceano di non detto, di dialoghi mai avvenuti, di argomenti mai trattati. Si pensa sempre di doversi presentare al mondo con la teoria innovativa, l’idea delle idee, dimenticando forse di parlare anche “solo” di ciò che ci sta attorno, quelle cose che ognuno di noi coglie, che aleggiano nell’aria e che magari sono mancanti di una vera e propria sostanza, magari a causa di un insulso quanto sormontabile divieto.

Marie de Hennezel ne La morte amica ci porta una testimonianza fondamentale, impregnata di tutto quell’insensato silenzio che sta attorno a certi argomenti. Il contrasto con la percezione che sempre si ha avuto nei confronti di un tema come la morte si evince già dal titolo, provocatorio, pericoloso quanto pieno di narrazione ed emozione da offrire al mondo. Come può essere “amica” la morte? Come le si può accostare ad essa la qualità dell’amicizia, contrapponendo la sensazione di estrema negatività all’estrema positività? Ebbene è proprio qui che Marie pone il suo messaggio fondamentale, tanto importante quanto distruttivo. Abbattendo la bolla del silenzio in cui si ritrova il soggetto che deve aver a che fare con al morte, bolla in cui sono rinchiuse anche le persone vicino a lui, vinte dalla disperazione e dall’incapacità di proferire parola, è qui che si può riscoprire il vero senso della relazione e, se vogliamo, della vita stessa. La mia folle ed ottimista visione vede un’esplosione di vita all’interno del dialogo, una forma di comunicazione che in fin dei conti richiede un sola ed ovvia, ma non banale, condizione: l’amicizia. Se si è amici nel vero senso del termine, se si riesce a non dubitare di tale legame in un’ipotetica domanda a bruciapelo che permette due sole vie, il dialogo viene da sé, senza forzature e senza eccessive richieste. Un dubbio, un’esitazione in un momento così fondamentale aprirebbe le porte ad un pensiero in un territorio in cui il pensiero non dovrebbe trovare collocazione alcuna.

La naturale sincerità che si evince dai racconti di Marie ci offre una visione non più solamente negativa di un momento decisivo della vita, quale la morte. Rinchiudersi in un silenzio e lasciarsi vincere dalla paura, dalla presupposta impotenza, ci consegna ad una vera e propria sconfitta vitale, in cui a morire per primo è il dialogo e l’umanità. «Comuni sono le cose degli amici» recita un passo del Fedro di Platone, riportandomi insistentemente sul concetto di dialogo, comunicazione ed amicizia. Comunicazione dico, intendendo un mettere in comune qualcosa tra due persone che si scambiano uno sguardo di reciprocità, di equilibrio tra la domanda e l’offerta umana ed affettiva. Davanti alla morte dobbiamo perdere tutto questo? Penso proprio di no anche se il sentimento negativo e distruttivo tenta di rivoltarci emotivamente dandoci delle risposte che non siamo pronti ad avere, facendoci vedere tutto quel male che è proprio della fine, quella verità che si pone come unica ed incontrovertibile, e dunque la stessa conclusione del rapporto tra noi ed una persona cara che sta morendo. Con una grande dose di coraggio si può guardare in faccia questa verità, senza tentare di confutarla, poiché come lo stesso principio di non contraddizione aristotelico, anche se noi provassimo a negarla, ci ritroveremmo ad affermarla.

Cosa resta da fare allora? Ritornare indietro, ritornare a quando quella verità non si era ancora presentata nella nostra vita e senza volerla allontanare ripercorrere le strade della vita assieme alla nostra persona cara, ricordarsi ciò che c’era prima di quel male così grande per scoprire il bene che ancora è possibile tra due “sole” persone, all’interno del semplice ponte del dialogo e dell’amicizia. È questo che fa Marie de Hennezel, a sue spese in termini di transfert, ricordandoci quanta responsabilità ci voglia nel prendersi cura dell’altro con la consapevolezza di doverlo lasciare, salvargli la vita per quel che ne rimane di essa. Tale lasso di tempo, anche solo qualche giorno, una settimana riconsegnata a chi si era rassegnato a morire ogni giorno fino alla fatidica conclusione, questo può essere il dono più grande che possiamo dare e non solo verso chi si sta avviando verso la sua naturale conclusione, bensì a tutte quelle persone che incontriamo e che dovremmo guardare più a lungo, ascoltare più a lungo, farle vivere nella relazione con noi stessi.

«Agisci come se quel fai facesse la differenza. La fa», diceva William James, e mi permetterei di aggiungere “pur sapendo che farà male, che si potrà rivelare più breve di quanto lo si potesse immaginare. Non sarà davvero così breve”.

Alvise Gasparini

Fonti immagini: https://lamenteemeravigliosa.it/la-morte-segno-vita/

Guardare in faccia la morte per imparare a vivere marzo 8th, 2017Alvise Gasparini
19 Feb 2017
Sticky Post By Martina Basciano Posted in Articoli Recenti, Bioeticamente, Medicina Permalink

Il valore del tempo a partire dalla malattia

Sticky Post By Martina Basciano On 19 febbraio 2017

All’interno di un contesto in cui viene trasformata la percezione e l’organizzazione dello spazio e del tempo di vita, in cui i nuovi sviluppi, a causa dell’accelerazione, appaiono sempre di più senza identità o relazione, diventa sempre più difficile relazionarsi con gli altri e nella cura cooperare e ascoltare i problemi personali.

Sempre meno infatti si stabiliscono relazioni profonde, proprio perché queste richiedono tempo per essere costruite. Come sottolinea Hartmut Rosa in Accelerazione e alienazione, se siamo sempre più alienati dallo spazio e dal tempo, dalle nostre azioni ed esperienze e dal rapporto con gli altri, risulta difficile evitare una profonda alienazione da sé, in quanto il nostro stesso io nasce da questi rapporti e relazioni. Ogni persona che incontriamo rappresenta il mezzo per la narrazione di noi stessi, della nostra storia e per definire la nostra identità; perché chi siamo e come ci sentiamo dipende, oltre che dai contesti della nostra esperienza, anche dall’incontro con l’altro.

In una condizione umana in cui il presente viene sempre più «risucchiato nel flusso di comunicazioni che nascono e muoiono», che non creano condivisione anche nel contesto familiare, in cui viene sottratto sempre più tempo alla parola, allo scambio di emozioni e alla reciprocità, l’importanza e il valore del tempo emergono soprattutto nel contesto di cura, perché la malattia stessa insegna a valorizzare questo tempo.

Si impara a cogliere le occasioni quando si presentano e a scegliere secondo le proprie priorità. Fare, progettare e occupare il tempo permette nella malattia di sentirsi più persona che paziente e di distogliere l’attenzione dalle proprie sofferenze. Siamo sempre pronti a fare tutto in fretta, a partire dalla famiglia e dal lavoro, ma è nella malattia che si rivela l’importanza di rallentare, di guardarsi intorno e di apprezzare ciò che si ha. Il tempo nella malattia riserva sicuramente momenti difficili, ma ci sono anche aspetti positivi se si riescono a cogliere; ci sono momenti in cui si realizza che la vita prima o poi finirà, ma averne consapevolezza è importante per prendere le decisioni più giuste, che possono anche coinvolgere coloro che stanno vicino al malato, riallacciando quindi relazioni significative interrotte. È infatti molto difficile affrontare da soli il peso di una diagnosi, nascondendo le proprie sofferenze: l’impatto emotivo si affronta soprattutto se si hanno affianco i propri familiari e le persone affettivamente vicine. Il confronto aperto in questo caso è uno strumento prezioso che permette, oltre a condividere il carico emotivo del momento, anche di esprimere le proprie ansie e preoccupazioni. Mettersi nella condizione di esprimere il proprio disagio con le persone giuste, può portare ad un immediato sollievo e a vedere la propria situazione in una prospettiva più ampia. L’importante sicuramente è affrontare questi momenti con normalità, trattando l’altro come una persona e non come un malato, perché la cura intesa come realizzazione di atteggiamenti interiori e di riconoscimento della dignità, si estende anche alle quotidiane relazioni familiari e sociali. Ci sono infatti forme di umana sofferenza che a volte non hanno bisogno di terapie ma di cura intesa come quello “stare accanto” legato all’attenzione ai modi di vivere con l’altro, in un cammino di conoscenza e aiuto relazionale. È importante quindi considerare gli aspetti interpersonali e antropologici della cura, perché come forma di esistenza, entra in gioco nell’area delle quotidiane situazioni di vita.

Non è facile affrontare la malattia oncologica perché il mutamento dell’assetto corporeo, della propria qualità di vita e della propria intimità possono creare uno stato di sfiducia, che può essere elaborato soprattutto attraverso l’altro e un atteggiamento positivo verso la propria esistenza. Quando questi momenti difficili si presentano, rompendo progetti e speranze, sembra che il ritmo della “vita normale” sia sospeso e che non ci sia spazio per altro che per la malattia. Eppure, in questo spazio-tempo così particolare, vissuto da ognuno in modo diverso, la persona può rendersi conto del valore così importante delle relazioni.

«Il tempo non aspetta nessuno. Raccogli ogni momento che ti rimane, perché ha un grande valore. Condividilo con una persona speciale, e diventa ancora più importante».
A. Rimbaud (1854-1891)

 Martina Basciano

[Immagine tratta da Google Immagini]

Il valore del tempo a partire dalla malattia settembre 15th, 2017Martina Basciano
07 Feb 2017
Sticky Post By Lorenzo Gardellin Posted in Articoli Recenti, Cultura, Fil(m)osofia, Pop Filosofia Permalink

Arrival, una fantascienza nuova

Sticky Post By Lorenzo Gardellin On 7 febbraio 2017

Candidato a otto premi Oscar, nelle sale in questi giorni, Arrival è il nuovo film del regista canadese Denis Villeneuve, noto al grande pubblico per pellicole come Prisoners, Enemy e Sicario. Aspettando l’attesissimo seguito di Blade Runner Villeneuve si cimenta con grande maestria nel genere della fantascienza, non tradendo le aspettative.

Dodici astronavi aliene, nere come la notte e con la forma di un grande guscio, arrivano sulla Terra, stazionando ognuna in un punto diverso del globo. La vicenda si intreccia con la vita della linguista Louise Banks (Amy Adams), reclutata per poter comunicare con la nave del sito nel Montana, negli Stati Uniti. Completa il team di ricerca il fisico teorico Ian Donnelly (Jeremy Renner). I due, assistiti dal colonnello Weber, cercheranno di instaurare un dialogo con gli alieni arrivati sulla Terra, in un crescendo di eventi che si legheranno profondamente alle loro vite.

Di navi aliene che arrivano sulle Terra, con intenzioni più o meno pacifiche, il cinema è pieno. Villeneuve invece di seguire il tema della distruzione e dell’inevitabile scontro per la salvezza dell’umanità, decide di approcciarsi alla fantascienza in modo più romantico e lieve, descrivendo un incontro di culture. Due mondi diversi, lontanissimi tra loro, razze agli antipodi che decidono di condividere invece di annientarsi. È una fantascienza nuova; gli eroi non sono più guerrieri senza macchia e paladini indomiti della razza umana, ma semplici uomini e donne, scienziati il cui desiderio di conoscenza dell’ignoto va oltre la paura della morte e della fine.

In questo Villeneuve ci riconduce a film come Incontri ravvicinati del terzo tipo (Spielberg) o a Contact (Zemeckis) o al più recente Interstellar (Nolan), dandoci l’opportunità di vedere l’altro, l’alieno, non come uno spietato colonizzatore ma come una creatura fragile e spaventato al pari dell’essere umano.

Il grande guscio nero di Arrival ricorda inevitabilmente e con grande forza il monolite Kubrickiano, archetipo e simbolo di conoscenza che qui si manifesta tramite il linguaggio, la potente arma che permea tutto il film, capace di piegare e spiegare il tempo a suo piacimento. Nella pancia dell’astronave il bianco e il nero alieni illuminano e oscurano, lasciando i protagonisti della storia e noi spettatori, sospesi in una dimensione ovattata e distante. I due colori così presenti e vivi sono il foglio e l’inchiostro tramite i quali prendono forma le lettere di questa nuova e misteriosa lingua; dei grandi cerchi neri che metaforicamente simboleggiano la vita e il tempo. La lingua è il motore e la linfa vitale di questo poema spazio-temporale di cui Louise è l’eroina, la prescelta portatrice di un grande dono. La sua vita si svolge e si riavvolge, torna indietro e poi avanti, in una giostra di flashback e voci fuori campo narrata poeticamente, con l’aiuto di una grande fotografia e di una colonna sonora che tiene sempre alto il battito cardiaco.

Abituati a vedere umani che parlano in inglese ad esseri provenienti dallo spazio profondo e che impugnano il fucile ancora prima di comprendere chi hanno di fronte, si rimane piacevolmente colpiti dal vedere alieni che gettano inchiostro su uno schermo bianco e che di fronte hanno gli occhi lucidi e carichi di emozione di un’ottima Amy Adams. Con l’ingenuità di una bambina impugna una penna e scrive HUMAN su una lavagna bianca. La più semplice delle parole per descriversi, carica di un significato così complesso e grande.

Lorenzo Gardellin

[Immagine tratta da Google Immagini]

Arrival, una fantascienza nuova giugno 29th, 2018Lorenzo Gardellin
04 Dic 2016
Sticky Post By Federica Bonisiol Posted in Articoli Recenti, Cultura, Filosofia e bambini, Interviste, Odore di libri Permalink

Filosofia per piccoli curiosi: intervista agli autori de “I perché di Arturo”

Sticky Post By Federica Bonisiol On 4 dicembre 2016

Filosofia ed infanzia stanno pian piano avvicinandosi sempre più, sulla scia di una sempre più consapevole attenzione verso la crescita e la formazione di bambini e ragazzi. Sono molte infatti le iniziative rivolte ai più piccoli che vengono proposte e realizzate con l’obiettivo di offrire momenti di gioco, svago, apprendimento e riflessione volti ad arricchire il bagaglio di strumenti con i quali i bambini possono conoscere e scoprire il mondo e costruire se stessi.
Una nuova proposta fresca di stampa proviene da Roberta Gaion e Damiano Cavallin, autori del libro I perché di Arturo – Giochi I perché di Arturo_Coperina_La chiave di SophiaFilosofici per bambini curiosi (Andrea Pacilli Editore, 2016). Illustratrice e scenografa la prima, insegnante il secondo, Roberta e Damiano hanno unito i loro disegni e i loro testi per dare vita ad uno strumento che può essere sfogliato, letto e guardato in mille modi! Da soli, con l’aiuto dei genitori o di un fratello più grande, in gruppo, in aula, I perché di Arturo si adatta alle situazioni più varie suggerendo ottimi stimoli di riflessione tanto per un momento soli con se stessi, quanto per l’ideazione di un’attività di classe.
Sono molte infatti le domande che Arturo, il giovane protagonista, si pone nel corso della sua giornata, relazionandosi con le esperienze che ha modo di fare, con il mondo che lo circonda, con il proprio istinto, con gli insegnamenti dei suoi genitori. Alcuni interrogativi riescono ad avere una risposta; altri invece rimangono sospesi, forse in attesa del parere e delle idee di qualche piccolo lettore! Buona lettura!

 

Roberta e Damiano, come è nata l’idea di realizzare questo libro?

L’idea di realizzare un libro rivolto ai bambini ci affascinava da diverso tempo, così il progetto grafico è nato spontaneamente, man mano che si strutturava il testo. Illustrare un libro di filosofia per l’infanzia non è semplice: significa infatti trovare un modo per raffigurare dei concetti intangibili, cercando di renderli chiari e accattivanti anche per un pubblico giovanissimo.
L’espediente che abbiamo adottato è stato quello di raccontare una giornata di gioco all’aria aperta di un bambino, anche se spesso quello che accade sembrerebbe aver poco a che fare con l’attività filosofica. Arturo si guarda allo specchio, mangia, corre in bicicletta a caccia di lucertole, si diverte, si annoia e, soprattutto, si fa molte domande. Arturo è un bambino “curioso” che cerca il significato delle sue azioni, anche quelle più banali.

Come avete scelto i tre temi presentati − il sé, il tempo, la giustizia − e perché li avete ritenuti centrali per il vostro progetto?

Abbiamo deciso di affrontare tre questioni che compaiono abbastanza presto nella mente del bambino: il tema dell’identità, dello scorrere del tempo e del bene e del male. Ci sembrava interessante perché si tratta di concetti che, durante l’infanzia, si presentano in forme profondamente diverse da quelle tipiche dell’età adulta. Un bambino può tranquillamente iniziare un discorso con suo padre dicendo: “quando io ero grande e tu eri piccolo”. Quale immagine del tempo e dell’identità nascondono, ad esempio, espressioni di questo tipo?

Avevate preso in considerazione anche altre tematiche?

In futuro ci piacerebbe toccare altre questioni, vicine alla filosofia della mente (Cos’è il pensiero? È reale quello che vedo? Cosa sono i sogni? Esistono gli altri?), alla filosofia della religione (Dio esiste? Da dove viene l’universo? Cos’è la morte?) o alla filosofia politica (Cos’è la libertà? Qual è la forma di governo migliore?), ma anche questioni attuali, legate ad esempio alla società multiculturale, all’ecologia o all’affettività.

A chi è rivolto il vostro libro?

Non abbiamo immaginato un’unica tipologia di lettore. Ci piacerebbe, infatti, che il libro venisse letto e sfogliato in gruppo, intrecciando così diverse fasce d’età. Da un lato, le pagine più narrative sono facilmente accessibili a bambini relativamente piccoli (dai 6 anni in poi); dall’altro, gli approfondimenti su filosofi, sociologi e scrittori puntano ad un’età più alta (almeno 10 anni). Anche un adulto potrebbe trovare, tra le righe, utili stimoli di riflessione.
In ogni caso, e non si tratta di un paradosso, ciò che è più importante in questo libro è proprio ciò che non poteva in alcun modo essere scritto, ovvero il dialogo vivo che ci auguriamo possa nascere tra i lettori e all’interno delle loro menti. Leggere è, soprattutto durante l’infanzia, un’attività plurale, che coinvolge sempre almeno due persone.

Negli ultimi anni si riscontra un maggiore interesse riguardo l’applicazione della filosofia in attività o in laboratori rivolti ai bambini. Secondo voi per quale motivo?

L’apertura della filosofia al mondo dell’infanzia si colloca all’interno di un movimento molto più ampio di proliferazione di attività e pratiche filosofiche al di fuori dei tradizionali ambienti accademici. Le cause sono indubbiamente molteplici e complementari. Per un verso si tratta di un’esigenza interna alla filosofia stessa: quando viene ristretta all’interno del rigido perimetro accademico, prigioniera di un lessico esoterico dietro il quale si cela talvolta il vuoto pneumatico, finisce inevitabilmente per inaridirsi. Da qui la necessità di riprendere nuovamente contatto con la vita, anche nelle sue forme più istintive e immediate. Contemporaneamente, l’estensione della filosofia è anche l’effetto di una richiesta che giunge dall’esterno: la progressiva riduzione dell’influenza della religione e il crollo delle ideologie politiche, hanno spinto gli individui a cercare altrove delle risposte al proprio bisogno di senso, aprendo così nuovi spazi per la filosofia.

Filosofia ed infanzia dunque non sono due mondi distanti ed incomunicabili?

Platone avrebbe vietato la filosofia ai minori. La filosofia può essere, infatti, tremendamente perturbante, insidiosa e pericolosa. Per questo, secondo Platone, andrebbe proposta solo a chi è già maturo, affinché non ne sia danneggiato e non finisca per farne cattivo uso. Non credo che questo pericolo vada sottovalutato; ma è al contempo innegabile che non esiste età in cui le più profonde domande esistenziali (Chi sono io? Che senso ha la vita? Cos’è il tempo? Esiste Dio?) vengano poste con così tanta urgenza e partecipazione emotiva come accade nell’infanzia e nell’adolescenza. E quando un bambino, con la sua spiazzante ingenuità, ci rivolge queste domande, se non vogliamo ignorarlo abbiamo solo due possibilità: offrirgli risposte precostituite e dogmatiche oppure invitarlo a pensare. Il che non significa, ovviamente, leggergli la Critica della ragion pura prima di andare a dormire. L’invito a pensare dovrà tenere conto delle specificità dell’infanzia, assumendo una forma più simile alla fiaba che al trattato. Ma, come proprio Platone ci ha insegnato, ci sono fiabe “filosofiche”, che accendono e alimentano il pensiero, e fiabe semplicemente menzognere o manipolatrici, che spesso non si raccontano solo ai bambini, ma anche agli adulti.

La scelta di avvicinare i bambini alla filosofia secondo voi nasce più da un bisogno naturale del bambino o dalla volontà degli adulti, genitori o educatori che siano?

Con un pizzico di autoironia potremmo dire che i filosofi, non sapendo più che lavoro inventarsi, data la loro crescente quantità e manifesta inutilità, hanno ben pensato di iniziare a fare concorrenza agli educatori (con la Philosophy for Children) e agli psicologi (con il Counseling filosofico). Due operazioni che hanno, innegabilmente, un chiaro fine commerciale. Il cinico, che guarda al filosofo con malizia, coglie senza dubbio una parte della verità. Ma la realtà è probabilmente più complessa. Certo, è difficile che un bambino chieda spontaneamente: “Per favore, oggi posso fare filosofia?”. È ovviamente molto più probabile che chieda: “Posso andare a giocare?”. Ma è anche evidente che molte delle domande che gli ronzano in testa hanno una marcata natura filosofica, anche se lui difficilmente ne è consapevole.

È davvero importante far riflettere “filosoficamente” i bambini oppure si possono ottenere gli stessi risultati attraverso altre pratiche o altre attività?

Il pensiero si sviluppa in molte forme e attraverso tante attività. Realizzare un piccolo esperimento scientifico fa crescere il pensiero. Osservare gli insetti con la lente di ingrandimento fa crescere il pensiero. Dipingere provando colori e materiali diversi fa crescere il pensiero. Si può quindi imparare a pensare anche senza fare filosofia. Ma la filosofia tocca corde diverse da quelle della scienza o dell’arte e rimane una palestra formidabile per esercitare il pensiero critico e razionale.

Federica Bonisiol

Filosofia per piccoli curiosi: intervista agli autori de “I perché di Arturo” luglio 10th, 2017Federica Bonisiol
21 Nov 2016
Sticky Post By Martina Basciano Posted in Articoli Recenti, Attualità, Bioeticamente, Philovintage, Relazioni Permalink

Platone e le Leggi: riscoprire la figura del medico e il suo rapporto con il paziente

Sticky Post By Martina Basciano On 21 novembre 2016

Per la filosofia greca in particolare, la natura è quel tutto del quale si fa parte in un movimento armonico del logos. Il logos in quanto legame che tutto lega, è quindi comunicazione, che consente a un tutto dinamico di realizzarsi nella differenza.

Questi aspetti che derivano dalla filosofia antica stimolano una visione della relazionalità come piena realizzazione di ogni cosa nella relazione e di una pratica capace di essere tessitura di legami e composizione di armonie.

A questo proposito lo stesso Platone nelle Leggi, sottolinea che il riconoscimento tra il medico e il paziente è necessario per l’istituzione della relazione di cura: in questo caso il medico Erissimaco consiglia di “non bere troppo”, ma l’indicazione non è sufficiente se non è correlata al consenso del paziente, che è chiamato a scegliere liberamente.

 Ancora le Leggi in merito alla differenza tra medici liberi e medici schiavi (Leggi, IV 720 c-e) : «il medico schiavo, dopo aver prescritto in base all’esperienza ciò che gli sembra opportuno, di corsa se ne va da un altro schiavo malato e così allevia al padrone la cura dei malati; il medico libero, invece, generalmente cura e indaga le malattie dei malati liberi e, studiandole dal principio secondo la loro natura e dialogando con il malato e suoi cari, impara qualcosa egli stesso dei malati e nel contempo impartisce nozioni all’infermo per quanto gli è possibile e non dà alcuna prescrizione prima di averlo convinto: solo allora, rassicurando il malato tramite la persuasione e un’assidua preparazione, cerca di restituirlo alla perfetta salute».

Nella descrizione platonica emerge la figura di un medico, che deve avere il tempo di dialogare con il paziente, per convincerlo della bontà della cura e per suggerirgli un sano stile di vita. Solo così potrà essere in grado sia di curare il malato, che di imparare dallo stesso assistito, vivendo quindi la professione anche come un’occasione di trasformazione di sé. Questo invito ai professionisti della cura può derivare dalle stesse pratiche filosofiche.

La relazione quindi, essendo bidirezionale, connette le due parti in un sistema di richiami reciproci, pur mantenendo le differenze: il medico e il paziente si trovano così a far parte, assieme, di un sistema di cura. L’elemento curativo sta nella relazione stessa, relazione che ricongiunge ciò che è stato diviso dal pensiero individualistico. Il desiderio di cura è ciò che permette alle parti di incontrarsi, in quello spazio che tutela la loro reciproca libertà. È quindi necessario riconoscersi nella propria finitezza, che emerge come espressione di un desiderio di relazione, che trova appagamento nella consapevolezza di far parte di un organico, dove ogni parte è necessaria.

La medicina come pratica di cura e l’oggetto del suo operare possono trovare riscontro in questioni che individuano nell’esperienza del curare e dell’essere curato il proprio orizzonte di riferimento. Può essere intesa quindi come una pratica indirizzata in un contesto collettivo, pratica dialogica, in cui i partecipanti possono beneficiare del contributo dell’altro per sviluppare e condividere esperienze e problematiche comuni.

Quindi nonostante le grandi innovazioni tecnologiche e le importanti scoperte scientifiche, oggi un medico non può prescindere da una vocazione umanistica, attenta alle forme assunte dalle sue parole, all’interno di un orizzonte antropologico ed epistemologico proprio di ogni terapia, nel suo specifico contesto. Con l’umanizzazione della medicina quindi, come sottolinea anche Eugenio Borgna, non si può non seguire questo comune cammino di conoscenza e di aiuto relazionale, perché non vi è una cura possibile se non, nel contesto di una relazione interpersonale, che «rimette ogni volta in discussione il modo di sentire, di vivere, di chi cura e di chi è curato»: entrambi chiamati a costituire un comune destino, nel quale ritrovare un senso comune e inserire una terapia in grado di arginare il dolore. Solo attraverso questo incontro, quindi, la persona è realmente in grado di unirsi al destino dell’altro.

Il medico dovrebbe dimostrare alla persona malata che il tempo a lui dedicato è espressione di una sincera attenzione che nasce dalle ragioni del cuore, per stimolare, in chi sta male, risonanze emozionali positive che a loro volta aiutano a rendere meno difficile l’esperienza della malattia.

Analizzare quindi il rapporto tra il medico e il paziente è importante per capire se il medico sa realmente comunicare. Dall’altro lato invece, se ci chiediamo di cosa parlano i pazienti quando chiedono aiuto al loro medico, questi non si riferiscono solamente alla loro malattia ma anche alle loro preoccupazioni e alle loro speranze infrante, che rappresentano modi di essere e di vivere, segni di una condizione umana ferita dalla sofferenza. Segni che vengono riconosciuti nel momento in cui nasce una comunicazione efficace tra il medico e paziente, che si serve delle varie tipologie di linguaggio del corpo.

Nel caso della malattia cronica, in particolare, occorre attuare un intervento che utilizza tutti gli strumenti di questa relazione, declinati in base alle caratteristiche individuali della persona che spesso ha una sua storia di dolore; importante diventa in questo caso l’accettazione del limite di un dolore “che non se ne va”, il ridimensionamento delle attese, di miglioramento dello stato fisico, e la programmazione di atteggiamenti attivi contro il progredire della malattia. Il medico quando ha a che fare con la cura di una malattia cronica, infatti, non può non cogliere in questa cronicità una vera e propria sfida, che lo sottrae al richiamo del presente e lo confronta con il futuro. Appare evidente quindi che con la cronicità viene a costituirsi una diversa forma di relazione tra il paziente e il medico, in particolare viene meno la fiducia nel medico e nella vita stessa; ma solo attraverso un’apertura il modo di essere e di curare del medico cambia completamente.

Il tipo di medico che emerge dall’opera di Platone, può essere descritto con la figura del ‘medico filosofo’, che nella cura del corpo e dell’anima cura comunicando con il malato, analizzando il suo corpo e ogni parte insieme alle altre, in una visione relazionale della persona. Come nel Carmide (155e2-157c6): «Caro Carmide, dicono ancora che è un’assurdità pensare di curare la testa per se stessa senza tenere conto dell’intero corpo»; la natura emerge come giusta proporzione nello stato di salute, quindi la natura come logos e il medico come filosofo, come massimo conoscitore del logos, istituiscono i legami relazionali che conducono alla salute. In Platone, la parola curatrice, in questo caso, emerge come la parola bella e vera; verità che trova manifestazione nella parola che ascolta e cura perché capace di chiarire le relazioni tra le parti, producendo l’armonia che dona salute.

Per questo motivo ricercare una qualità della relazione nella cura significa anche riscoprire la filosofia insita nella professione medica stessa.

Martina Basciano

Martina Basciano, nata a Conegliano il 7 giugno 1993. Ha frequentato il Liceo Scientifico della comunicazione opzione sociale al Collegio Immacolata di Conegliano, dove ha acquisito buone competenze di tipo relazionale, che le hanno permesso di formare la sua persona e di sviluppare la sua sensibilità verso il prossimo attraverso diverse esperienze di volontariato. Tramite la scuola nel marzo 2010 vince il concorso di scrittura promosso dall’associazione “Passione e vita”, mentre nel maggio 2011 partecipa al concorso di scrittura europeo “Famiglia fondamento della società in Europa e nel mondo”, promosso dall’associazione “Movimento per la vita” vincendo il primo premio. Si iscrive alla triennale in Filosofia presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia; dove ha maturato un forte interesse per l’Etica di fine vita e la Bioetica, sviluppatosi soprattutto dopo la scomparsa della madre nel 2016, alla quale è stata dedicata l’Associazione benefica di promozione sociale “Il sorriso di Cristina”. A partire da quest’anno quindi, viene nominata consigliere dell’associazione, che opera nel territorio, con lo scopo di aiutare tutte le persone che si trovano in difficoltà.

[Immagine tratta da Google Immagini]

Platone e le Leggi: riscoprire la figura del medico e il suo rapporto con il paziente luglio 3rd, 2017Martina Basciano
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