Tra Aristotele e “Sliding Doors”: la teoria del caos

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Da sempre ci interroghiamo sul nostro rapporto con il tempo, ci chiediamo se siamo davvero liberi, quale sia il rapporto tra le nostre scelte e quanto ci accade. Alla fin fine possiamo spremerci le meningi quanto vogliamo, ma le possibili risposte al nostro rapporto con il tempo e l’eziologia (questa parola si riferisce a tutti i fenomeni che hanno un rapporto di causalità causa-effetto) sono sostanzialmente tre:

  • tutto è dominato dal caso;
  • tutto è predestinato, vi è cioè un Destino per ognuno di noi predeterminato che però sfugge alla nostra capacità previsionale (o forse no?), l’astrologia e le arti divinatorie tentano di sondare questo confine insondabile con uno statuto epistemologico però insufficiente, almeno per come intendiamo la scienza contemporanea;
  • ci sono cose che dipendono da noi e cose che non dipendono da noi, ma le nostre scelte aprono a futuri condizionali (esempio: decido di scavare in un dato punto perché penso che ci sia un tesoro sotterrato che effettivamente c’è, azione: scavo=trovo il tesoro, il mio scavare o non scavare implica due futuri condizionali diversi. La catena di azioni è determinata, la mia scelta no).

A seconda di come decidete di interpretare le vostre esistenze, magari senza saperlo, sappiate che appartenete a una diversa scuola di pensiero greca. Non lo sapevate? Adesso sì.
Rispettivamente:

  • Scuola atomista: Epicuro ci dice che tutto è dominato dal caso;
  • Scuola stoica: Crisippo sostiene che tutto è predeterminato e “tutto è pieno di segni” che ci preannunciano ciò che deve venire, sta a noi la capacità di interpretarlo;
  • Scuola aristotelica: Aristotele prima e Marco Aurelio poi ci spiegano che ci sono delle nostre scelte che aprono o meno futuri condizionali o se vogliamo scenari/futuri paralleli diversi.

Sliding Doors è un film del 1998 che racconta le vicende di Helen, una giovane donna che lavora nelle pubbliche relazioni fidanzata con Gerry. Dopo essere stata licenziata si dirige affranta verso la metropolitana. Il momento topico da cui si origineranno due dimensioni parallele parte dall’ascensore, quando andando via dal posto di lavoro le cade un orecchino e incontra James (che diventerà un potenziale amante e un coprotagonista della storia).

Le nostre scelte anche più piccole contribuiscono a forgiare il nostro futuro, ma alcune sono più importanti di altre. Se forse scegliere tra una pasta al pomodoro, un petto di pollo o un’insalata impatta relativamente poco sul nostro futuro, scegliere di andare all’Università o meno e quale Università frequentare implicherà una nostra frequentazione di un certo ambiente per molti anni e ci esporrà ad alcuni tipi di scelte escludendone altre.

La nostra intera esistenza è sempre esposta alla dimensione del “se”, la dimensione condizionale del “se quella volta avessi scelto” o del “se non fossi andato lì allora”; l’immaginazione è uno strumento importante perché ci permette in maniera proiettiva di farci un’idea dei futuri possibili ed è così che l’umanità è sempre esposta alla dimensione utopica e ucronica dell’esistenza, utopica senza un luogo, ma realizzabile nel tempo, ucronica senza un tempo, ma in un luogo, un paradosso che si genera nella dimensione in cui possiamo immaginare cosa sarebbe successo se gli Alleati non avessero mai sconfitto i Nazisti o se ad esempio Giulio Cesare non fosse stato eliminato a seguito della congiura ordita da Gaio Cassio e Decimo Bruto.

Aristotele aveva ragione? Possiamo notare come la teoria formulata da Aristotele si possa ricondurre alla teoria del caos cioè «lo studio attraverso modelli di fisica matematica dei sistemi fisici che esibiscono una sensibilità esponenziale rispetto alle condizioni iniziali». In pratica prendiamo un sistema, in esso ci sono delle leggi deterministiche che non mutano (la gravità muta, ma non il modo in cui funziona la gravità), nonostante tali costanti deterministiche in tale sistema ci sono anche delle variabili dinamiche, che cambiano, che determinano una casualità empirica nell’evoluzione del sistema stesso. I fisici ci dicono che il comportamento casuale è in realtà solo apparente, dato che si manifesta nel momento in cui si confronta l’andamento temporale asintotico di due sistemi con configurazioni iniziali arbitrariamente simili tra loro, ma la parte che davvero ci interessa è che a condizioni iniziali simili i risultati possono essere estremamente diversi, come potrebbe darsi nel caso di due gemelli allevati in condizioni completamente differenti.

Un treno o una metropolitana sono esempi calzanti per quello che Aristotele considera un futuro condizionale: saliti su quel treno il nostro andare in una direzione o in un’altra non sarà più in nostro potere, almeno tra una stazione e l’altra. Una scelta determina cioè una catena di eventi, per Aristotele la nostra esistenza è composta da catene.

A questo punto tiriamo in ballo l’effetto farfalla, una semplificazione della nozione tecnica di “dipendenza sensibile alle condizioni iniziali” presente nella teoria del caos. L’idea è che piccole variazioni nelle condizioni iniziali producano grandi variazioni nel comportamento a lungo termine di un sistema, per esempio se un viaggiatore proveniente da una macchina del tempo tornasse indietro di milioni di anni e nel suo “safari” calpestasse accidentalmente una farfalla ciò potrebbe comportare un futuro completamente diverso dove magari l’umanità non si è mai evoluta o forse nemmeno esistita.

«Lo spostamento di un singolo elettrone per un miliardesimo di centimetro, a un momento dato, potrebbe significare la differenza tra due avvenimenti molto diversi, come l’uccisione di un uomo un anno dopo, a causa di una valanga, o la sua salvezza» Alan Turing, Macchine calcolatrici e intelligenza, 1950.

Scrivevo prima che se magari possiamo sottovalutare l’importanza tra lo scegliere una pasta al pomodoro, un petto di pollo o una insalata (anche se l’effetto farfalla ci direbbe di stare attenti anche a questo tipo di scelte) forse ci converrebbe riflettere di più su quelle scelte importanti che aprono a futuri condizionali diversi perché alla fin fine la nostra vita non è che la somma di tutte le nostre scelte. Se quando la nostra vita inizia il tasso di indeterminazione è molto alto e fino a quando siamo giovani il nostro spettro possibilistico è molto ampio, mano a mano che invecchiamo siamo sempre più soggetti all’effetto imbuto, cioè la riduzione del nostro spettro di possibilità: anche a 90 anni possiamo viaggiare, ma magari non sarà come farlo a 20 o almeno la quantità di futuro opzionale e opzionabile sarà probabilmente più ridotto.

 

Matteo Montagner

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

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Dino Buzzati, “Poema a fumetti”

Oggi lo si definirebbe una graphic novel e sarebbe riconoscibile all’interno di un vero e proprio genere letterario, che negli ultimi decenni ha prodotto opere di autentico rilievo e si è creato un pubblico attento; ma nel 1969, quando Dino Buzzati pubblica il suo Poema a fumetti, provoca una clamorosa sorpresa. L’autore di un piccolo classico come Il deserto dei Tartari, che in trent’anni di carriera letteraria ha inventato una sua originale interpretazione del fantastico e ha reinterpretato generi letterari come l’erotismo (Un amore, 1959) o la fantascienza (Il grande ritratto, 1960), propone un’opera narrativa del tutto inedita, il cui breve testo si intreccia a immagini realizzate dallo stesso autore.

Dino Buzzati 1 - La chiave di SophiaI critici e molti lettori sono spiazzati da un romanzo che impone una lettura del tutto nuova. Eppure non si tratta, per l’autore, di una novità: già nel 1945 ha pubblicato e illustrato personalmente il libro per ragazzi La famosa invasione degli orsi in Sicilia; da tempo è conosciuto anche come pittore, Dino Buzzati 2 - La chiave di Sophiae pochi anni dopo, nel suo ultimo libro (I miracoli di Val Morel, 1971) ripropone attraverso una raccolta di surreali Dino Buzzati 3 - La chiave di Sophiaex-voto un’originale commistione tra testo e immagini.

 

 

La vicenda, invece, si riallaccia a una tradizione illustre, e si ispira alla mitologia: la storia di Orfeo che commuove col suo canto le divinità degli Inferi per riportare in vita la sposa Euridice, ma finisce col perderla nuovamente.

Dino Buzzati 4 - La chiave di SophiaE insieme il suo libro è una storia d’amore e di morte, secondo una tradizione illustre e antica. Una storia ispirata alla mitologia, la storia di Orfeo che scende negli inferi a commuovere le divinità col suo canto per riportare in vita la sua sposa Euridice, ma finisce per perderla nuovamente. Un racconto già cantato infinite volte in letteratura, in arte, in musica, qui alluso attraverso la storia del giovane Orfi, un cantante di successo che rimane sconvolto dall’improvvisa morte della sua amata Eura. Ma Orfi scopre un passaggio che porta nell’aldilà: un’anonima porta a pochi passi da casa sua, a Milano nell’inesistente via Santerna (immaginata nelle vicinanze di via Solferino, dove Buzzati lavorò per tutta la vita al Corriere della Sera).Dino Buzzati 5 - La chiave di Sophia

Un singolare “diavolo custode”, rappresentato nella forma di una giacca vuota, gli rivela che ogni scomparso vive in un luogo che gli ricorda la sua vita precedente («Per te, Orfi, è Milano, Milano essendo la tua vita, per un altro è Zagabria, Karlsruhe, Paranà»). Ma ciò che manca nell’aldilà è lo scorrere del tempo: l’esistenza non ha variazioni, è solo «ottusità indistruttibile, uniformità, prevedibilità, noia», agli antipodi della nostra vita preziosa proprio per la sua brevità. Dino Buzzati 6 - La chiave di SophiaCosì Orfi offre agli spiriti la cosa più preziosa, un canto che restituisca loro il ricordo del piacere e della bellezza.

In questo modo, Orfi ottiene 24 ore di tempo per cercare Eura. Sotto le volte di una gigantesca stazione ferroviaria, le anime stanno salendo su giganteschi treni a molti piani che li porteranno alla inconoscibile destinazione finale. Dino Buzzati 7 - La chiave di SophiaOrfi trova Eura tra loro, cerca di riportarla indietro, ma è lei a resistere: a differenza di Orfi, lei è già consapevole che la morte è una potenza irresistibile. I morti sono tutti stanchi, incapaci di opporsi al loro destino. In un’affannosa sequenza il tempo lasciato a Orfi si consuma del tutto, Dino Buzzati 8 - La chiave di Sophiae il giovane si ritrova davanti alla soglia, in via Santerna, incerto se tutto non sia stato un sogno. Ma il piccolo anello di Eura, rimasto nelle sue mani, gli dice che invece tutto è realmente avvenuto.

 

 

Dino Buzzati 9 - La chiave di SophiaUn breve riassunto come questo può solo dare una vaga idea di un romanzo per immagini, nel quale ogni singola tavola costruisce la Dino Buzzati 10 - La chiave di Sophiavicenda e insieme propone continui omaggi (dichiarati dall’autore nei ringraziamenti iniziali) che vanno da Salvador Dalì ai fumetti pornografici; ma in questo magma Buzzati riesce a essere sempre fedele a se stesso, ai temi che ha raccontato in tutta la sua vita di scrittore: il senso dell’attesa, il destino che incombe sugli uomini, la morte come presenza inesorabile nella vita umana.

 

 

 

Giuliano Galletti

DINO BUZZATI, Poema a fumetti, Milano, Mondadori, 2016

La saggezza come antidoto alla disperazione

«Beato l’uomo che ha trovato la sapienza…»
Proverbi 3, 13.

Quante volte nel corso della nostra vita ci sentiamo in balia del destino? Quante volte ci sembra di naufragare di fronte agli eventi? Quante volte concludiamo di non aver alcun potere di modificare il corso della nostra storia personale?

Lo stoicismo e Seneca in particolar modo, suggeriscono che anche rispetto alle circostanze più avverse, anche di fronte a un destino ineludibile, l’uomo ha ancora una dimensione in suo potere: la saggezza. Seneca è maestro di saggezza e tutti i suoi scritti filosofici e letterari rappresentano un preciso itinerario verso la serenità.

Il filosofo romano definisce la grandezza d’animo di un individuo sulla base della sua capacità di sopportare con saggezza e serenità le avversità dell’esistenza. Tutto questo richiede un impegnativo e profondo percorso alla riscoperta della propria forza interiore. Un cammino che può condurre ad accettare serenamente gli eventi della vita, compreso l’avvenimento inesorabile per antonomasia: la morte. Per farlo occorrono: conoscenza profonda di se stessi, autocontrollo, imperturbabilità (atarassia) e distacco dalle cose materiali. Il saggio stoico è imperturbabile, completamente padrone di se stesso. Egli, come afferma Epitteto, desidera che accada ciò che accade e non ciò che desidera. Il saggio è incrollabile, rimane impassibile di fronte a ciò che gli giunge dall’esterno, non prova più alcun turbamento dell’anima.

Il carattere apparentemente inarrivabile dello stoicismo, nella vita quotidiana si colora di una profonda umanità, si avvicina all’esistenza del singolo, manifesta il suo carattere “terapeutico”, perché aiuta l’uomo a riscoprire che anche quando ci si trova di fronte ad un destino crudele e irreversibile, si ha ancora la possibilità di scegliere come vivere interiormente quel destino, con saggezza e serenità.

Seneca nei suoi scritti ci riporta costantemente a riflettere sulla nostra vita interiore, sulla nostra anima. Egli stabilisce che a contare è la qualità della nostra esistenza e non la quantità. Dove per qualità egli intende quella della nostra anima, della nostra esistenza interiore. Ed è proprio dalla disposizione dell’anima che dipende la qualità dei nostri giorni, dunque è da essa che è necessario ripartire per risanare la nostra esistenza troppo spesso ferita in modo straziante dagli eventi.

Nel De brevitate vitae Seneca sostiene che non è la quantità dei giorni a definire la lunghezza della nostra esistenza, quanto piuttosto il modo in cui la viviamo. La saggezza conduce alla tranquillitas (pace dell’anima) e colui che la raggiunge vive serenamente, in modo quieto, nulla lo condiziona, nulla lo influenza negativamente. Anche nell’oceano in tempesta la sua barca è ben ancorata e si mantiene stabile. Solo in questo modo si evita di essere corrosi dal pensiero del futuro e dalla paura della morte.

Vivere con saggezza significa vivere pienamente, non disperdere i propri giorni e le proprie energie in occupazioni e preoccupazioni vane, perché «in realtà, non è che di tempo ne abbiamo poco; ne sprechiamo tanto»1. Vivere, afferma Seneca, significa disporre «di ogni giorno come della vita intera»2. Solo in questo modo è possibile un’esistenza completa. La vita infatti sarebbe lunga ma l’essere umano l’accorcia dissipandola. Siamo proprio noi a renderla breve e ciò risulta evidente se pensiamo a quanto tempo impieghiamo ad accumulare denaro, ad abbandonarci a effimeri divertimenti e a passioni superflue di ogni genere. Seneca sostiene che la maggior parte degli uomini disperdono il proprio tempo perché «corrono solo dietro a faccende inutili»3. Per questo egli scrive che molti uomini sono rimasti a lungo su questa terra ma non hanno vissuto a lungo, sentenza da cui emerge, come ribadisce anche nelle Lettere a Lucilio, che non è la durata della vita che conta, ma l’uso che di essa ne viene fatto.

L’autore è consapevole che l’arte di vivere saggiamente è una lunga e faticosa conquista e per questo afferma: «per imparare a vivere ci vuole tutta la vita e, cosa ancor più stupefacente, ci vuole tutta la vita per imparare a morire»4.

Il segreto consiste nel desiderio e nella ferma volontà di conoscere i propri moti interiori e nel prestare ascolto alla propria coscienza. Agire secondo coscienza significa essere sempre presenti a se stessi. In ogni azione, in ogni espressione, in ogni decisione chiedersi il senso di quanto si sta compiendo, evitando, come capita ai più, di interrogarsi sulle proprie gesta solo dopo averle compiute. Anche in questo consiste la saggezza, celebrata da Seneca con le seguenti parole: «soli fra tutti raggiungono la vita serena coloro che si dedicano alla sapienza; sono i soli che sanno vivere»5.

Le molteplici difficoltà che attraversiamo nella nostra esistenza, esigono un rimedio efficace che parta dalla sorgente interiore presente in ciascuno. La saggezza è questo rimedio. Seneca asserisce che, quando non è possibile modificare gli eventi esternamente, è possibile risolverli e modificarli interiormente e questo dipende da come ci disponiamo verso gli eventi stessi.

Gli insegnamenti del saggio stoico vanno dunque riscoperti ed evocati come la possibilità esistenziale della serenità e della gioia. La vita vissuta con sapienza è un’esistenza piena e lunga, ove vengono riconosciuti il senso e la preziosità dei singoli istanti.

E a coloro che non vivono secondo sapienza, Seneca ricorda:

«Nessuno ti restituirà più  i tuoi anni, nessuno ti renderà un’altra vota a te stesso. La vita proseguirà lungo la strada per cui si è avviata, senza fermarsi né guardare indietro. E lo farà in silenzio, senza rumore, senza nulla che t’avverta della sua velocità […] correrà com’è partita il primo giorno, senza deviazioni né soste. Cosa accadrà? Tu sei affaccendato, ma la vita ha fretta: intanto arriverà la morte e per lei, tu lo voglia o no, il tempo dovrai trovarlo»6.

Alessandro Tonon

NOTE:
1. Seneca, La brevità della vita, tr. it. di G. Manca, Einaudi, Torino 2015, p. 3.
2. Ivi p. 33.
3. Ivi, p. 53.
4. Ivi, pp. 29-31.
5. Ivi, p. 69.
6. Ivi, p. 37.

[Immagine tratta da Google Immagini]

Uomo innocente, uomo di pena

La preghiera[1]

1928

Come dolce prima dell’uomo
Doveva andare il mondo

L’uomo ne cavò beffe di demòni,
La sua lussuria disse cielo,
La sua illusione decretò creatrice,
Suppose immortale il momento.

La vita gli è di peso enorme
Come liggiù quell’ale di ape morta
Alla formicola che la trascina.

Oh! rasserena questi figli.
Fa’ che l’uomo torni a sentire
Che, uomo, fino a te salisti
Per l’infinita sofferenza.

Sii la misura, sii il mistero.

Purificante amore,
Fa’ ancora che sia scala di riscatto
La carne ingannatrice.

Vorrei di nuovo udirti dire
Che in te finalmente annullate

Le anime si uniranno
E lassù formeranno,
Eterna umanità,
Il tuo sonno felice.

Dinanzi ad una quotidianità grondante sangue – che ha tutto un solo colore, un solo nome, pulsa vivo in un solo corpo- è inevitabile domandarsi se sia possibile l’innocenza: se lo sia mai stata, se lo sia ancora. È inevitabile domandarsi donde venga la brutalità dell’uomo, se sia innata e inevadibile oppure accorsa, posticcia: la perversione d’una strada dapprima diritta. E ancora: cosa ne è delle persone che sono vittime di brutalità, alle quali è data una morte che appare violentemente contro natura, una morte che si rifiuta, che ferisce nel profondo, con la sottigliezza d’una terribile nota stonata, tutta l’umanità?

È forse nei versi d’un “uomo di pena” e poeta dell’oblio che si possono trovare risposte almeno preliminari, un greto di parole da raspare per trovarne di più adeguate. Innanzitutto, perché sono versi scaturiti dal cuore d’un uomo che ha vissuto in prima persona la brutalità umana, che ha veduto i propri compagni cadere riversi nel nulla, ha sentito il peso insostenibile della vacuità che la guerra si lascia dietro, ha constatato quanto sia labile la misura tra l’estremo dolore e il radicale attaccamento alla vita. [2] I versi riportati in apertura sono quelli ai quali si vuol fare direttamente riferimento per tentare di iniziare a rispondere alle urgenti domande poco sopra formulate ( per se alla spicciolata e senza la compiutezza che richiederebbero). La Preghiera è una poesia del 1928 e compare nella sezione Inni de Il Sentimento del Tempo, raccolta pubblicata per la prima volta nel 1933.

Sin dalla primissima lettura di questi versi, si mostra un afflato, una vocazione spirituale incarnata in un poetare salmodiante: il poeta genuflesso dinanzi al Divino, riconosce la colpa dell’uomo che ha voluto allontanarsi dalla misura originaria, cioè dall’equilibrio in cui viveva tutta l’Eterna umanità, come raccolta in un solo corpo.

Rotto l’equilibrio originario, distrutta la pace dell’uomo con se stesso, questi ha potuto pervertire il corso del mondo; infranto il legame con se stesso, l’uomo ha potuto illudersi d’essere creatore del mondo, adorare i più oscuri frutti della propria perversione nella pietra pesante di idoli muti; volle tendere le mani a conquistare il tempo e farsi come Dio.

Avendo tradito il patto originario tra sé e il Divino, tra sé e l’armonia, l’uomo ha creduto di potersi creare da sé, di poter determinare le condizioni della propria vita: ha assunto su i sé il peso dei suoi giorni desiderandone il dominio, tollerandone a malapena il peso; ritrovandosi, come una formicola affamata d’una vittima, il peso insostenibile d’una ala d’ape: cioè il peso insostenibile di vacue illusioni.

Il poeta veste gli abiti del salmista e, al cospetto di Dio, canta i peccati dell’uomo per poi chiederne la remissione, per poi invocare la restaurazione misericordiosa d’un tempo prima del tempo, d’un uomo prima dell’uomo corrotto.

Oh! rasserena questi figli/Fa’ che l’uomo torni a sentire/ Che, uomo, fino a te salisti/Per l’infinita sofferenza.

Schiacciato sotto il peso del tradimento, l’uomo non può evadere dal proprio dolore e si ritrova a vivere una mezza esistenza essenzialmente da esso segnata: è rinchiuso in un circolo di dolore, che subisce e che procura, perché ne ha dimenticato il senso autentico. Del dolore, nella sua forma originaria, anche il Divino fa esperienza: la figura del Cristo rappresenta l’umanità del Divino sublimata per mezzo della sofferenza.

Sofferenza deriva dal verbo latino suffero che, accanto al significato di tollerare, sopportare un dolore e quindi soffrire, presenta anche quello di offrire, porgere, presentare: la sofferenza autentica, di cui anche Dio fa esperienza – e che l’uomo ha dimenticato-, è un dolore che dice già il proprio senso, la propria destinazione. È dolore che trova posto nella vita della totalità, che si colloca sin da subito in modo tale da non turbare l’armonia originaria, la misura.

Tramite la sofferenza si giunge al Divino, alla misura: «Sii la misura, sii il mistero».

Si è accolti in una dimensione che non è tanto semplicemente altra, assoluta rispetto all’umano: è piuttosto un abisso d’umanità, un oblio d’umanità in cui, smarrite le individuazioni determinate, cioè i patimenti singolari che affliggono e disegnano la persona umana, l’Umanità sia eternamente se stessa, una, armonica.

Ed è in questa dimensione che l’innocenza è di nuovo possibile come una rinnovata freschezza esistenziale. Ma si è detto che questa dimensione non è un piano assoluto, un livello ulteriore rispetto all’uomo; piuttosto – si è detto poco sopra- è la profondità dell’essere umano in cui si trova la sua più intima essenza.

Dunque, affinché l’uomo sia innocente, non è necessario che l’uomo vada oltre se stesso [3]; anzi, al contrario: è necessario, indispensabile che scavi dentro se stesso per ritrovare il proprio ἔθος (èthos), la propria configurazione essenziale, cioè la propria inviolabile identità con sé e con l’armonia cui è intimamente destinato; cioè che si vada finalmente al cuore dell’umano, dando il giusto valore alle sacrosante differenze che ci caratterizzano: impedendo, cioè, che la miniera della differenza sia campo di battaglia, che la vita sia trincea, che l’uomo sia disumano.

 Emanuele Lepore

NOTE

[1]GIUSEPPE UNGARETTI, La Preghiera, in Tutte le poesie, Sentimento del Tempo, Inni, Mondadori, Milano, 1986 (I ed. 1969).

[2]Giuseppe Ungaretti ( Alessandria d’Egitto, 8 febbraio 1888- Milano, 1°giugno 1970) combattè nel XIX Reggimento di fanteria della Brigata “Brescia”, arruolatosi volontario quando l’Italia entrò in guerra, il 24 maggio 1915. Altre informazioni bibliografiche – che pure sarebbero necessarie per una comprensione piena del poeta Ungaretti- vengono qui tralasciate, poiché non essenziali ai fini della prospettiva che si vuol proporre.

[3] Che sia fin troppo breve il confine tra oltre-uomano e dis-umano è riscontrabile nelle pagine più buie della storia dell’uomo.

Arrivano i pagliacci – Chiara Gamberale

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Allegra Lunare ha appena vent’anni. Non i soliti vent’anni: non quelli per cui devi iniziare una vita, non quelli per cui guardi soltanto davanti a te.

No. Allegra Lunare ha vent’anni, e deve ricominciare esattamente daccapo. Lasciare la casa dove ha vissuto dal primo dei suoi ricordi migliori la spaventa; la spaventa lasciare quel mare di ricordi belli e un po’ meno belli che ha paura di non riuscire a portare con sé. Così, per riuscire a non avere paura, decide di scrivere una lettera ai nuovi inquilini che abiteranno la sua amata casa, dove racconta la storia di ogni oggetto che troveranno o di quelli che non troveranno, perché li porterà con sé.

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Destino vs Libertà?

 

Non c’è scampo. Ogni qualvolta le nostre vite vengono travolte dagli imprevisti, ecco che ricadiamo nella rete del destino. Tutto ciò che va al di là dei nostri programmi e che non è in nostro potere controllare e prevedere, spesso viene associato a quell’irrazionale e inspiegabile sorte che accompagna come un’ombra le nostre vite e che, nei casi più tragici, non dà proprio pace.

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