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dialogo

27 Ott 2022
Sticky Post By lachiavedisophia Posted in EVENTI Permalink

OIKOS | Circolo di Filosofia | Villorba

Sticky Post By lachiavedisophia On 27 ottobre 2022

OIKOS, UNA CASA PER TE E I TUOI PENSIERI DA CONDIVIDERE CON GLI ALTRI, DAVANTI A UN TÈ O A UN CALICE DI VINO. IN PRINCIPIO C’È UN LIBRO, LA FINE DA SCOPRIRE

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13 Dic 2019
Sticky Post By Gaia Ferrari Posted in Articoli Recenti, Filosofia pratica, Persona Permalink

Socrate maestro di simulazioni dialogiche

Sticky Post By Gaia Ferrari On 13 dicembre 2019

Praticare la filosofia ed essere un amante della saggezza sembra essere per molti un atto strettamente legato al dialogo, il quale permette la generazione di un seme di verità tra gli interlocutori che si mettono in gioco. È per questo sentire comune riguardo al significato del fare filosofia che la maieutica socratica, il metodo con cui Socrate produceva il richiamo verso le idee intelligibili, è diventata celeberrima e si è erta a forma del filosofare par excellence. Si può credere che questo metodo ricerchi la verità attraverso un dialogo costruttivo con dei non ancora filosofi, con delle persone che ancora non sono iniziate ai misteri di questa scienza, affinché attraverso la confutazione dei loro errori esse siano “spinte” oltre le apparenze sensibili e siano messe nelle condizioni di guardare all’essere eterno che tutto fonda e tutto costituisce. Il pedagogo Socrate attua la sua procedura educativa attraverso l’ironia, con cui, pretendendo di essere ignorante su un dato argomento, costringe l’interlocutore a sostenere fino in fondo la sua tesi e a chiarirne tutti i presupposti impliciti.

Per capire più da vicino come funziona nella pratica il metodo socratico, si può guardare a uno dei primi dialoghi platonici, l’Eutifrone, dove un omonimo giovane è in procinto di accusare il padre di omicidio. Socrate incontrando il giovane fuori dal tribunale, inizia con lui una lunga conversazione sulla santità: «che cosa vuol dire esser pio?» e «quale definizione gli è più appropriata, così da poter riconoscere ogni volta quando qualcuno si comporta in modo pio o empio?». Socrate come di consueto si finge ignorante sulla questione della santità e poiché Eutifrone non ha paura della sua saccenteria, dichiarando di conoscere perfettamente ciò di cui si vuole discutere, la sua interrogazione può essere avviata. Esaminando l’animo di Eutifrone, per capire se la sua è una conoscenza vera o senza fondamenta solide, il filosofo dimostra al giovane come egli sia del tutto incapace di dare una vera definizione della santità (condizione fondamentale per dire di conoscere qualcosa) e di avere una profonda confusione intorno alla materia. L’interrogazione di Socrate si conclude da un lato portando all’evidenza le incertezze e i pregiudizi di Eutifrone, dall’altro facendo nascere in quest’ultimo un luccichio, un richiamo a procedere verso la verità, che ormai si affaccia a lui e a cui lui deve solo rispondere affermativamente. Visivamente questo cammino al di fuori dell’ignoranza e verso la luce della verità, sempre e comunque attuabile grazie all’aiuto di un maestro, è esemplificato dal mito della caverna, dal cammino ascendente di un prigioniero dall’oscurità di un rifugio sotterraneo alla trasparenza del paesaggio illuminato dal sole.

Ma, si può essere veramente certi che questo metodo sia il più adatto a fare filosofia e che esso permetta nel modo migliore di attingere una verità come frutto della propria ricerca interiore? In generale, sì; assolutamente sì. Fare e praticare la filosofia è un dialogo per giungere comunemente a una verità che non è predata e predeterminata, ma nasce e cresce nel lavoro che siamo disposti a sopportare per scoprirla. Nello specifico, no; assolutamente no. Perché Socrate non attua un vero processo dialogico con coloro che fungono da suoi interlocutori, ma si limita al contrario a procedere dritto per la sua strada costringendo questi ultimi a seguirlo, acconsentendo a tutto ciò che egli dice e afferma. Gli interlocutori, infatti, non sono che pupazzetti che sanno solamente dire sì o no, delle vuote figure di sfondo che servono solamente ad esaltare la saggezza illimitata del maestro, senza mai avere nessuna vera obiezione o contro-argomento per metterlo in difficoltà. Dov’è la lotta esteriore e la contesa interiore tra ciò che si credeva il vero e ciò che si dimostrerà esserlo veramente? Il metodo socratico è più una pretesa di dialogo, in cui la contingenza e l’imprevedibilità dell’evento, a cui si sta assistendo, sono neutralizzati per far spazio al dogmatismo di ciò che è fisso e da sempre orientato verso un fine prestabilito.

Concludendo, fare filosofia è dialogare. Platone attraverso il metodo socratico ci insegna il giusto. Tuttavia il suo dialogo meccanico e pretenzioso, in cui un Socrate fintamente ignorante e realmente saccente conosce tutte le combinazioni possibile del gioco in atto, è un modello sbagliato del come della pratica filosofica. E così tale come non può che essere un vuoto che ancora resta a noi lettori e studiosi da colmare.

 

Gaia Ferrari

 

[Photo credit Pixabay]

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Socrate maestro di simulazioni dialogiche dicembre 13th, 2019Gaia Ferrari
10 Dic 2019
Sticky Post By Silvia Pennisi Posted in Articoli Recenti, Bioeticamente, Dilemmi Permalink

Etica della robotica: nuove sfide per la responsabilità umana

Sticky Post By Silvia Pennisi On 10 dicembre 2019

Le biotecnologie, le nanotecnologie, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione reinventano e modificano costantemente gli strumenti e le modalità di azione sulla materia vivente, dando origine a nuove sfide per la responsabilità umana.

Una delle recenti discipline dell’ingegneria con la quale l’essere umano si trova a convivere è la robotica. È prevedibile che nei prossimi anni conviveremo con robot e dispositivi robotici sempre più sofisticati. Molti di questi congegni saranno robot umanoidi, altri avranno connotati differenti, ma ciò non modifica sostanzialmente il problema: qualunque sarà la loro sembianza o l’uso che ne faremo, l’evidenza è che ci saranno e che forse, come ad oggi accade per gli smartphone, i tablet e i pc, farne a meno diventerà praticamente impossibile.

In realtà è difficile prevedere che dispositivi sarà possibile progettare e programmare in futuro grazie all’intervento dell’intelligenza artificiale. Pensiamo ad esempio ai robot umanoidi di Hiroshi Ishiguro, lo scienziato giapponese che ha creato un clone robot di se stesso, un androide sostanzialmente identico al prototipo umano, oppure pensiamo alla possibile realizzazione di robot creati con cellule biologiche e materiali sintetici con lo scopo di riprodurre i connotati propri di un organismo vivente.

I progressi della robotica potrebbero perfino portare alla realizzazione di intelligenze artificiali talmente sofisticate da supporre che possano sviluppare una coscienza e vita emotiva simili a quella umana.  

A questo punto sarà ancora possibile considerare i robot come dei semplici dispositivi? Sarà ancora possibile parlare di controllo esercitato dall’uomo su automi così progrediti e autonomi?

A chi verrà attribuita la responsabilità per gli eventuali danni che queste macchine potrebbero causare ledendo cose o e persone per le quali lavorano: a chi ha progettato software, a chi ha messo in commercio il robot, al proprietario o al robot stesso? E in quest’ultimo caso quale tipo di sanzione dovrebbe essere disposta e verso chi?

La possibilità di realizzare e la conseguente creazione di questi nuovi automi richiede un’attenta analisi dei molti e nuovi problemi etici, psicologici, sociali ed economici che inevitabilmente insorgono; di conseguenza è necessario che la progettazione, la costruzione e l’utilizzo dei robot venga subordinato a precise disposizioni atte a regolamentare il mondo degli automi, il rapporto tra l’uomo e l’androide e l’uso che l’essere umano ne farà.

Di qui, la nascita della roboetica ovvero l’etica applicata alla robotica, una disciplina che si fa carico della riflessione etica concernente la liceità degli orientamenti operativi di questo importante sviluppo tecnologico.

Alla roboetica l’arduo compito di elaborare criteri di valutazione che ci consentano sempre e comunque di salvaguardare e promuovere la dignità della persona cercando di comprendere in che modo questa realtà mista, composta da esseri umani e agenti autonomi robotici, possa coesistere.

Da parte mia ritengo che l’orizzonte del rapporto uomo-androide nel prossimo futuro, ma in realtà già del nostro presente, debba essere caratterizzato da una cooperazione tra intelligenza umana e intelligenza artificiale. Solo attraverso un dialogo con questi nuovi strumenti d’azione e il discernimento etico tra l’apporto positivo e la minaccia all’essere umano sarà possibile utilizzare al meglio i robot che l’ingegneria ci mette a disposizione.

 

Silvia Pennisi

 

[Immagine tratta da sentieridigitali.it]

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Etica della robotica: nuove sfide per la responsabilità umana dicembre 10th, 2019Silvia Pennisi
28 Ott 2019
Sticky Post By Riccardo Liguori Posted in Articoli Recenti, Esistenza, Filosofia pratica Permalink

Ascoltare è un’arte: i consigli di Plutarco

Sticky Post By Riccardo Liguori On 28 ottobre 2019

«Le parole tue sien conte»
(Dante, Inferno, canto X, verso 39)

La mente sembra sempre di più una centralina in perenne attività. Incapace di rallentare se stessa, a lungo andare questo suo movimento frenetico può affaticare e confondere. «La mente non è un vaso da riempire, ma come legna da ardere ha solo bisogno di una scintilla che l’accenda […]»1. L’ascolto, in questo Luna Park di messaggi, dove si colloca? Chi gioca a palla, dice Plutarco, impara contemporaneamente a prenderla e lanciarla. Ma per quel che riguarda la parola, bisogna prima imparare ad accoglierla per poterla poi pronunciare. In un dibattito, allora, deve esserci sincronia tra chi la riceve e chi la lancia: e questo avviene solo «quando ciascuno dei due [oratore e ascoltatore] sia rispettoso di ciò che gli compete»2. Perdere la capacità di ascoltare, d’altra parte, non significa forse aver smarrito la dimensione del silenzio?

Chi ascolta sa trarre profitto da chi parla, sia che abbia successo, sia che fallisca. «Dobbiamo giudicare prima noi che colui che parla, chiedendoci se anche a noi non possa accadere di incappare inconsapevolmente in qualche errore. È facilissimo, infatti, biasimare gli altri, ma è cosa sterile e vuota se quella critica non la volgiamo anche verso noi stessi»3.

Destinato a Nicandro, un giovane pronto a indossare la toga virile, L’arte di ascoltare rientra nel corpus filosofico dei Moralia. Plutarco qui si rivolge ai giovani con l’intento di farli riflettere sulla consapevolezza che la conoscenza del mondo e di se stessi passa dalla disposizione ad assumere i modi giusti per mettere gli altri in condizione di esprimersi.
Arroganza, presunzione, protagonismo e invidia sono invece i difetti da cui bisogna guardarsi quando si ha a che fare con l’ascolto. Buona pratica, suggerisce l’autore, è infatti evitare di agitarsi ad ogni battuta, aspettando pazientemente che l’interlocutore termini di esporre il suo pensiero. Anche se non lo si condivide, infatti, è bene dargli modo di integrare, chiarire o correggere quanto ha detto. «Chi infatti passa subito al contrattacco […] interrompe e spezza il logico fluire del discorso, […] e finisce per non ascoltare e non essere ascoltato»4.

Poi l’invidia, pertugio verso l’avversione a chi ci sta di fronte, «spinge l’invidioso a controllare le reazioni degli ascoltatori, e se li vede assentire, compiaciuti e ammirati, s’indispettisce e si arrabbia […]. Così, a furia di disprezzare e gettare fango, il dibattito risulta inutile e insensato»5.

L’ascolto è legato al parlare. Ma ascoltare non significa solo attivare le orecchie a quel che ci viene detto. Ascoltare non significa neppure sentire. Si sente attraverso gli organi di senso mentre è nell’ascolto che si attiva un movimento partecipato verso l’interlocutore. Leopardi, dal canto suo, affermava: «Un abito silenzioso nella conversazione, allora piace ed è lodato, quando si conosce che la persona che tace ha quanto si richiede e ardimento e attitudine a parlare»6.

Ascoltare significa cercare di cogliere ben al di sotto del giardino delle parole il mondo di chi le coltiva. Ascoltare è saper leggere nel suo codice di significati. E farlo significa cogliere il senso dei suoi discorsi, dei suoi errori e dei suoi difetti. Che poi sono anche i nostri. Perché in ciascuno, diverso dagli altri in quanto frammento finito di un tutto infinito, c’è l’intero esistere. Perché, come affermava Goethe, se parlare è un bisogno, ascoltare è un’arte.
«Come negli occhi di chi ci sta davanti possiamo vedere riflessi i nostri, così dev’essere con le parole: i discorsi degli altri siano i nostri stessi discorsi. Se teniamo presente questo eviteremo di giudicarli e, quando sarà arrivato il nostro turno, staremo più attenti nel parlare»7. Perché non avremo sprecato un’opportunità. Perché avremo fatto nostri frammenti di umiltà e pagine di galateo. Perché avremo capito che, solo allora, stavamo finalmente ascoltando.

 

Riccardo Liguori

 

NOTE
1. Plutarco, L’arte di ascoltare, Newton Compton Editori, Roma, 2014, p. 125.

2. Ivi, p. 109.
3. Ivi, p. 81.
4. Ibidem.
5. Ivi, p. 89.
6. G. Leopardi, Poesie e prose, Hoepli, Milano, 1953, p. 584 CXI.
7. Plutarco, op. cit., p. 81.

[Photo credit Pixabay]

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Ascoltare è un’arte: i consigli di Plutarco ottobre 29th, 2019Riccardo Liguori
14 Dic 2018
Sticky Post By Jessica Genova Posted in Articoli Recenti, Attualità, Politica ed economia, Sguardi Permalink

La logica in politica contro la distorsione della realtà

Sticky Post By Jessica Genova On 14 dicembre 2018

L’economista Dambisa Moyo, nel suo libro Edge of chaos, teorizza la pratica di “un voto ponderato”, da calcolare in base al grado di conoscenza e informazione in materia di politica da parte degli elettori.
La proposta provocatoria è volta a riporre maggior peso e valore al voto dei cosiddetti “elettori informati” rispetto a coloro che informati e consapevoli non sono; «se ti interessa la politica, se le dedichi tempo, energie e passione, è giusto che la tua voce, le tue scelte, il tuo voto, abbiano peso nel dibattito».
L’espressione ironica – che forse più o meno tutti abbiamo pronunciato almeno una volta – “il problema è che il mio voto vale tanto quanto il tuo”, trova una sua definizione nell’opera dell’economista americana.

Il tentativo dell’autrice è quello di risanare una democrazia ormai malata ed inefficace, vittima dei populismi del nostro tempo. Il popolo viene oggi esaltato in maniera mistica per condurlo dove si vuole, attraverso falsa informazione ed errori di ragionamento.
Viviamo in un mondo caratterizzato da pensieri banalmente scorretti, ragionamenti inesatti e dialoghi sterili, come ha anche ricordato Giovanni Boniolo, professore di filosofia della scienza, durante il suo intervento “Democrazia, scelta e conoscenza”, al Festival della Politica di Mestre 2018.

Uno dei problemi più significativi è l’assenza di capacità di ragionamento, piuttosto che un effettivo disinteresse per le tematiche politiche. Se pur ci interessassimo e ci informassimo attraverso i più disparati canali di informazione, mantenendo tuttavia un modo di ragionare scorretto, tutta la nostra conoscenza sarebbe inutile. La pratica provocatoria del “voto ponderato” non apporterebbe alcun genere di miglioramento, anzi, esalterebbe i populismi e ci consegnerebbe un biglietto di sola andata per il 1892 (nel 1893 la Nuova Zelanda fu il primo stato al mondo a introdurre il suffragio universale).

Quale potrebbe essere una soluzione? Aumentare i diritti; occorrono passi avanti e non indietro. La logica, l’arte del buon ragionare, può essere insegnata; la retorica, l’arte del buon parlare può essere appresa. L’obiettivo cui tendere dovrebbe essere non solo conoscenza dei fatti, ma conoscenza del modo di ragionare sui fatti.
Individuare il corretto ragionamento come strumento per esser accolti nel processo decisionale democratico. Esso si qualificherebbe anche come linguaggio universale, quindi la definizione di un quadro unitario volto a superare le incomprensione di comunicazione tra populisti e non. Un esempio di mancanza di comprensione è il dialogo tra sordi sul tema dell’immigrazione.

La maggior parte degli italiani pensa che la presenza di stranieri in Italia superi il 25%, nonostante le statistiche affermino una percentuale dell’8, come riportato dallo studio “Immigrazione in Italia: tra realtà e percezione” dell’Istituto Cattaneo1.
La percezione sulla sicurezza è nuovamente fallata. Sebbene l’Italia diventi ogni anno più sicura, paura e senso di insicurezza continuano ad aumentare. L’unica cosa che rimane da fare (come sostenne recentemente un esponente politico italiano) per arginare quell’emotività che spesso rischia di distorcere la percezione della realtà sembrerebbe quella di continuare a presentare questi dati, a parlarne con le persone, a presentare i fatti.

Ognuno, tuttavia, espone il proprio discorso senza comprendere quello dell’altro e il tutto si ferma ad un dialogo privo di significato. L’insegnamento della logica – del corretto ragionamento – costituirebbe lo strumento comune su cui costruire un dialogo che ponga le giuste domande in virtù della ricerca della verità.
Ma tutto questo è possibile solo se si utilizza lo stesso linguaggio: la logica. Altrimenti continueremo a rimanere impigliati in discorsi sul nulla, dove da una parte si elencheranno numeri e statistiche e dall’altra si parlerà di sensazione ed emozioni.

 

Jessica Genova

 

NOTE
1. Per leggere il rapporto: qui.

 

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La logica in politica contro la distorsione della realtà dicembre 14th, 2018Jessica Genova
06 Dic 2018
Sticky Post By Alessandro Basso Posted in Articoli Recenti, Politica ed economia, Sguardi Permalink

La cecità della sapienza ha ucciso l’autocritica

Sticky Post By Alessandro Basso On 6 dicembre 2018

«Bisognerebbe abolire il suffragio universale», questa è la citazione più frequente all’indomani di una vittoria dei populisti in un qualsiasi contesto, sia locale che internazionale. È l’espressione che compare a grappoli nei social in risposta all’esultanza dei vincitori, seguita poi da una sorta di “caccia all’ignorante” che avvalora la bontà della proposta.
Negli ultimi anni stiamo assistendo a un mutamento nel pensiero politico in risposta alle esigenze del nostro tempo; tale cambiamento sarà probabilmente meglio definito e definibile in futuro – come del resto accade spesso – quando, a mente fredda, analizzeremo la situazione col senno di poi, ma ciò non ci impedisce di provarci comunque adesso per evitare di finire nel baratro inconcludente verso il quale ci stiamo dirigendo.

Sì, perché la frase riportata all’inizio di questo articolo fa parte di una schermaglia che vede contrapporsi due anime distinte del nostro paese: i sapienti e gli ignoranti. Due categorie tra le quali è in atto una vera e propria guerra civile; mentre gli ignoranti accusano i sapienti di superbia e deridono la loro cultura, le loro conoscenze costruite in anni e anni di studio e sacrificio, questi ultimi hanno ben pensato di ripagarle con la stessa moneta.
Il risultato è la scomparsa del compromesso: ognuna delle due categorie si è convinta di essere nel giusto e di avere dalla propria parte una ragione auto attribuita, ignoranti e sapienti si sono arroccati all’interno dei loro sicuri bastioni e persistono nel lanciarsi sterili accuse.

Con la scomparsa del compromesso, è venuto meno il confronto quindi ogni possibile autocritica o revisione d’intenti; se questo può essere comprensibile in un atteggiamento limitato o chiuso, non lo è in chi si professa di larghe vedute, propenso all’ascolto e alla condivisione di idee perché contraddice questi stessi princìpi.

José Saramago in Cecità (1995) parla di una misteriosa malattia che colpisce indistintamente tutti gli abitanti di una città senza nome: ognuno ha la vista avvolta in una nebbia color latte e a causa di essa emergono i lati più egoistici e animaleschi dell’essere umano.
Tale atteggiamento è riscontrabile proprio nei sapienti, i quali stanno assumendo tratti elitari, degni di un’autentica aristocrazia sociale basata sulla conoscenza. Tuttavia ciò non comporta un cammino verso un benessere comune, un felice progresso collettivo o un qualsiasi beneficio.
Rimane tutto cristallizzato all’interno di un circolo che via via si fa sempre più vizioso, fine a sé stesso e autocelebrativo.

La visione della realtà rimane perciò distorta, molto lontana dal mondo comune, e ciò si ripercuote inevitabilmente sulla società.
Le democrazie alle quali siamo abituati da mezzo secolo sono messe in discussione dai recenti sondaggi di gradimento ma soprattutto da svariate affermazioni di compagini “populiste” – spesso xenofobe, razziste, sovraniste ecc. – sia a livello locale che nazionale. Il dialogo con queste svanisce immediatamente: non appena esse ottengono larghi consensi i sapienti se la prendono con il popolo, rozzo ed ignorante, privo di cultura generale.

Pochi degli appartenenti alla schiera dei sapienti si stanno rendendo conto che tutto ciò equivale a scavarsi la fossa elettorale e a morire… politicamente parlando. Ancora meno sono quelli che tendono a riesaminare le posizioni fino ad ora adottate per comprendere la natura di un errore che dilaga nello scontento popolare, fatto di chiusure, incomprensioni, difficili convivenze con lo straniero, insicurezza, gestione molto approssimativa dell’immigrazione, insicurezza economica… L’elenco potrebbe non avere mai fine.
In tutto questo l’immobilismo regna sovrano: non rimane confinato nella cerchia dell’una o dell’altra trincea politica, ma si espande a tutto il Paese, e volendo guardare un po’ più in là anche in tutto l’Occidente.

 

Alessandro Basso

 

[Photo credit pixabay.com]

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La cecità della sapienza ha ucciso l’autocritica dicembre 6th, 2018Alessandro Basso
15 Set 2018
Sticky Post By lachiavedisophia Posted in EVENTI Permalink

Forme e spazi di dialogo | Lanificio Paoletti

Sticky Post By lachiavedisophia On 15 settembre 2018

SAB 15 SETT PRESSO LO STORICO LANIFICIO PAOLETTI A FOLLINA (TV) UN INCONTRO CHE RISCOPRA IL VALORE DI UN DIALOGO DOVE SONO IN GIOCO LE PREMESSE PER UNA COMUNICAZIONE ETICA.

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13 Mag 2018
Sticky Post By Massimiliano Mattiuzzo Posted in Articoli Recenti, Philovintage Permalink

Dio e il Mondo in David Hume: “Dialoghi sulla religione naturale”

Sticky Post By Massimiliano Mattiuzzo On 13 maggio 2018

In quest’opera pubblicata postuma nel 1779, Hume si rifà al De natura Deorum di Cicerone, ovvero ad un dialogo a tre in cui un personaggio scettico metteva in discussione le credenze dogmatiche degli altri due. Ecco quindi che in Dialoghi sulla religione naturale troviamo Demea (teologo e mistico a priori), Cleante (teologo newtoniano a posteriori) e Filone lo scettico, il personaggio che più di tutti impersona posizioni humiane senza però averne il monopolio: Hume infatti scrive questo testo non tanto per veicolare proprie teorie quanto piuttosto per mettere alla prova il sistema di Newton sulla base dei suoi stessi princìpi.

La questione che dà il via al dialogo è la determinazione della natura divina, ma ben presto il «che cosa sia Dio» verrà sostituto da un molto più radicale «Dio esiste?». Ciò è dovuto all’emergere di criticità insite nelle argomentazioni volte a dimostrare determinate risposte alla prima domanda. Possiamo notare come Demea non possa che affermare l’inconoscibilità della natura divina, proprio per il suo essere un teologo a priori e, dunque, un teorico di un Dio “logicamente” esistente ma non determinabile poi quanto ad attributi. Cleante, invece, necessariamente controbatterà che attraverso l’esperienza sia possibile non solo essere sicuri dell’esistenza di Dio ma anche della sua natura: esso è infinito, immutabile, assolutamente intelligente ecc., e lo è in senso antropocentrico ed antropomorfo. Filone, nel corso del dialogo, mettendo alla prova le due argomentazioni (spallegiato, rispettivamente, dagli stessi Cleante e Demea), porterà − nei critici capitoli 6, 7 e 8 − alla messa in discussione di concetti che soprattutto all’epoca − ma anche contestualizzati nel contemporaneo − potevano sconvolgere massimi sistemi fisici e teologici dalle fondamenta.

In particolare, stiamo parlando del fatto che, nel sesto capitolo, non sia più scontato che l’ordine del mondo sia garantito da un’intelligenza sovrasensibile (Dio), risultato ricavato dalla sensazionale messa in questione della classica analogia proporzionale macchina:costruttore=mondo:Dio. Ci si domanda infatti perché il mondo debba essere necessariamente paragonato ad una macchina e non, ad esempio, ad un organismo vivente. Nel capitolo successivo si passerà a eliminare anche la dipendenza da un qualsiasi tipo di intelligenza, dunque anche immanente (come poteva essere l’anima del mondo del Timeo platonico); fermo restando il fatto che esista un ordine, dunque preservando almeno una finalità senza intelligenza, come ad esempio quella aristotelica. Infine, nel nono, la radicale bomba H dell’opera: anche l’ordine non è più scontato, il mondo che stiamo vivendo potrebbe essere semplicemente (ad esempio) una configurazione più resistente al cambiamento di quelle che l’hanno preceduta nel corso di sconvolgimenti universali. Siamo infatti alle porte, alla fine del XVIII secolo, di nuove teorie evoluzioniste.

Fin qui il leitmotiv è stato ciò che riguardava gli attributi naturali di Dio (infinità, assoluta perfezione, assoluta intelligenza, unicità…), totalmente disintegrati perché impossibili da ricavare, sia a priori che a posteriori. Ora il dialogo “comincia daccapo”, poiché non ci si è ancora occupati degli attributi morali di Dio (bontà, generosità ecc.). Essi sono i più importanti per la credenza religiosa ma, purtroppo per la teologia tradizionale, i più facili da demolire. Come? A partire dalla presenza del male del mondo, assolutamente incompatibile con un Dio buono e contemporaneamente onnipotente. Ecco quindi che la scelta vira sulla visione spinoziana: un assoluto determinismo in cui bene e male non sono che interpretazioni umane viziate dal pregiudizio finalista ed antropomorfo. Quindi la conclusione di Filone è di considerare la natura indipendentemente da conseguenze etiche per l’uomo.

Rimane però una domanda da farsi: da cosa nasce quindi la spinta religiosa e perché la sua importanza per la vita dell’uomo permane nonostante tutto? Anche questa risposta di Hume è radicale, ancora più di quella bayleiana precedente: la molla della pulsione religiosa è la paura − un sentimento naturale, dunque, perché totalmente a-razionale − e per questo così radicata nella natura umana. La natura emotiva della religione la fa diventare il peggior nemico della morale: ci rende insensibili rispetto ai normali sentimenti umani perché ci sottomette ad obblighi superiori che, se in contrasto con quelli umani, li vincono:

«L’esperienza ci dimostra con certezza che il più piccolo granello di onestà e benevolenza naturali ha maggiore efficacia sulla condotta umana di quanto possano le vedute più pompose suggerite dalle teorie e dai sistemi della teologia. L’inclinazione naturale dell’uomo opera su di lui di continuo, è sempre presente alla mente e si fonde con ogni sua opinione e considerazione; al contrario le motivazioni religiose, se mai agiscono, lo fanno solo a tratti e in modo saltuario, ed è raro che possano diventare abituali per la mente»1.

A chiusura, vorrei sottolineare la facilità di lettura dell’opera: Hume ha dato prova di altissima capacità letteraria. I Dialoghi sono un piacere da leggere, per nulla “pesanti” e sicuramente catturano l’attenzione del lettore interessato fin dalle prime righe.

 

Massimiliano Mattiuzzo

NOTE
1. G. Paganini (a cura di), D. Hume, Dialoghi sulla filosofia naturale, Milano, BUR, 2013, p. 391, tit. or. Dialogues Concerning Natural Religion, s.l., s.e., 1779.

[Photo credits: Ricardo Gomez Angel via Unsplash]

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Dio e il Mondo in David Hume: “Dialoghi sulla religione naturale” maggio 13th, 2018Massimiliano Mattiuzzo
25 Apr 2018
Sticky Post By lachiavedisophia Posted in Articoli Recenti, Esistenza, Filosofia pratica, Persona Permalink

Amicizia ed empatia per una felicità condivisa

Sticky Post By lachiavedisophia On 25 aprile 2018

Molto spesso si sente dire che la vita sia un viaggio. Non si tratta quasi mai di un viaggio in solitudine, poiché in molti momenti della vita siamo in compagnia di altri. Perché dedicare attenzione alla scelta delle persone che ci stanno accanto? Perché influenzano inevitabilmente la nostra vita, in maniera positiva o negativa.

Ci sono persone che contribuiscono alla nostra felicità e persone che invece ce la sottraggono, lasciando spazio solo alla sofferenza. Queste ultime sono più facili da incontrare nel nostro percorso e sono quelle più nocive per il nostro benessere. Menzogne, manipolazione, calunnie: tutti stratagemmi infantili messi in atto da chi non è sufficientemente maturo. Costoro non ci comprendono, non riescono ad instaurare una connessione emotiva con noi, hanno una visione degradata di qualunque cosa, ponendo ostacoli al raggiungimento della nostra felicità.
Ebbene sì, si tratta di persone molto infelici. E proprio perché profondamente infelici, che anche coloro che vi sono accanto non possono essere felici.

Diversamente gli amici sono persone con cui è più facile comunicare e sviluppare un buon rapporto empatico. Costoro si prendono cura di noi, ci fanno sentire a casa e desiderano il meglio dalla nostra vita. L’empatia è la formula alchemica che alimenta i rapporti sociali. Essa struttura la sua essenza attraverso il dialogo. Da qui tutta l’importanza degli studi di Marshall Rosenberg sulla comunicazione non-violenta, o delle opere sull’ascolto attivo di Carl Rogers.
Dove non c’è dialogo infatti non c’è possibilità di rapporto alcuno.
L’empatia è una forma di intelligenza, è la capacità di comprendere lo stato d’animo dell’altro, di assumere un punto di vista diverso dal proprio, il quale è ciò in cui consiste in fondo il dialogo stesso.
L’empatia diviene quindi un modo di conoscere se stessi attraverso le emozioni, perché permette di capire che tipo di persone siamo dal mondo in cui agiamo nei confronti degli altri, una volta compreso ciò che essi sentono “dentro”. Le persone non dimenticano quasi mai, neanche con l’età, di come le si ha fatte sentire.

“La felicità è una decisione che dobbiamo prendere ogni giorno” ci suggeriva la pittrice messicana Frida Kahlo. Ma se la felicità è perciò una scelta, perchè non condividere questa scelta con qualcun’altro? Come ci ha indicato Thomas Jefferson, ogni singolo individuo in fondo ha il diritto di essere felice.

Gli amici sono coloro con cui condividiamo il nostro tempo, facendo il loro meglio per aiutarci a crescere e trasformarci nella migliore versione di noi stessi. Infatti il miglior regalo che una persona possa fare ad un’altra è il proprio tempo.
Che cos’è l’amicizia in fondo se non condivisione di tempo? Che cosa c’è di più prezioso del nostro tempo, della nostra stessa vita?
Nella mia esperienza di vita quotidiana ringrazio sempre coloro che abbiano voluto condividere con me il loro tempo in maniera disinteressata.
E se l’amicizia non ha nulla a che vedere con la ricerca del profitto, tanto meno ne ha con la manipolazione degli altri. I narcisisti sono infatti coloro che manipolano i propri cari al fine di ottenere un vantaggio personale e imporre il proprio volere.
Come mi ha insegnato il professore di Psicologia sociale dell’Università Ca’ Foscari di Venezia Paolo Benini, queste persone non riescono infatti ad essere veramente serene perché ricercano costantemente negli altri un affetto che, negato durante l’infanzia, non può essere raggiunto, seminando inevitabilmente dolore nelle persone che stanno vicino.

Le amicizie ci trasformano la vita, ci riempiono di tranquillità, amore e libertà. Certamente se si desidera vivere felicemente, ci si circonda di chi ravviva l’anima e non certamente di chi la deprime.
L’amicizia non conosce imposizione di sorta, perché la sua natura non lo concede. L’amicizia è una forma di libertà, non è assoggettabile. Non può essere asservita in alcun modo: noi possiamo solamente favorire le condizioni per il suo sviluppo.

Nella nostra cultura post-umana estremamente razionalizzata e mercificata le persone si alienano le une dalle altre, sono incapaci di comunicare realmente, finendo per chiudersi in se stesse, in un mondo freddo e privo di calore umano, spaventati dal contatto dell’altro.

A volte tuttavia la solitudine non è un male, in quanto permette di riconoscere il valore della presenza dell’altro, la quale viene spesso data per scontata, quando invece probabilmente non lo è affatto.

Spesso le persone non coltivano amicizie perché hanno paura di soffrire, precludendo a loro stesse la possibilità di apprezzare una delle dimensioni della vita che che sono loro più intimamente proprie. L’amicizia richiede perciò grande coraggio. Come Epicuro ci ha insegnato, il rischio è ineludibile per amore dell’amicizia. Non dobbiamo perciò temere di instaurare autentici rapporti con gli altri,di essere veri, non dobbiamo temere di essere felici.
L’amicizia è una cosa sacra, è felicità nel vedere l’altro felice e rende noi stessi persone migliori. Una volta che avremo compreso come essere veri amici, la vita si trasformerà in modo veramente positivo perché si ama la propria vita attraverso l’altro, il quale diviene perciò un riflesso di noi stessi.

Davide Vardanega

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Amicizia ed empatia per una felicità condivisa aprile 25th, 2018lachiavedisophia
12 Feb 2018
Sticky Post By Gianluca Venturini Posted in Articoli Recenti, Cultura, Odore di libri Permalink

Le rivelazioni del silenzio

Sticky Post By Gianluca Venturini On 12 febbraio 2018
<p>Pressure Ridge with ice formations, North Pole</p>

Il grande viaggiatore ed esploratore norvegese Erling Kagge, già autore di alcuni libri come Filosofia per esploratori polari, nella sua ultima pub­bli­cazione si è voluto esercitare su un tema a lui molto caro, quello del silenzio (Il silenzio. Uno spazio dell’anima, Einaudi, Torino 2017). Un argomento, quest’ultimo, che, a parere di Kagge, non è sufficientemente frequentato dai filosofi di professione: «molti filosofi mi hanno detto […] che il silenzio non è nulla e quindi non è interessante. È un po’ un peccato», scrive egli con rammarico. Al contrario della maggior parte dei “pensatori di professione”, Kagge è infatti convinto, proprio come «i monaci sulle montagne, gli eremiti, i navigatori, i pastori e gli esploratori», che

è proprio nel silenzio che è possibile trovare «la risposta ai misteri dell’esistenza».

D’altronde, nota Kagge, «Gesù e Buddha si ritirarono in solitudine per capire in che modo avrebbero dovuto vivere. Gesù nel deserto, Buddha sulla montagna e vicino al fiume. Gesù rese conto a Dio nel silenzio. Il fiume insegnò a Buddha a sentire, ad ascoltare con cuore tranquillo, come una mente aperta e in attesa». Quali prove più eclatanti si possono desiderare del fatto che solo «quando siamo lasciati in balia del silenzio, la mente e i pensieri conquistano nuove vette»?

Il suo libro, che raccoglie e rielabora appunti, ricordi e materiali scritti in diverse occasioni, nasce da una conferenza tenuta presso l’università di Saint Andrews in Scozia. Ma non si tratta di un testo “accademico” e sterilmente concettuale, perché le meditazioni sul silenzio in esso contenute nascono da suggestivi aneddoti di viaggio (Kagge è stato il primo uomo a esplorare i cosiddetti “tre poli della Terra”: l’Artide, Antartide e l’Everest) e si legano a episodi di vita familiare o lavorativa. Anche alla filosofia viene in qualche modo dato quel che le spetta, perché Kagge, nel corso del suo studio, non dimentica di citare e di confrontarsi – anche se in modo estremamente sintetico – con autori quali Parmenide, Platone, Aristotele, Pascal, Heidegger e Wittgenstein.

Secondo Kagge, il silenzio, lungi dall’essere privo di significato, può essere molto espressivo. Per Kagge il silenzio è anzi «denso di significati tanto quanto le parole», ed esso «ha per l’appunto un compito, deve parlare. Deve dirci delle cose, e noi dobbiamo parlare con lui e sfruttare il suo potenziale inespresso». Dimostrare questa tesi non è poi così difficile come potrebbe sembrare. Le opere d’arte (dipinti, statue, bassorilievi), per esempio, non emettono suoni, eppure non si può dire che siano del tutto prive di parola; nonostante il loro apparente mutismo, esse sono infatti pur sempre in grado di “parlarci”, di “dirci qualcosa”. «L’urlo più forte che io abbia mai udito», osserva Kagge, «non ha suono; è L’urlo di Edvard Munch».

Anche la natura può parlare attraverso il silenzio. «L’Antartide», racconta Kagge, «è il luogo più silenzioso in cui sia mai stato. […] Da solo sul ghiaccio, circondato da un grande nulla bianco, riuscivo a sentire e a percepire il silenzio. […] A casa c’è sempre un’automobile che passa, un telefono che squilla […] o che vibra, qualcuno che chiacchiera, sussurra o grida. Alla fine i rumori sono così tanti che li sentiamo a malapena. In Antartide era totalmente diverso. La natura mi parlava nel silenzio. Più era totale, e più distinguevo i rumori». «Poiché non avevo nessuno con cui parlare» – continua Kagge – «stabilii un dialogo con la natura».

Ma pensiamo anche ai momenti più belli che si vivono in una storia d’amore: non sono forse i momenti di tenerezza, quelli in cui ci si guarda negli occhi in modo complice, senza parlare, o ci si scambiano abbracci, baci e carezze senza proferir verbo? «A me piace parlare e ascoltare», scrive Kagge, «ma ho sperimentato che la vera intimità si crea solo dopo che si è rimasti zitti per un po’. […] Quando tutto ciò di cui ho bisogno è tra le mie braccia, le parole sono superflue».

In generale, resta fermo, per Kagge, che il silenzio è «un amico», una «forza che arricchisce». Ma come fare per trovare il silenzio e la pace durante le nostre giornate così movimentate? Per quanto esistano in tutto il mondo “sale del silenzio” insonorizzate o «centri costruiti appositamente per offrire ai visitatori l’esperienza del silenzio», il silenzio che il nostro autore ha in mente non è un silenzio “mercificato”, acquistabile come qualsiasi altro prodotto, o un’esperienza elitaria, e nemmeno è il «silenzio assoluto», l’assoluta assenza di suoni, che è una chimera, «più un sogno che una realtà». Il silenzio “rigenerante” e “rassicurante” di cui parla Kagge è un silenzio che «troviamo dove siamo, quando ci fa comodo, nella nostra testa, e non costa niente».

Kagge lo trova ad esempio «nella natura, oppure anche in ufficio quando mi fermo appena prima di firmare un accordo, o quando smetto di seguire una conversazione e mi perdo nei miei pensieri». Se ci si fa caso, sono tutte situazioni in cui «il mondo viene chiuso fuori per un istante e il silenzio e la calma interiore prendono il sopravvento». Ecco perché per sperimentare un silenzio “di qualità” non serve viaggiare fino in capo al mondo, o recarsi in qualche lussuoso resort o apprendere particolari tecniche meditative. «In realtà», commenta Kagge, «credo che se uno si impegna strenuamente, possa sperimentare il silenzio anche su una pista di decollo all’aeroporto». Il grande viaggiatore conclude infatti con questa piccola confessione il proprio giro di riflessioni: «io ho dovuto camminare per moltissimi chilometri, ma so che è possibile trovare il silenzio ovunque. Si tratta di procedere per sottrazione. Ognuno può trovare il suo polo Sud».

 

Gianluca Venturini

 

NOTE
E. Kagge, Il silenzio. Uno spazio dell’anima, trad. di M.T. Cattaneo, Einaudi, Torino 2017 (1a ed. orig. 2016)

[Immagine tratta da “Google immagini”]

 

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Le rivelazioni del silenzio marzo 31st, 2018Gianluca Venturini
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