Non dovremmo essere fedeli come i cani

Dovremmo imparare a essere fedeli come le arvicole della prateria, non come i cani. I cani amano un padrone per abitudine: se lo ritrovano in custodia e guarda caso questo padrone è anche un distributore automatico e gratuito di cibo. E così diventano fedeli. Stanno al suo capezzale se sta male, lo riconoscono e lo cercano con devozione, certo, ma sotto sotto c’è un po’ di opportunismo evoluzionista.

Ma cosa sono invece queste arvicole della prateria? Dei roditori, dei piccoli criceti che si amano alla follia e praticano la monogamia più dei cristiani.

Secondo uno studio pubblicato su Nature, condotto presso la Emory University ad Atlanta, in Georgia, il desiderio di fedeltà e della classica “relazione stabile” deriva da un collegamento nervoso, che rafforza gli scambi tra l’area decisionale e quelle della gratificazione e del piacere. Ho scritto “desiderio di”! Non “obbligo di una relazione stabile”. Perché ormai la stabilità è vista come una gabbia, un matrimonio che ci costringe alla fedeltà (almeno a quella manifesta e dichiarata).

Invece questi piccoli roditori − e anche qualche sporadico caso nel mondo − sentono proprio il desiderio di stare con un loro simile, e uno soltanto. Di amare quello e basta.

In questo caso il cuore non c’entra niente: l’amore non sta lì dove passa il sangue che viene pompato nel resto del corpo. Quello batte, continua a battere e al massimo cambia ritmo. Ma è un ritmo dettato dal cervello, dai nostri condizionamenti e da quel flusso più o meno inconscio di pensieri che ci accompagnano in ogni istante della giornata.

Quando un pensiero è piacevole, l’area del cervello della gratificazione si accende, lavora, intensifica le trasmissioni tra neuroni. Cresce.

I ricercatori statunitensi hanno analizzato le connessioni nervose degli esemplari femmina di quei criceti, in particolare tra la corteccia prefrontale (che riguarda la sfera decisionale) e il “nucleo accumbens” (ovvero il centro della gratificazione e del piacere). Dai risultati di questo studio è emerso che più le due aree comunicavano tra loro, più la femmina desiderava una relazione duratura con il maschio.
E quindi? Quindi più le scelte che si prendono portano anche piacere e gratificazione, più la relazione sarà duratura. Non è scontato. C’è di mezzo una stretta connessione tra le scelte che si fanno per se stessi e il relativo benessere che ci portano. Se scegliamo per noi e questo ci porta un grande piacere, di conseguenza aumentano le probabilità di una relazione monogama, e per di più felice.

Poi bisogna vedere se il cervello delle arvicole della prateria funziona come quello degli esseri umani.

Dai test su questi roditori è comunque emerso che la base fisiologica dell’amore e della fedeltà si trovano nel cervello. Quindi è un amore che passa per la decisione, per la scelta. Non una fedeltà da cani, legata all’abitudine e alla ricerca di un padrone. No, niente di tutto ciò, nessun padrone in amore, ma solo decisioni rafforzate dal piacere.

Questa potrebbe essere insomma una delle chiavi per risolvere i problemi di coppia. Smetterla con ‘sta cosa della monogamia per forza, per promessa o per morale. Quella non porta alcun legame con la gratificazione. Buttiamoci invece nelle scelte personali, consapevoli, libere e assaporiamo il piacere che ne deriva.

Perché non è detto che funzioni come sosteneva Goethe: «La fedeltà è lo sforzo di un’anima nobile per uguagliare un’altra più grande di lei.» La scienza alcune volte spazza via anche le frasi più romantiche, i racconti a cui era bello credere. Non ci sono anime di serie A e di serie B. Ci sono decisioni e responsabilità da cui derivano emozioni e sentimenti. E pure il battito del cuore a cui siamo tanto legati in amore.

Giacomo Dall’Ava

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Ho capito che ti amo. Abbozzo di un omaggio a Luigi Tenco

Accostarsi alla figura di Luigi Tenco fa tremare le vene ai polsi1. La sua voce melanconica ha saputo, in una maniera assai particolare, cantare la nudità dell’animo umano e mostrare che l’amore, al di fuori di ogni retorica sentimentalistica, è ben poca cosa: è un’esperienza semplice, che l’uomo vive col poco che di sé ha a propria disposizione. Una cosa da poco, che si fa spazio nel cuore dell’umano quando meno ce lo si aspetta, come risposta al naturale bisogno di ciascuno di aprirsi all’altro da sé: nasce quando non si ha niente da fare, perché si desidera qualcosa da sognare2. L’amore di cui Tenco si è fatto cantore sensibile è essenzialmente desiderio: etimologicamente, questa parola indica la mancanza delle stelle (de-sidus).  L’essere umano sa bene ciò che propriamente realizzerebbe la sua pienezza: conosciuto come ciò che manca per eccellenza, l’oggetto3 del desiderio è ciò verso cui l’umano quotidianamente tende. Nulla di sovrannaturale, nulla che sovverta la natura umana: a ben vedere, l’amore è proprio ciò che fa dell’essere umano l’unico che esso è.

Ciò che di veramente straordinario v’è nell’esperienza d’amore è costituito dalle sue imprevedibili conseguenze. Affinché l’umano possa mettersi per via e raggiungere, col passo del desiderio, ciò di cui avverte la mancanza, è anzitutto necessario che tale mancanza sia riconosciuta: più precisamente, occorre che si riconosca ciò di cui si è mancanti come un che di altro rispetto a sé. Ecco che il desiderare ha come suo passo preliminare4 l’apertura all’altro da sé: bisogna vincere l’illusione che ciascuno basti a se stesso, che si possa vivere entro i confini della propria identità – andrebbe mostrato come si possa pensare la propria identità senza perciò riconoscere l’altro da sé, ma è un altro discorso – senza morire d’asfissia. Certamente riconoscere l’altro non è cosa semplice né indolore ma è pure l’unica via possibile per la fioritura di sé: l’essere umano è originariamente in una relazione tolta la quale viene meno lo stesso umano.

Nel settembre 1964 Luigi Tenco incide per l’etichetta Jolly il singolo Ho capito che ti amo, pubblicato come lato “A” di un 45 giri e inserito l’anno dopo nell’LP Luigi Tenco. Tra le tante canzoni del nostro cantautore, questa è forse una di quelle che meglio rende l’idea delle straordinarie conseguenze che l’amore può avere in quanto apertura all’altro. Il testo, accompagnato dal delicato arrangiamento di Ezio Leoni, può essere letto come una vera e propria fenomenologia dell’amore, così come esso è comunemente esperibile da tutti.

Una persona che aveva perduto la speranza d’innamorarsi ancora, si ritrova coinvolto anima e corpo in un desiderio di cui neppure aveva idea, di prende coscienza a mano a mano; un desiderio capace di vincere l’indifferenza dietro cui a volte ci si maschera, specialmente dopo aver fatto i conti col dolore (che pure è connesso in certa misura all’amore) e si vuole preventivamente mettersi al sicuro da eventuali patimenti: l’amore è cosa semplice, la cui posta in palio è incalcolabile. Per quanto ci si schermi, accade un giorno d’aprire gli occhi su di uno sguardo che non si era mai visto brillare così tanto e se ne resta indicibilmente affascinati. L’amore è una cosa semplice: una serata come un’altra si illumina solo perché ci si avvicina ciò di cui siamo mancanti, sotto le spoglie di una persona come noi, che ci apre a tutto ciò che, altrimenti, non avremmo mai potuto considerare.

Come ciascuno sa, come ciascuno può, quando una simile attrazione fa capolino, bisogna ingegnarsi per edificare al desiderio la via migliore possibile: se si può indicare il punto che il desiderio incrocia (l’altra persona), non si può fare altrettanto né col percorso né, tantomeno, col punto d’arrivo definitivo dell’amore. A ben vedere, infatti, l’amore non termina nella persona amata: quest’ultima, piuttosto, si fa per l’amante viatico verso un che di ulteriore al quale ci si può solo affidare, affidandosi all’amato che si incontra.

L’amante che s’abbandona all’amato, grazie all’amore guadagna un’intima prossimità col bagliore di quelle stelle di cui è mancante: fosse anche solo per un istante, chi ama ha ciò che gli manca5.

Emanuele Lepore

NOTE:
1. Il benevolo lettore vorrà dunque perdonarci se incontrerà suggestioni non approfondite adeguatamente.
2. Cfr. L.Tenco, Mi sono innamorato di te: il brano, già pubblicato su 45 giri, è poi confluito nel primo album del cantautore di Cassine, che prende il nome da quello del suo autore, pubblicato nel 1962.
3. Se qui si dice oggetto, lo si fa fuori di ogni retorica reificante: si intende propriamente il termine verso cui l’umano tende nel suo desiderare.
4. È a ben vedere una condizione necessaria, più che un presupposto.
5. L’espressione è paradossale ed è volutamente lasciata senza ulteriori spiegazioni, almeno per ora.

Il desiderio eclissato

Analizzare un tema come quello della pornografia e del suo rapporto con la sessualità non è cosa semplice. È necessario valutare attentamente le sfumature intrinseche a questo fenomeno, cercando di non cadere in facili semplificazioni e moralizzazioni che possono banalizzare un tema che si rivela di estrema complessità.

In che modo la pornografia si rapporta alla sessualità e che cosa la distingue dall’erotismo? La soggettività, l’individualità e il corpo come si presentano nella rappresentazione pornografica?

Spesso si crede che la pornografia sia una sorta di ‘erotismo’ più crudo ed esplicito, mentre tra le due forme di rappresentazione non solo c’è una netta differenza, ma una nega ciò che l’altra afferma. È la sessualità che entra in gioco in modo diverso nelle due forme di rappresentazione.

Michela Marzano ha sottolineato molto bene questo aspetto:

«L’oggetto dell’erotismo è il corpo erogeno: il corpo nel suo insieme in cui si concretizza il desiderio; il corpo reale non riducibile a oggetto parziale di una soddisfazione pulsionale. Quello della pornografia è il corpo-oggetto parziale, un corpo parcellizzato e privo di unità»1.

Da una parte abbiamo un corpo che ha perso la propria integrità, un corpo che diventa quasi un automa, ‘svuotato’ di ogni significato, un ‘pezzo di carne’ che viene semplicemente riconosciuto per il suo utilizzo. Di questo corpo diventato oggetto ci si concentra su singole parti e funzioni organiche, quelle che entrano in scena nella pornografia. In quest’ultima, la sessualità non appare più come un incontro, essa non riconosce la soggettività dell’altro.

Quel che è importante riconoscere e che rappresenta l’aspetto che spesso viene frainteso, è che non si tratta di considerare l’erotismo come una forma ‘dolce’ di sessualità e la pornografia, semplicemente perché più esplicita, come una forma brutale di rappresentazione dell’atto sessuale. Nessuno nega, infatti, quanto la sessualità possa avere di oscuro e violento. Pulsione istintuale e piacere si possono e si devono poter esprimere liberamente, attraverso forme molteplici e diverse. Tuttavia, nell’incontro sessuale la soggettività rimane integra, come qualcosa che non si può annientare, ma al contrario è ciò che più rende autentico l’incontro erotico.

La sessualità si fonda proprio sul pieno riconoscimento di due soggettività che si fronteggiano, che si scoprono nella loro nudità e nella loro fragilità, rivelando e nascondendo al tempo stesso. La pornografia, invece, lungi dall’essere semplicemente una descrizione esplicita dell’atto sessuale, non ha più nulla a che fare con l’incontro e con ciò che è alla base di questo, ovvero il desiderio.

Georges Bataille descrive così l’incontro sessuale:

«L’erotismo dell’ uomo differisce dalla sessualità animale, in quanto mette in questione la vita interiore. L’erotismo è nella coscienza dell’uomo, ciò che mette il suo essere in questione»2.

Nell’incontro sessuale, infatti, vi è sempre uno scarto che permane e che non può essere mai eliminato del tutto: incontro e sperimento attraverso i sensi l’alterità, ma quest’ultima non potrà mai essermi data una volta per tutte e in modo definitivo. È proprio questo che rende la sessualità una scoperta e una ricerca continua dell’altro e che fonda il ‘desiderio’, ciò che mi permette di non distruggere la soggettività che mi sta di fronte rendendola da soggetto semplicemente mera oggettualità a mio uso e consumo.

«La condanna a morte del desiderio messa in atto nella pornografia è perfettamente simboleggiata dall’occultamento del viso»3. Il viso è ciò che più rappresenta la soggettività e l’identità di un essere umano. Anche se nella pornografia la rappresentazione del viso non è completamente assente, è il significato della sua raffigurazione che si modifica. Il viso diventa una parte come un’altra di quel corpo ‘parcellizzato’, reso macchina, una ‘maschera’ che non possiede più caratteristiche umane.

Anche lo spazio e il tempo vengono completamente stravolti nella pornografia. Atti per lo più meccanici e figure stereotipate danno vita a una rappresentazione asettica, fatta di gesti a cui non appartiene più alcun significato e che sono lontani da tutto ciò che di vivo appartiene all’incontro sessuale.

Siamo così sicuri che la pornografia sia una forma ‘liberatoria’ di rappresentazione della sessualità? Non rappresenta piuttosto l’ennesimo riflesso di una società basata sul modello commerciale della transazione e dell’utilizzo che ha fagocitato anche quell’intimità e quel mistero che caratterizzano la sessualità come uno degli aspetti più affascinanti dell’interazione umana?

 

Greta Esposito

 

NOTE
1. M. Marzano, La fine del desiderio, p. 12
2. Georges Bataille, L’erotismo, p. 29
3. M. Marzano, La fine del desiderio, p. 37.

 

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Divertirsi per non pensare?

Il nostro tempo è caratterizzato dall’affermazione del divertimento come categoria esistenziale fondamentale. Gran parte delle manifestazioni umane di giovani e adulti si fonda sul divertimento, indicatore sociale di una “bella vita”. Osservando le proposte di aggregazione, le esperienze relazionali e la condivisione di quest’ultime sui social network, risulta evidente come il divertimento sia creduto l’unico sinonimo dello stare bene, dell’avere una vita piena e ricca di significato.

Tuttavia, ad un occhio più attento e profondo, la condizione esistenziale dell’attuale società del “benessere”, appare come una vera e propria contraddizione. La filosofia, il cui compito è sin dalle origini quello di comprendere e “smascherare” la realtà, rivela come al di sotto di questo stile di vita basato sul divertimento e sul desiderio di godimento senza limiti, si celino un disagio profondo e un vuoto esistenziale, dei quali è necessario rendersi consapevoli.

Indagini e statistiche di natura sociologica e psicologica, evidenziano come alla base della “bella vita” sia sottesa una precarietà esistenziale, un’assenza di disciplinamento del desiderio e un vuoto di senso dilaganti, che la società preferisce non riconoscere per perpetuare il suo sistema ideologico radicato nel consumo di ogni aspetto dell’esistenza. A ragione si può parlare di consumo, proprio perché dai più la vita non viene vissuta e portata a compimento, ma letteralmente sciupata. Nella falsa convinzione che maggiormente il desiderio di godimento, privo di legge, è spinto all’estremo, maggiormente si realizza l’esistenza. Quando in realtà il desiderio si alimenta precipuamente di assenza, di limite, di tutto ciò che non lo esaurisce e non placa la sua sete, ma continua a tenderlo verso l’infinito che è sorgente.

La filosofia e i filosofi, sono come profeti che vogliono ridestare la nostra attenzione, avvertendoci che il desiderio infinito dell’infinito, non può essere colmato attraverso il divertimento spinto oltre ogni limite. «Il divertimento, inteso come fuga, − scrive D’Avenia − si può alimentare e ripetere ad oltranza, ma il vuoto resta lì»1. Dunque, una volta finito l’effetto anestetizzante del divertimento stesso, il desiderio esistenziale, che è sete di verità, ritorna a bussare ai nostri cuori e alle nostre menti, portando con sé un carico di angoscia che esige di essere accolto e affrontato, proprio perché essenziale della nostra naturale, precaria condizione.

Pascal è stato magistrale interprete della condizione dell’uomo nel mondo e in particolare dell’uso del divertimento come “alternativa” alla riflessione su se stessi. L’essere umano appare paradossale al filosofo e matematico francese, in quanto in esso coesistono bene e male, sapienza e ignoranza, grandezza e miseria. Questo paradosso non dev’essere negato, ma integrato e compreso. Tuttavia, la maggior parte degli uomini evita di riflettere sulla propria essenza, allontanando il pensiero per la paura di inabissarsi nel vuoto, nel nulla. Gli uomini nascondono a se stessi questa fragile condizione, questi insanabili contrasti e lo fanno attraverso quello che il pensatore chiama divertissement, ovvero divertimento, meglio se tradotto come “diversione” o “distrazione”, dal latino de-vertere “volgere lontano da qualcosa”, in questo caso dalla ricerca del senso della vita. Scrive infatti Pascal:

l’unica cosa che ci consola delle nostre miserie è il divertimento, e intanto questa è la maggiore tra le nostre miserie. Perché è esso che principalmente ci impedisce di pensare a noi e ci porta inavvertitamente alla perdizione. Senza di esso noi saremmo annoiati, e questa noia ci spingerebbe a cercare un mezzo più solido per uscirne. Ma il divertimento ci divaga e ci fa arrivare inavvertitamente alla morte2.

Il divertissement pascaliano, indica propriamente quanto avviene nel nostro tempo: l’oblio della propria vera natura e condizione, la fuga da se stessi, al fine di esimersi dal pensare. Ed è proprio questo il lato tragico del nostro tempo, l’abdicare il pensiero, il quale però «costituisce la grandezza dell’uomo»3 e la sua più intima dignità. «L’uomo non è che una canna – scrive Pascal – la più debole della natura; ma è una canna pensante»4.

Il divertimento, così com’è vissuto nel nostro tempo, concede una gioia temporanea. Non appena questa finisce, l’uomo ripiomba nella sua infelicità, nel suo vuoto, nella sua miseria. In tal modo, l’uomo non vive mai il presente, il solo momento realmente esistente. Non è mai contento di ciò che ha, ma è sempre proiettato nel futuro laddove si persuade sia posta la felicità. Ecco che l’uomo non vive veramente. Anche quando crede di farlo attraverso il divertimento, semplicemente spera di vivere, procrastinando la realizzazione di se stesso nel futuro.

Il divertimento è oggi la strategia maggiormente adottata per evitare di soffermarsi a riflettere sul mistero della propria esistenza, costantemente meravigliandosi di essa, interrogandola e indagando ciò che la circonda, come insegna il pastore errante del sublime Canto notturno di Leopardi.

Quanto scritto non intende pronunciare una condanna della dimensione ludica dell’umano, o della sua naturale necessità di abbandono. Si propone piuttosto come un’esortazione, un esplicito invito a meditare criticamente, circa le forme estreme del divertimento e del godimento, ormai divenute habitus e oggetto di vanto per molti uomini (sic!). Al fine di recuperare la peculiarità umana, che è quella di essere capaci di pensare. Perché attraverso il pensiero l’uomo supera la propria miseria conoscendola e riscopre il proprio valore morale. Solo così, riconoscendo il silenzioso dialogo con noi stessi, è infatti possibile la fondazione di un’etica che ci traghetti dalla “bella vita” ad una vita bella, inondata di significato nella sua più intima e misteriosa essenza.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE:
1. A. D’Avenia, L’arte di essere fragili, Milano, Mondadori, 2016, p. 118.
2. B. Pascal, Pensieri, Milano, Edizioni San Paolo, 198712, pp. 179-180.
3. Ivi, p. 240.
4. Ibidem.

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Apocalisse dell’amore: David Casagrande intervista se stesso

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Anzitutto mi faccia dire che trovo presuntuoso che lei abbia accettato questo incontro.

Lei voleva intervistarmi, io ho acconsentito: dov’è la presunzione? Trovo piuttosto singolare che uno chieda un favore a qualcuno, sperando che costui glielo rifiuti.

Senta, vorrei essere breve, e m’impegnerò per riuscirci: detesto ogni secondo che passo con lei.

La capisco. Starmi vicino non è facile: ho un carattere terribile. Anch’io, se fossi un’altra persona e mi conoscessi, mi detesterei. Ma partiamo, dunque!

Partiamo dall’articolo sulla meraviglia. Lei sostiene che la gratitudine che proviamo innanzi alla meraviglia si chiama “amore”. Però non spiega minimamente cosa sia l’amore: potrebbe descriverci questo sentimento?

Scrive il Tao-te-ching: «Il Tao che può essere detto non è l’eterno Tao». Tao significa sentiero: io ritengo che l’Amore-vero sia esattamente questo: il punto d’arrivo (e quello di partenza) d’una strada su cui dirigere i nostri passi. Noi uomini possiamo percorrere varie direzioni, evidentemente, ma solo la strada dell’Amore è giusta.
Il problema è che, esattamente come l’eterno-Tao della tradizione cinese, anche l’Amore-Vero lo possiamo dire in mille modi, ma non riusciremo mai a coglierlo, perché l’amore-che-può-essere-detto non è l’Amore-Vero.

Come risolvere questa scollatura tra Amore-vero e amore quotidiano?

Cercando di cogliere, per approssimazione, l’Amore-vero nelle varie tipologie di amori-umani e, una volta individuato, declinarlo nella pratica.

Sia più chiaro.

Kierkegaard insegna che l’uomo è tripartito in corpo, anima e spirito, ponendo questi tre aspetti in grado crescente di perfezione. Perfezione che, però, si raggiunge solo nella sintesi: lo spirito è, appunto, sintesi tra corpo e anima: ricomprendendo i due estremi nell’eterno che li ha posti, è perfezione. Ora, a ciascuno di questi tre lati dell’umano, corrisponde una diversa tipologia d’amore.
All’elemento corporeo corrisponde l’amore fisico, la prossimità corporale. All’elemento pneumatico dell’uomo corrisponde il rispetto, l’amicizia. All’elemento spirituale corrisponde la compassione.
Delle tre, la tipologia di amore-umano che più si avvicina all’Amore-vero, è la compassione, ed è tale perché ricomprende in sé passione e rispetto, e li infinitizza.
Quando agisco con compassione, seguo la via dell’Amore-vero, pur mantenendomi nell’ambito dell’amore-umano: questo perché la compassione, essendo universale, eternizza tanto la passione quanto il rispetto.
In questo senso, così si spiega il mio articolo del mese scorso: quando mi-meraviglio io amo, perché nelle cose che provocano stupore, avverto la gratuità dell’altro-da-me; attraverso di essa, sento in me compartecipazione alla vita-del-mondo, mi inserisco sulla strada giusta – anche se poi spetta a me seguirla fino in fondo: non basta stupirsi di qualcosa per dire: sono giunto all’Amore; la strada è molto più impervia. In ogni modo, più ci stupiamo, più avvertiamo com-passione, e più l’avvertiamo, più avviciniamo l’Amore.

Ma i fondamenti dell’uomo non sono lo scontro, la lotta, il desiderio di predominanza?

Queste sono le radici dell’homo-sapiens, cioè d’una razza di scimmie, non dell’essere-umano, cioè di quella creatura che ha studiato filosofia e astronomia. Ed è questa, in verità, la cosa che più mi spaventa di questo mondo: vedo molti homines-sapientes, ma pochi esseri-umani.

La sua teoria dell’Amore-Vero, che si manifesta in compassione, prevede anche una sorta di nobilitazione del sesso?

Non esattamente. L’amore fisico non è atto-sessuale, è piuttosto bisogno-di-contatto: ciò significa che la compassione non necessita del coito, ma della prossimità fisica con l’oggetto amato.
Tuttavia è evidente che l’atto sessuale, filosoficamente, è illuminante su come l’Amore-Vero necessiti parimenti di rispetto e contatto: quando infatti mi accosto alla persona che penso d’amare e toccandola, baciandola, penetrandola, capisco che (oltre a desiderarla) rispetto ogni sua caratteristica (anche i suoi difetti), allora giungo a capire la com-passione (passione-insieme).
Se invece non ne rispetto le particolarità, cercando in lei solo precisi canoni estetici, allora non ho più a che fare con un singolo, ma con un corpo: di conseguenza, non sto “facendo-l’-amore”, mi sto “accoppiando”.

Lei mi sta dicendo che quando amiamo il partner, l’amiamo con la stessa forza con cui dovremmo amare, generalmente, il mondo…

Le sto dicendo l’opposto! Sul mondo – su ogni ente del mondo – dobbiamo aspergere la stessa compassione che riverseremmo sulla persona che vogliamo al nostro fianco.
Tutto ciò, naturalmente, sperando di intrattenere relazioni veramente d’amore … eviterò, per signorilità, di parlare qui di altri tipi di rapporti, basati s’uno squallido do ut des: ignobile mercato delle vacche ove i favori sessuali sono scambiati con oggettistica varia. Queste “relazioni” somigliano all’Amore-Vero (e alla compassione) esattamente come lo sterco somiglia alla Sachertorte.

Come facciamo a capire che l’amore che proviamo per una persona è compassione, e ci può guidare all’Amore-Vero? Come possiamo essere certi della purezza del sentimento?

Occorre ripartire da sé stessi: vede, non esiste un solo modo di innamorarsi, non esiste un solo tipo di amore, perciò dobbiamo imparare ad ascoltare le nostre emozioni. Se, quando guardiamo una persona, proviamo solo desiderio o solo rispetto, e non riusciamo a sintetizzare le due cose, evidentemente non l’amiamo.

Quali sono dunque i sintomi dell’innamoramento?

Non esiste un’eziologia: io guardo i singoli sperando di cogliere l’Universalità, non il minimo comun denominatore, quello è compito dello scienziato (con l’evidenza che la scienza non spiega il mistero, e il senso, della totalità umana); al massimo potrei raccontare quello che è successo a me, ma non credo che v’interesserebbe. Di certo una cosa è chiara: l’Amore-Vero non chiede d’essere ricambiato: lo dimostra la vita-del-mondo, che non necessariamente ama i singoli, mentre esistono singoli che amano la vita-del-mondo.

Certo, è bello pensare che lei abbia ragione: mi spaventa sapere che lei, però, sbaglia. Il mondo è odio, terrore.

Quella dell’Amore è la-strada, non l’unica-strada. Ognuno si determina a seconda delle scelte che compie: nulla obbliga l’uomo a prendere una particolare direzione, se non vuole. Ed è evidente che chi sceglie l’Amore, oggigiorno, è in minoranza.

(continua, purtroppo…)

David Casagrande

Quel desiderio di riconoscimento o quella riconoscenza che ci imprigiona?

In filosofia, non si sente parlare spesso di quella che negli ultimi decenni molte filosofe si sono impegnate a definire con il termine di “theory of care”.

Una tale corrente di pensiero, sebbene costituisca una sorta di “teoria” nell’ambito della filosofia morale, si dispiega in una vera e propria etica il cui approccio pratico permette a tutte e a tutti di dare accesso ad una filosofia incarnata, vissuta nel reale, modellata da quelle stesse pratiche quotidiane che, senza accorgercene, costituiscono il terreno nel quale nutriamo le nostre vite.

A che cosa pensiamo quando leggiamo il termine “cura”? Chi solitamente ha bisogno di una certa cura?

Ci viene in mente l’anziano signore solo, con i segni della stanchezza sul volto, un bambino che barcolla alla ricerca dell’equilibrio durante i suoi primi passi, le centinaia di persone ricoverate in un ospedale.

Ogni immagine a cui pensiamo disegna degli esseri umani che, in un modo o nell’altro, hanno estrema necessità di un sostegno esterno.

Ma siamo davvero sicuri che la cura dell’altro possa essere limitata soltanto a questi individui che, fisicamente, manifestano i segni della propria vulnerabilità?

A tale proposito, la tesi sostenuta dalle specialiste della cura concerne una sorta di ricostruzione della dimensione della dipendenza e della vulnerabilità in tutte le sue forme possibili.

In particolare, Joan Tronto definisce con il termine specifico di care tutte quelle pratiche ed attività in grado di “riparare” il mondo.

Come dunque il nostro mondo potrebbe essere riparabile? Che cosa e chi inglobiamo in questa dimensione universale lacerata dalle fratture della crisi, della guerra e della violenza? Che cosa dovrebbe essere riparato e come?

Per studiare in profondità la dimensione della cura, Tronto e molte altre studiose hanno iniziato le proprie ricerche a partire dalla decostruzione di alcuni stereotipi di genere, tra i quali quello che identifica da un lato il femminile con una serie di caratteristiche quali la debolezza, la dipendenza, la capacità a stabilire delle relazioni e una più spiccata sensibilità, mentre dall’altro lato, con il genere maschile quelle proprietà strettamente legate all’autonomia, all’indipendenza e alla razionalità, insomma con tutte quelle qualità che, nella maggior parte dei casi, fanno sì che gli uomini si dedichino ad attività lavorative aventi un certo grado di responsabilità e indipendenza, mentre la donna, in quanto docile e “sensibile”, avrebbe il compito di dedicarsi alla casa e ai bambini, così come alla cura di chi è più fragile, adattandosi a realizzare quelle attività lavorative, spesso peraltro mal retribuite, che rientrano nella sfera dei servizi assistenziali.

Non solo quindi c’è una netta distinzione, peraltro basata su una forte discriminazione, tra le attività professionali destinate agli uomini e quelle destinate alle donne; ma, come se non bastasse, ciò che fonda la discriminazione di genere è una considerazione della vulnerabilità che, nella realtà quotidiana, non può essere riferita ad una sola categoria. Come spiega bene la filosofa Joan Tronto, siamo tutti vulnerabili e dipendiamo tutti, nessuno escluso, dall’alterità. Non ci sono solamente i n”on-autosufficienti” ad esprimere una domanda di aiuto. Talvolta, è proprio chi si trova in maggiore difficoltà e chi soffre di un certo delirio d’autonomia a voler nascondere il proprio bisogno dell’altro. Ci si crede ancora capaci di poter fare tutto, ma in realtà dietro quella rassicurante falsa certezza, c’è un bisogno disperato dell’alterità, di essere guardati, capiti.

Perché quindi nascondere le proprie fragilità, se è proprio lo sguardo dell’Altro quello che cerchiamo? Perché pretendere da se stessi l’impossibile se alla fine andremo a sbattere contro il muro dei nostri limiti?

Non c’è scampo, non possiamo scappare da noi stessi.

Il riconoscimento delle proprie debolezze, in quanto costitutive della nostra stessa identità, è qualcosa che scatta in noi solamente nel momento in cui l’altro ci guarda per quello che siamo e ci accetta. Riconoscimento di sé, dunque. Tuttavia, tale riconoscimento non è possibile se a sua volta c’è stato un precedente “vuoto” di riconoscimento da parte di chi ci sta accanto e ci ama. Un riconoscimento che, però non deve tradursi in riconoscenza.

Come lo afferma bene Paul Ricoeur in Parcour de reconnaissance, la parola “riconoscimento” in francese, reconnaissance, ha due significati tra loro escludenti: da un lato con questo termine si indica il processo attraverso il quale l’essere umano può costituirsi come persona autonoma, a partire pertanto dallo sguardo di quell’alterità che, senza pretese, lo accoglie a braccia aperte così com’è; dall’altro lato, invece, la reconnaissance può tradursi in italiano con “riconoscenza”, ovvero con quel bisogno di ripagare l’altro di un favore fatto oppure di un bene ricevuto, che poi non si traduce in nient’altro che in un senso di colpa costante nei confronti di chi ha dimostrato rispetto a noi una certa benevolenza.

Le due sfumature della parola reconnaissance, lo vediamo bene, sono molto diverse l’una dall’altra; tuttavia, proprio in quanto sfumature, possono mescolarsi, producendo dei risultati tanto inattesi quanto pericolosi, presenti quotidianamente sotto i nostri occhi.

È il caso infatti di quando il riconoscimento viene richiesto secondo una qualche condizione, oppure quando l’alterità ci riconosce, ma soltanto a patto di rispettare quello che è il dipinto delle sue aspettative.

Veniamo riconosciuti sì, ma solo e soltanto se non siamo davvero noi ad essere riconosciuti.

Viene risconosciuto il nostro non riconoscimento.

Un riconoscimento ottenuto a patto di essere e diventare come dovremmo essere, invece d’inseguire la scia dell’essere e lasciarci andare al desiderio.

A quel punto è il desiderio stesso a sparire, e noi con lui.

Ed è a quel punto che il bisogno di cura non si coglie, poiché in un certo qual modo non vogliamo essere accarezzati e cullati da quelle stesse persone che non ci hanno mai dato la libertà di essere noi stessi. Uno scudo fatto di pretese, di non-desideri, di non-bisogni. In nome di un’onnipotenza che piano piano uccide e non lascia respirare l’essere.

Sara Roggi

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Rileggendo il Simposio: l’Altro che non uccide, ma fortifica

Quando Aristofane, nel Simposio1, tenta di spiegare la natura di Eros, lo fa elencando i tre casi nei quali questo può declinarsi. Il mito, infatti, narra l’esistenza di tre esseri umani e non unicamente due: la natura del primo, maschile, ebbe origine dal sole, quella femminile dalla terra, mentre il terzo, che condivideva dei caratteri dell’uno e dell’altro, nacque dalla luna e prese il nome di androgino. Quando Zeus, preso dall’ira causata dall’ambizione e dalla spregiudicatezza degli uomini, decise di tagliarli a metà così da rendere ciascuno più debole, privandolo di una parte di sé, fece sì che ciascuna di esse iniziasse la ricerca di quella che l’avrebbe completata.

Ordunque, allorché la forma originaria fu tagliata in due, ciascuna metà aveva nostalgia dell’altra e la cercava; e così, gettandosi le braccia intorno e annodandosi l’una all’altra, per il desiderio di ricongiungersi nella stessa forma, morivano di fame e anche di inattività, poiché l’una non intendeva far nulla separata dall’altra. E se una delle due metà moriva, e l’altra sopravviveva, quest’ultima cercava un’altra metà e le si annodava […]2.

Nacque così Amore, secondo il mito, dall’unione e dal completamento di due metà che, originariamente, costituivano un solo essere umano. Pertanto ciascuno di noi, prosegue Aristofane, in quanto è stato tagliato come si fa con le sogliole, è la metà, il contrassegno, di un singolo essere; e naturalmente ciascuno cerca il contrassegno di se stesso3.

Ci sono diversi aspetti, ricavati dal mito di Aristofane, sui quali riterrei importante soffermarci per portare a termine una riflessione circa la visione più comune dell’amore nella contemporaneità.

Il legame che si stabilisce tra due esseri umani ha origine dalla spinta del desiderio dell’altro che, a sua volta, trova il suo fondamento in una sorta di mancanza primordiale.

Pertanto, se continuiamo a seguire ciò che il mito suggerisce, dal momento che l’essere umano, sia esso uomo, donna o androgino, subì una scissione del proprio Sé in due parti che progressivamente si allontanarono l’una dall’altra fino a non ritrovarsi più, ciò su cui si fonda la vita di ognuno è esattamente la ricostituzione della natura originaria, possibile unicamente attraverso il ritrovamento delle due parti, in un completamento perfetto. Ciò che si desidera, dunque, è il congiungersi e il fondersi con l’amato, fino a diventare un tutto, un unico essere.

Ma a quale prezzo si paga la fusione all’interno della dimensione amorosa?

L’idea di due individui che si legano l’uno all’altro fino a fondersi richiama l’immagine di due metalli che, combinati assieme, diventano un unico e solo nuovo elemento le cui caratteristiche non sono il frutto della sommatoria e del completamento delle caratteristiche dei due elementi componenti considerati individualmente, ma dalla mescolanza delle loro qualità. La fusione, di per sé, indica una mancanza di chiarezza, una sorta d’indistinzione dei due materiali.

Tornando all’argomento che ci interessa più da vicino, quella della fusione amorosa è un’unione simbiotica che ci ricorda molto il legame che si crea tra la madre e il feto: questo, infatti, è sì una creatura distinta dalla figura materna, tuttavia entrambi fanno parte di un tutt’uno. L’uno vive nell’estrema dipendenza dell’altro, una dipendenza soprattutto fisica poiché la creatura ha bisogno della madre per nutrirsi: vive di lei.

Quando, durante la crescita del bambino, la dipendenza fisica si tramuta in dipendenza psicologica, quello che si crea è invece un rapporto fusionale che può sfiorare il patologico poiché uno dei due individui – è importante specificare che il fenomeno di reciproca dipendenza “fusionale” si crea a partire dalle figure parentali le quali non sono riuscite a fare in modo che il proprio figlio potesse “reggersi su” da solo -, vede se stesso solo come una metà che ha estremo bisogno dell’altro per sentirsi completo: stiamo quindi riprendendo il modello dell’androgino platonico basato sull’idea dell’unione degli opposti.

È talvolta la fusione che, entrando in gioco nelle relazioni d’amore, rischia di mettere in serio pericolo la crescita individuale della personalità di ciascuno.

Non esiste amore senza la messa a nudo della propria vulnerabilità, una vulnerabilità che fa sì che tutti abbiamo necessariamente bisogno dell’altro per sopravvivere; tuttavia, non può considerarsi nemmeno amore un rapporto basato sulla vitale dipendenza di uno dei due amanti.

Certo, l’amore ci spinge all’alterità, quell’alterità con cui condividiamo le giornate, attraversiamo la sofferenza, quell’Altro con cui proviamo la gioia. Tuttavia, se quest’alterità fosse lì unicamente per completarci, per renderci perfetti, per riempire tutti i vuoti lasciati da qualcuno nel corso della vita, vuoti che pertanto ci apparterranno sempre, essa perderebbe il carattere di vero “oggetto d’amore”.

Nel dialogo Platonico, Aristofane lo accenna: Amore è desiderio e ricerca.

Ma ricerca di che cosa? Desiderio di chi?

Ebbene, è quando Seneca prende la parola che la spiegazione del significato e dell’origine di Amore diventa chiara. Amore infatti nacque da Poros, letteralmente “Espediente”, “ricchezza”,e Penia, ovvero “Povertà”, durante il giorno della nascita di Afrodite, ed è per questa ragione che, da un lato essendo originato dalla mancanza, dunque da quell’ignoranza causata dalla privazione di risorse propria di Penia, e dall’altro lato, dall’avidità della conoscenza di Poros, Amore è naturalmente tendente a ciò di cui è privo, ovvero al sapere, che rientra tra ciò che di buono e bello esiste.

Se quindi, come conclude anche Socrate, Amore nasce da una forma di mancanza, ciascuno prova un sentimento d’amore nel momento in cui arriva a possedere l’oggetto della propria gioia, o meglio, più che l’”oggetto”, la persona che rappresenta il proprio bene e la propria felicità.

Nel momento in cui la si trova, non abbiamo più bisogno di porci delle domande circa l’esistenza o meno della “nostra dolce metà”, oppure “della nostra anima gemella”.

Quando si ama, le domande spariscono. Spariscono perché stiamo bene, perché non abbiamo bisogno di trovare un “Alter Ego” capace di completarci.

Siamo. E siamo insieme.

In generale ogni desiderio del bene e della felicità si identifica per chiunque nel sommo e astuto amore. […] E c’è chi dice che coloro che amano vanno in cerca della metà di se stessi; ma io dico che l’amore non è amore né della parte né dell’intero, nel caso che, amico mio, non sia effettivamente un bene, dato che gli uomini si lasciano tagliare volentieri e piedi e mani, se si avvedono che le loro membra sono malridotte4.

 

Sara Roggi

 

NOTE:
1 Platone, Simposio, BUR, Milano, 2007.
Ivi, p. 143.
3 Ivi, p. 145.
Ivi, p. 187.

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X Agosto

<p>X Agosto - Rivisitazione moderna di Pascoli</p>

Aperta e priva del risentimento emotivo scaturito dalla gelosia, questa rivisitazione del X Agosto di Giovanni Pascoli, trasvaluta la concezione decadente dell’universo, dei suoi mille firmamenti e della Terra. Alla luce della scoperta di nuovi pianeti simili alla Terra, alla ricezione di prove sempre più solide della possibilità dell’uomo di esplorare, in prima persona, l’universo, questo componimento decanta la speranza di un superamento della dicotomia tra bene e male quindi di un nuovo “sentirsi esistere” consapevole dell’esistenza naturale di bene e male sulla Terra come su ogni altro pianeta simile o difforme. Al di là del “perché il male?” e al di là del “perché il bene?”; dell’inquietudine della casualità della vita e della grandezza dell’universo in confronto alla Terra: per amore, l’uomo si getterà alla conquista della sua volta celeste e di volta in volta supererà ogni suo Bene ed ogni suo Male. Questo X Agosto è un componimento moderno e positivo, contrapposto alla negatività ed al pessimismo di Pascoli nei confronti dell’uomo, della natura e della Terra.

X Agosto

Scintillano nel cielo,
vengono ad essenza attraverso i riflessi.
Non accecano e appagano
vista, cuori, speranze;
per i poeti sono muse e tormenti.
Queste sono le mille stelle dei firmamenti.

In ognuno vi è un sole,
e cinto di luce non conosce né bene né male:
dispensa ad ogni cosa scura e profonda
una calura iraconda.
Alle stelle dona un riflesso,
alle lune le proprie veci,
ad ogni pianeta un’alba ed un tramonto.
Tutti i soli sono senza riguardi.

Così tutti i firmamenti hanno tante stelle, tante lune, tanti pianeti,
tanti nuovi giorni che nascono e muoiono;
che luccicano di luce propria e riflessa.

Così tutte le cose scure e tutte le notti s’illuminano di desiderio.

Salvatore Musumarra

Fonte immagine: NASAMoon Over Andromeda Credit & Copyright: Adam Block and Tim Puckett

Sperare è quasi sognare

La speranza sembra essere un elemento dominante nella nostra vita, ancora di più se pensiamo ai momenti deboli e difficili della nostra esistenza o alle situazioni incerte e instabili cui molto spesso siamo chiamati ad affrontare. In tempo di crisi e sconforto, la speranza sembra elevarsi all’unica roccaforte reale dalla quale ricavare sollievo e sicurezza.

La speranza connota e distingue l’uomo dagli altri esseri viventi, come altrettanto la ragione, la cultura, il linguaggio, l’arte ecc. Dal latino spes, la speranza è propriamente quel sentimento di attesa fiduciosa nei confronti del futuro; essa appartiene all’essere umano nelle sue radici più profonde poiché questi è un essere dinamico, in continuo movimento perché incompiuto, un essere teso sempre verso il futuro.

Da grandi ricercatori di sicurezze quali siamo, consideriamo la speranza quell’unico sentimento in grado di metterci al riparo dalle grandi incertezze che la vita ci sottopone, piccole e grandi che siano.

Tommaso nel definire la speranza la pone a confronto con un altro sentimento affine con il quale spesso facciamo confusione, il desiderare. Così come la speranza, anche il desiderio, per S. Tommaso, è quel movimento verso un oggetto o un qualcosa che ancora non possediamo; la speranza però si distingue dal desiderio sotto due aspetti: innanzitutto il desiderio può riguardare qualsiasi bene, mentre la speranza riguarda un bene arduo e difficile; secondo “il desiderio è rivolto a qualsiasi bene, indipendentemente dal fatto che sia possibile o impossibile; invece la spe­ranza è volta a un bene raggiungibile e im­plica una certa sicurezza di poterlo raggiun­gere

Per Ernst Bloch, scrittore e filosofo tedesco marxista, la speranza è intesa come desiderio, desiderio che non è, e non potrà mai essere, una virtù in senso trascendentale.

La speranza è una proprietà universalmente umana, basata sulla più universale proprietà umana, intendo dire il desiderio e, ad un livello superiore, la nostalgia

È propriamente quel desiderio di rendere presente il futuro, è quella possibilità di conferire una forma concreta a ciò che non è ancora e a ciò che sarà. La speranza è quella forza di voler definire la realtà in termini razionali quando, in verità, a caratterizzare la realtà è solamente il dubbio.

L’affetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece di restringerli, non si sazia mai di sapere che cosa internamente li fa tendere a uno scopo e che cosa all’esterno può essere loro alleato. Il lavoro di questo affetto vuole uomini che si gettino attivamente nel nuovo che si va formando e cui essi stessi appartengono 

Così come per Bloch, dobbiamo considerare la speranza una delle nostre più grandi risorse, ciò che ci sprona a vivere e affrontare positivamente ciò che il futuro riserva per noi e per le persone presenti nella nostra vita; attraverso la speranza riusciamo a guardare al domani con forza vitale e con fiducia.

La speranza è presente nella nostra quotidianità in molte forse diverse: a partire dai nostri sogni, nelle nostre aspirazioni e ambizioni, nelle aspettative che riponiamo ogni giorno, nella forza della nostra immaginazione. Sperare come sinonimo di credere, costruire, lottare.

La speranza è un sogno fatto da svegli.

Aristotele

Elena Casagrande

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Un desiderio per una stella

Ogni anno, un po’ come quando a Natale si aspetta con ansia la mezzanotte della vigilia per scartare i regali, la notte di San Lorenzo rappresenta un’occasione da non perdere.

Ci si distende sulla spiaggia e si guarda il cielo, con lo sguardo un po’ perso nel vuoto.

Si attende la scia luminosa di quella stella che traccia, sul cielo scuro, un disegno dorato.

Si esprime quel desiderio, meditato nei giorni precedenti, nella ferma convinzione che qualcosa potrà cambiare, che davvero ci sarà una svolta. Read more