Il peso del vuoto: vivere il lutto

Quelle che sono comunemente note come le “fasi di elaborazione del lutto” sono state in realtà teorizzate dalla psichiatra svizzera Elizabeth Kübler Ross come momenti della reazione di un paziente terminale alla notizia della propria morte. Sintetizzate nel suo La morte e il morire (1969), queste fasi sono state poi rielaborate da diversi autori successivi come percorso quasi obbligato nell’affrontare anche la scomparsa di una persona cara (un lutto appunto), a volte perfino la fine di una relazione.

Di numero variabile nelle versioni successive, le fasi dell’elaborazione del lutto sono originariamente cinque, presentate in un ordine che non è necessariamente quello in cui si manifestano, anzi: il più delle volte chi sta vivendo una perdita ne attraversa diverse allo stesso tempo, alcune più e più volte, in modalità che variano da individuo a individuo.

Il primo passo è la Negazione, nata dallo spaesamento della mancanza, dall’impossibilità di immaginare uno spazio vuoto così grande apertosi all’improvviso in una quotidianità fatta di parole, di gesti, di presenze. La negazione è subdola, colpisce a tradimento, interviene quando ci si appunta qualcosa da far vedere o leggere all’amato scomparso, quando non si vede l’ora di raccontar loro un fatto particolarmente interessante o divertente, per realizzare solo in un secondo momento che, ormai, le uniche conversazioni possibili sono quelle custodite nella memoria.

Spesso tra le fasi più travolgenti e intense emerge la Rabbia, una passione furiosa e il più delle volte senza un vero obiettivo: l’ingiustizia della perdita cerca un responsabile, qualcuno o qualcosa contro cui scagliarsi, e nasce allora un odio feroce verso i medici, verso Dio o chi per lui, verso chi non ha avvertito o non ha agito in tempo, a volte proprio verso chi se ne va, altre semplicemente contro chiunque continui a respirare quando invece chi vorremmo lo facesse è perduto sotto tre metri di terra.

Il Patteggiamento è una fase malinconica ma più lieve, la consapevolezza che non tutto è finito, che è possibile immaginare un futuro per sé anche con un vuoto che non si riempirà mai. Ogni progetto, però, deve essere rivisto e riadattato alla luce di quello spazio tragicamente libero, e ogni immagine di sé nel tempo diventa una trattativa, una revisione di quello che ci si immaginava sarebbe stato, che deve scendere a patti con ciò che invece dovrà essere.

Altra compagna che rischia di diventare più stabile del dovuto è la Depressione, compagna dai mille volti. Può essere un dolore lancinante o una struggente malinconia, una ostinata nostalgia o una tristezza invincibile che diventa musica d’accompagnamento di ogni altra emozione. La depressione è figlia e madre di tutte le altre fasi: si nutre di ricordi, di progetti infranti, di rabbia frustrata e senza possibilità di sfogo, viene ravvivata da una distrazione o da un sogno, si ripresenta sempre nuova e muta con sé anche l’aspetto delle fasi che l’hanno preceduta e che la seguiranno.

Arriva come un balsamo e poi si allontana, si spera per restare un giorno per sempre, l’Accettazione, più o meno consapevole, più o meno serena, plasmata dal tempo tanto quanto dalla volontà. Il dolore si fa presenza, i ricordi strappano soprattutto sorrisi, fino al momento in cui, forse, anche le conversazioni e gli sguardi riprenderanno, seppure in forma nuova e diversa.

Più che “fasi”, quelle di Kübler Ross sono veri e propri “passi”, orme lasciate su un percorso che comincia, torna su se stesso, si perde, ritrova la via, punta con speranza e ostinazione a una meta a tratti lontanissima, a volte a portata di sguardo. L’importante è non smettere mai di camminare: la destinazione è quel momento in cui il bene che si è voluto e si vuole a chi se ne è andato tornerà ad essere più grande e più forte del dolore del distacco e della perdita. Una meta che vale la pena raggiungere.

 

Giacomo Mininni

 

[Photo credit Giacomo Mininni. Immagine proveniente dall’archivio personale dell’autore]

banner-riviste-2022-feb

La notte eterna di Noa: per una società della cura e del non abbandono

Noa aveva solo diciassette anni quando prese la decisione definitiva di morire, come aveva riportato nel suo ultimo post del suo profilo Instagram.

Per Noa quell’esistenza non rappresentava nemmeno più una mera sopravvivenza. La vita le era diventata tanto pesante da non poter più trovare la forza, da sola, di sostenere quel macigno che, anno dopo anno, la stava schiacciando. “Ho deciso di lasciarmi andare perché la mia sofferenza è insopportabile. Respiro, ma non vivo più”. Queste le parole che quasi tutti i quotidiani hanno riportato e che si fanno portavoce della lacerazione interiore, della profonda sofferenza che Noa si portava dentro e con cui non riusciva più a vivere.

“Respiro ma non vivo”. Un respiro dopo l’altro, nel suo processo naturale di inspirazione e espirazione. Solo ossigeno che riempie i polmoni. Un’esistenza delimitata dal suo mero decorso biologistico. Un decorso che è proseguito fino al momento in cui Noa annunciò la decisione definitiva di lasciarsi morire, rinunciando a nutrirsi ed idratarsi. Per porre fine a quell’atto respiratorio che costituiva ormai l’unico elemento che la teneva in vita. 

Aggredita a soli undici anni e successivamente violentata a quattordici, non riusciva a sopportare tutto quel dolore che, ancora bambina, aveva travolto il suo corpo e la sua identità all’improvviso. “Mi sento ancora sporca”, diceva. Impossibile mettere un punto e ricominciare da capo. Prima la depressione. Poi l’anoressia, quel mostro che l’aveva costretta a vivere con un sondino nasogastrico durante ogni singolo giorno del suo ultimo anno di vita. Continue ricadute. Un tentativo di suicidio. Così come continui i tentativi di rivolgersi a delle strutture in grado di seguirla e di aiutarla a convivere con quell’incubo che da anni ormai non le permetteva di vivere un’adolescenza normale, fatta della spensieratezza dei ragazzi della sua età.

Molteplici le richieste di aiuto, sia da parte di Noa che da parte dei genitori. Troppe poche, forse, le risposte da parte di un entourage capace di convincerla che la vita poteva prendere una direzione diversa, che non sarebbe mai stata abbandonata, che ci sarebbe sempre stato qualcuno lì ad accarezzarla, a farle capire che era una ragazza unica, insostituibile, che la sua vita aveva una valore. Che dietro a quei respiri c’era un senso profondo. 

Da sola Noa non sarebbe mai potuta uscire da quella notte senza fine che è la vita quando viene attraversata da un dolore che frantuma in mille pezzi. Non è possibile vedere il bello in completa autonomia quando il cielo si tinge prima di grigio perla, poi fumo, tortora, ardesia, antracite; e, in fondo, quando lo sguardo si copre di grigio antracite non ha già perso quella capacità di distinguere e di discernere un punto di luce dal resto? Quando il cielo diventa come il cemento, non ha già perso tutte le sfumature del grigio? Il cielo non è forse nero?
Nessun orizzonte di luce. Nessuna sfumatura. Solo nero intenso. 

Dall’oscurità più profonda non ci si può salvare da soli, certo. Per questo abbiamo bisogno dell’altro per sopravvivere, l’altro lì a ricordarci che il nero può sbiadire, sfumare, tornare ad essere grigio, e poi bianco, e celeste. Il cielo di Noa era immerso nell’oscurità e in quello stesso cielo nero l’hanno lasciata addormentarsi.  

Dopo la morte di Noa, i giornali italiani hanno inveito contro eutanasia e suicidio assistito, focalizzando l’attenzione su una questione che con Noa c’entrava ben poco. Non solo la richiesta della ragazza di far ricorso all’eutanasia era stata rifiutata dalla clinica cui lei e i suoi genitori si erano rivolti qualche anno fa; ma un tale dibattito decentrerebbe lo sguardo pubblico dall’unica cosa che Noa voleva urlare al mondo: l’inspiegabile vuoto di senso della propria vita, l’abbandono che provava e la sostanziale incapacità – sociale e sanitaria- di aiutarla efficacemente in percorso di cura continuativo ed adeguato. Non un percorso di “guarigione”, dunque; la depressione non è come un’influenza, non c’è niente da guarire, nessuna funzione da “ripristinare”. Una ferita come quella di Noa aveva però bisogno della presenza di una cura. Un “io ci sono, tu sei qui con me?”. 

Non è forse questa la più intensa e bella pratica di cura? Una presenza insostituibile, una stretta di mano che trasmette coraggio, una spinta a  cogliere la bellezza della vita, malgrado le difficoltà, le crisi, le insicurezze; il coraggio di intravedere l’azzurro del cielo attraverso le molteplici sfumature del grigio. 

La madre della ragazza comunicò inoltre la complessità di entrare in cliniche psichiatriche specializzate, le liste d’attesa infinite, l’assenza di strutture per i disturbi alimentari. La figlia passava costantemente da un ospedale all’altro, più volte indotta al coma al fine di poterla nutrire artificialmente con una sonda. 

Noa si è spenta piano piano. Forse, attraversata da un profondo senso di abbandono. 

L’hanno “lasciata andare”, senza prendersi cura di lei. Una resa sociale, confermata dalla resa personale di chi non ce la fa più e, nella disperazione, non vede altra soluzione proprio perché nessun altro riesce a farle scorgere alternative possibili, colori diversi dal nero. 

Quando in realtà, anche se talvolta è difficile ammetterlo, è solo chi resta a poter dare un senso all’esistenza di chi, quella vita, la vuole lasciare. 

 

Sara Roggi

 

banner 2019

Cyberbullismo: basterà una legge a salvare i nostri ragazzi?

Comportamenti prepotenti e violenti, perpetrati dal “branco” nei confronti dei più deboli, è un fenomeno noto da molto tempo, oserei direi sempre esistito. Tuttavia, negli ultimi anni, l’uso improprio delle nuove tecnologie, del web e, in generale, del mondo digitale, ha innescato una nuova tipologia di bullismo definito cyberbullismo. Il fine è sempre lo stesso, ovvero molestare, spaventare, mettere in difficoltà ed escludere chi viene considerato “diverso” da un punto di vista estetico, perché introverso, per un differente orientamento sessuale, ecc.

Le modalità, rispetto al bullismo tradizionale, sono differenti. Le maldicenze vengono divulgate attraverso strumenti digitali: messaggi sul cellulari, mail, vari social network; vengono postate immagini e video imbarazzanti, rubate identità e profili social per insultare, deridere le vittime.

Tali azioni possono veramente annichilire un adolescente che non è sufficientemente forte per dare il giusto peso alle offese perpetrate, soprattutto in una fascia d’età in cui il giudizio dei coetanei è determinante per essere accettati dal gruppo e, purtroppo, anche per stare al mondo.

Gli effetti sono altrettanto devastanti. Lo stigma inflitto porta all’annientamento della vita sociale delle vittime, all’isolamento totale con conseguenti danni psicologici di tipo depressivo e ideazioni o intenzioni suicidarie. Il cyberbullismo ha così innescato una serie di comportanti criminosi e ha causato non poche vittime tra gli adolescenti.

Dobbiamo inoltre considerare che tali crimini vengono perpetrati in assenza di limiti spazio temporali. Ovvero, mentre il bullismo tradizionale avviene in luoghi e momenti specifici, il cyberbullismo colpisce il/la ragazzo/a preso/a di mira ogni qualvolta desidera collegarsi ai mezzi digitali manovrati dal cyberbullo. Le prepotenze hanno la capacità di divulgarsi all’istante e la vittima ha la sensazione di poter essere raggiunta ovunque si trovi.

Altro elemento da tener presente è il possibile allentamento delle remore etiche dell’adolescente molestatore che, oltre ad avere la possibilità di essere “un’altra persona” online, non si rende pienamente conto di quanto un insulto, un video violento o una foto possano nuocere. I ragazzi fanno fatica a riconoscere che il materiale che hanno diffuso è criminoso e ricordarglielo significherebbe preoccuparli unicamente per le punizioni legali, non tanto per la gravità morale che caratterizza l’atto compiuto.

Lo scorso 17 maggio la Camera dei Deputati ha approvato la proposta di legge contro il cyberbullismo.

La nuova normativa regola e sanziona i reati del mondo digitale compiuti attraverso strumenti telematici (sms, mail, chat, ecc…) e ha come obiettivo la prevenzione e l’attivazione di strategie educative nei confronti sia delle vittime che dei responsabili.

I risvolti penali del cyberbullismo dovrebbero essere un deterrente per tutti quei ragazzi che intendono minacciare la vita dei loro coetanei attraverso contenuti digitali molesti.

Dico potrebbe perché la legge da sola non può bastare. In una società ipertecnologica in cui le possibilità di connettersi al web sono semplici e costanti, gli adolescenti utilizzano le nuove tecnologie per giocare, comunicare con gli amici, postare e condividere foto e video; ciò a tal punto che il digitale ha modificato linguaggi e comportamenti dei giovani nelle relazioni interpersonali, facendo sì che la dimensione online e quella reale diventassero complementari.

La legge da sola non può bastare se a monte non c’è un’azione educativa. Noi adulti dobbiamo iniziare a considerare che internet fa parte dell’evoluzione e che vietarne a priori l’utilizzo comporterebbe solo un uso del web “segreto”e spesso scorretto o pericoloso.

Si tratta di considerare il web come uno strumento da utilizzare in sinergia con i nostri ragazzi, educandoli, ascoltandoli e facendoci spiegare come lo utilizzano; si tratta di interessarsi alla loro vita che, volenti o nolenti, è anche online. Solo se da genitori o educatori entriamo in contatto con i nostri ragazzi e con la loro “vita online”, possiamo conquistare la loro fiducia e dettare regole, “stipulare un contratto” sull’uso corretto dello smartphone e del pc, avvisarli dei pericoli, delle conseguenze di certi atteggiamenti e delle implicazioni legali.

Solo in questo modo avremo dei ragazzi in grado di vivere correttamente il loro essere cittadini digitali.

 

Silvia Pennisi

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

banner-pubblicitario_abbonamento-rivista_la-chiave-di-sophia_-filosofia

Il tenebroso mondo gnostico

Può capitare a tutti a volte di sentirsi ingabbiati, incarcerati, imprigionati in questo mondo e di vedere i nostri desideri calpestati dai suoi abitatori, e di percepire pertanto la realtà che ci circonda come un’entità ostile, estranea, incomprensibile e profondamente maligna. Ma solo gli gnostici hanno saputo fare di questo angosciante sentimento una filosofia sistematica. Secondo questi pensatori, infatti, in questo mondo «tutto è pieno di tenebre… / Tutto è pieno di prigioni; / non c’è via d’uscita, / E si infliggono colpi a tutti coloro che vi giungono» (questo canto e quelli che lo seguiranno sono riportati nel bel libro di H.C. Puech intitolato Sulle tracce della Gnosi).

Per gnosticismo si intende un movimento spirituale e filosofico, le cui radici sono molto probabilmente da ricercare nell’era precristiana, diviso in varie sette e correnti diverse e particolarmente attivo tra il I e il IV sec. d.C. (ma protrattosi, secondo Puech, almeno fino al VII secolo d.C. e in certi casi perfino oltre – i Manichei, ad esempio, sopravvissero fino al XIV secolo, ma si pensi anche ai Mandei, che sono una comunità religiosa tutt’ora esistente), che si propone di far pervenire alla salvezza i suoi seguaci non tanto mediante atti di fede, quanto piuttosto attraverso la conoscenza di come veramente stanno le cose, anche qualora gli scenari dischiusi dalla contemplazione della “verità” siano sconcertanti o terribili da sopportare (gnosis in greco significa per l’appunto “conoscenza”). Tra i maestri gnostici di particolare spicco troviamo Basilide, Valentino, Marcione. Il Cristianesimo nascente combatté ferocemente e con successo questa “eresia” dalle origine sincretistiche, che proclamava di possedere un sapere mistico segreto che, pur essendo stato indicato da Cristo ad alcuni suoi discepoli, sarebbe stato colpevolmente ignorato dalla Chiesa.

Gli gnostici considerano l’uomo come un’anima divina precipitata in quella prigione che è costituita dal corpo (già Platone diceva che il “corpo”, in greco soma, è per l’anima una “tomba”, in greco sema). «Venuto dalla luce e dagli dèi, eccomi in esilio e separato da loro», recita una loro poesia; «Sono un dio e nato dagli dèi, / Brillante, scintillante, luminoso, / Radioso, profumato e bello, / Ma ora costretto a soffrire. / Mi hanno afferrato diavoli senza numero, / Orrendi, e mi hanno tolto la forza. / La mia anima ha perso conoscenza. / Mi hanno morso, tagliato a pezzi, divorato. / […] Contro di me urlano e si lanciano, mi tormentano e mi assalgono…», continua il canto in un crescendo di disperazione.

Del tutto logico, quindi, che gli gnostici, vedendosi incapaci di salvarsi con le proprie mani dal dolore che da ogni lato li assedia e li tormenta, rivolgano a Dio un’accorata richiesta di aiuto: «Possa tu liberarmi da questo profondo nulla, / Dal tenebroso abisso [di questo mondo] […] che altro non è se non tortura, ferite fino alla morte, / E dove né soccorritore né [vero] amico si trovano! Mai, assolutamente mai, [quaggiù] si trova la salvezza; […] / [Non sapendo che cosa fare per salvarmi,] piango su me stesso». Come si può vedere, tristezza, ansia, paura, depressione e un lacerante desiderio di trovare infine una protezione e un riparo sicuro dalle insidie della vita sono le principali tonalità emotive che emergono dai componimenti gnostici.

Sennonché, per gli gnostici, il dio creatore di questo mondo non può salvare. Egli, infatti, proprio come tutti gli dèi celesti minori – che gli gnostici definiscono “Arconti”, cioè “Signori” (dal greco archontes, “governatori” o “comandanti supremi”) – è profondamente malvagio, e non ha alcuna intenzione di tendere la propria mano all’uomo per trarlo fuori dall’incubo in cui è rinchiuso. I versi dell’inno Ad Arimane di Leopardi, pur essendo stati composti per altri scopi e peraltro lasciati incompiuti, possono offrire un perfetto ritratto del giudizio negativo e senza possibilità di appello che è formulato da questa corrente spirituale nei confronti del sommo Autore del­l’uni­ver­so. Qualunque sapiente gnostico avrebbe infatti potuto pronunciare, nel rivolgersi a tale entità minacciosa e malevola, le seguenti parole redatte dal poeta recanatese: «Re delle cose, / autor del mondo, arcana / malvagità, sommo potere e somma / intelligenza, eterno / dator de’ mali e reggitor del moto/ […] Tua lode sarà il pianto, testimonio del nostro patire. [Ma] pianto da me per certo Tu non avrai: ben mille volte dal mio labbro il tuo nome maledetto sarà […]. / Non ti chiedo nessuno di quelli che il mondo chiama beni: ti chiedo quello che è creduto il massimo de’ mali, la morte […]. Non posso, non posso più della vita».

Non è quindi a tale dio che si levano le strazianti preghiere di salvezza formulate dagli gnostici. Esse si rivolgono piuttosto al Dio nascosto e non-creatore che risiede beato “oltre i mondi e oltre i cieli”. Possiamo allora immaginare così il mondo come è visto dagli gnostici: una serie di sfere concentriche, ognuna delle quali (pianeta, stella o cielo che sia) è una sorta di perverso labirinto esistenziale governato da dèi oscuri e colmo di trabocchetti, trappole e vicoli ciechi, nonché infestato da pericoli, nemici e bestie feroci che non vedono l’ora di “fare la pelle” al malcapitato che abbia la sfortuna di imbattersi in essi.

«L’universo materiale» – scrive Hans Jonas nel suo studio intitolato Il principio gnostico – «ossia il dominio degli Arconti, assume [generalmente] la forma di una vasta prigione la cui cella più interna e sotterranea è la terra […]. Intorno ad essa e al di sopra, le sfere cosmiche sono disposte come gusci concentrici». I sistemi gnostici più elaborati arrivano a contare fino a 365 di questi “cieli-guscio”, in ognuno dei quali regna «un’attiva forza demoniaca» che non intende solo opprimere, tiranneggiare e ostacolare le anime dei vivi, ma anche quelle dei morti: «come guardiano della sua sfera, ogni arconte sbarra il passaggio alle anime che tentano la risalita dopo la morte, per evitare la loro fuga dal mondo e il loro ritorno a Dio», puntualizza infatti Jonas.

Al di là di tutti questi orrori, abbiamo detto, sta però la salvezza: oltre i numerosi cerchi cosmici esiste infatti il “Regno della Luce”, abitato da un Dio eterno che è tutto bontà, amore e luminosità. È il “Padre Celeste” annunciato da Gesù. Gli gnostici, quindi, si schierano con il Dio protettivo e misericordioso descritto nel Nuovo Testamento, che ha in Cristo il suo araldo, ma contro quello che essi considerano il Dio collerico e vendicativo del Vecchio Testamento, che avrebbe invece in Mosè il suo testimone (almeno se si segue l’antica tradizione interpretativa – ormai eclissata, ma ovviamente ancora viva al tempo degli gnostici – per cui sarebbe proprio quest’ultimo personaggio l’estensore del “Pentateuco”, l’insieme dei primi cinque libri dell’An­ti­co Testamento).

Pur essendo inconoscibile e misterioso, il buon Dio talvolta si fa sentire: la sua voce conturbante, che riesce a sovrastare per imponenza e autorità quella del folle e malvagio demiurgo di questo mondo, in certe particolari occasioni si rende infatti udibile ad alcuni eletti. Essa parla direttamente ai loro cuori (che in tal modo – dice Clemente Alessandrino negli Stromata – vengono trasformati da «dimora di demoni» a luoghi «beatificati», «santificati» e «risplendenti di luce») per “risvegliarli” e concedere loro particolari rivelazioni, indicazioni e suggerimenti che saranno utili agli iniziati per raggiungere la salvezza tanto agognata.

Si tratta allora, per gli gnostici, di trovare il modo, mediante l’elaborazione del loro sapere esoterico, di oltrepassare tutte le sfere celesti e di uscire così definitivamente dai bui e infernali corridoi del labirinto del­l’esi­sten­za terrena, per andare finalmente incontro a quel perfetto Dio Padre che ha il suo principale messaggero in Gesù, o di sperare che Egli per primo, commosso dai nostri patimenti e dalle nostre invocazioni, e a sua volta desideroso di ripristinare l’Unità perduta, decida di farsi avanti verso di noi, abbattendo le barriere che ci separano da Lui e quindi dalla somma beatitudine.

Gianluca Venturini

BIBLIOGRAFIA:
Hans Jonas, Il principio gnostico, a cura di C. Bonaldi, Morcelliana, Brescia 2011
Henri-Charles Puech, Sulle tracce della Gnosi, a cura di F. Zambon, Adelphi, Milano 2006

[Immagine tratta da Google Immagini]

Chiedere l’eutanasia per depressione. Alcuni spunti di riflessione.

<p>EKG - Electrocardiogram (XXL)</p>

Il 16 maggio 2002 la Camera dei Deputati belga ha approvato la legge sull’eutanasia come suprema affermazione dei principi di libertà e autonomia. Dal 2002 ad oggi, in Belgio, quasi novemila persone hanno deciso di morire in questo modo.

Ad interrogarmi è la storia di Laura, 24 anni, affetta da una depressione cronica. Papà alcolizzato e spesso violento, genitori divorziati ed inesistenti nella vita della figlia, tanto che da bambina ha passato l’infanzia con i nonni e che a soli sei anni ha avuto i primi pensieri suicidari. La vita da adolescente e giovane donna prosegue tra ricoveri per depressione in diverse cliniche senza significativi cambiamenti.

Laura inizia a pensare di avere dentro di sé qualcosa che non le permetterà mai di stare bene, o anche solo di alleviare le sue sofferenze. La giovane donna, in un’intervista rilasciata al quotidiano locale De Morgen, sostiene: “sono convinta che avrei avuto questo desiderio di morire anche se fossi cresciuta in una famiglia tranquilla e stabile. Semplice, non ho mai voluto vivere”[1].

La ragazza viene a conoscenza della possibilità che offre la legge belga sull’eutanasia: praticare la “dolce morte” non solo per malati terminali[2], ma anche per chi soffre in modo persistente e insopportabile sul piano psicologico. Tre medici analizzano la richiesta eutanasia della ragazza e assecondano la sua richiesta ritenendo la giovane una “persona equilibrata” in grado di prendere questa decisione relativamente la sua vita e la sua morte in modo sereno.

Questo caso clinico suscita, inevitabilmente, una serie di interrogativi di ordine etico. La stessa comunità scientifica si interroga sulla possibilità di consentire la morte non solo di persone fisicamente gravemente malate e in fin di vita, ma anche di quelle che psicologicamente soffrono in modo insopportabile sollevando dei pesanti dubbi sull’opportunità o meno di accedere ad una regolamentazione dell’eutanasia sempre più estensiva.

I problema sono molteplici. Esiste qualcosa di “sopportabile” per una persona affetta da depressione cronica? La valutazione di “insopportabilità” fatta da una persona depressa è attendibile? Può una persona esterna ed estranea, pur trattandosi di un professionista competente, valutare quanto una condizione emotiva di un altro individuo sia insopportabile? La decisione di una persona depressa di porre fine alla propria vita può essere considerata una scelta libera e definitiva o si tratta di una scelta dettata dai molteplici e improvvisi cambiamenti d’umore, dagli effetti collaterali di farmaci non adatti o non più efficaci?

Quante volte una persona depressa ha idee suicidarie o ha addirittura tentato il suicidio? Quante volte la disperazione di uno stato depressivo che sembrava non dare tregua ha lentamente lasciato spazio alla speranza, grazie alla psicoterapia, ad un nuovo farmaco o ad un contesto di vita diverso? E se lo stesso paziente avesse deciso di ricorrere all’eutanasia proprio nel momento più buio del suo stato patologico, oppresso dalla totale mancanza di speranza e dalla difficoltà di progettare o pensare a qualcosa di futuro, due condizioni connaturali allo stato depressivo? E ancora, è possibile affermare che queste persone soffrono in minor modo o in maniera diversa rispetto ad un malato terminale?

Concludo con una riflessione della psicologa cognitivo-comportamentale Chiara Manfredi: “forse la parte che andrebbe maggiormente chiarita è quella che si riferisce alla lucidità della persona gravemente depressa, che ci porterebbe a valutare come attendibili le scelte compiute in uno stato emotivo che di per sé non porta all’attendibilità. Diciamo spesso ai pazienti che la depressione è una specie di occhiale scuro, che ci fa vedere tutto nero, cerchiamo di insegnare ai pazienti a prendere le distanze dalle proprie valutazioni, a non credere troppo ai loro pensieri che sono appunto frutto di una distorsione negativa e pessimista. Nel massimo rispetto della libertà individuale, bisognerebbe forse tenere a mente che anche la decisione di farla finita una volta per tutte, tramite l’eutanasia, è frutto dello stesso sistema di valutazione e decisione, e che gli occhiali neri ancora sono sul naso[3]. Forse, nel caso di questione scegliere l’eutanasia è conseguenza della patologia stessa.

Silvia Pennisi

 

NOTE

[1] L’articolo integrale è consultabile al sito internet: http://www.demorgen.be/nieuws/laura-is-24-jaar-en-fysiek-gezond-ze-krijgt-deze-zomer-euthanasie-b3d9c64f/

[2] Nel Capitolo II (condizioni e procedura)comma 1 dell’art. 3 il testo di legge sostiene: “Il medico che pratica l’eutanasia non commette alcuna violazione qualora adempia le condizioni e le procedure previste dalla presente legge e accerti che: il malato è in una condizione sanitaria senza speranza e la sua sofferenza sul piano fisico o psichico è persistente e insopportabile, che non può essere alleviata ed è la conseguenza di una malattia acuta o cronica grave e inguaribile”.

[3] Chiara Manfredi, Depressa da morire: è concepibile l’eutanasia per casi di depressione?, State of Mind. Il giornale delle scienze psicologiche, Giugno 2015.

Malinconia?! Portami via!

Spesso parliamo di giovani pensando alla spensieratezza, alla gioia di vivere, alle aspettative che hanno del loro futuro.

Poche volte si associano sentimenti negativi ai ragazzi quali malinconia, nostalgia, paura.

Credo che l’errore sia grave perché sono convinta che questi ultimi aggettivi descrivano accuratamente la fragilità di un giovane di oggi frustrato dalle responsabilità, dalla società opprimente, dalla superficialità delle relazioni e dalla perdita di genuinità.

Il giovane di oggi è ben diverso dal giovane dei decenni passati, perché non lotta più per un ideale da condividere con la società ma combatte per se stesso contro quella stessa società, colpevole, a suo avviso, di renderlo inerme di fronte alle difficoltà.

Ecco la prima parola chiave: difficoltà, la seconda è malinconia.

Le difficoltà o rafforzano o distruggono. O aggregano o allontanano.

Il giovane d’oggi spesso soccombe alle prime difficoltà, innescando in sé un processo di allontanamento da tutto e da tutti che porta alla malinconia della solitudine.

Occhi speranzosi che si tingono di un vuoto malinconico che rischia di portare all’oblio.

Non bisogna, però, essere negativi, perché è dal fondo che si costruisce, è con la paura che si diventa forti, è con la malinconia che si tocca l’apice della passività per poi riprendersi.

È proprio il senso originario della parola malinconia a dimostrarci quanto essa sia un sentimento inconsapevole ma di aiuto per  cogliere aspetti della vita invisibili ai più audaci, infatti essa nell’antichità significava un dolce oblio che, penetrando nell’animo, lo  rendeva profondo ed orientato all’introspezione, alla ricerca in sé.

Il malinconico è consapevole di esserlo ma impotente  di reagire a causa di una spiccata sensibilità che lo riporta ad analizzare il passato per poter proseguire la strada nel presente rivolto al futuro.

La malinconia nei giovani permette loro di conoscersi, vivendo nella frustrazione e nella difficile consapevolezza dell’impossibilità di certi eventi di cui nessuno può essere responsabile; proprio per questo il giovane malinconico piuttosto che audace è sempre da non sottovalutare, perché nasconde in sé un logico mondo dove il passato che spaventa viene tenuto in considerazione per le scelte future.

Malinconia

che fugge

…tra le dita.

 

Malinconia incostante,

derisa da pensieri futili.

 

Malinconia rabbiosa,

trepidante d’attesa

di ciò che non esiste.

 

Malinconia eterea,

flebile come un alito di vento.

 

Malinconia subdola,

divoratrice di anime sospese.

 

Malinconia dolce

che culla la speranza del sogni.

Valeria Genova
[Immagine tratta da Google Immagini]

 

Lettera a mia figlia

Anche l’uomo più sano e più sereno può risolversi per il suicidio, quando l’enormità dei dolori e della sventura che si avanza inevitabile sopraffà il terrore della morte Arthur Schopenhauer

“Cara Sofia,

questa volta il tuo papà forse ti deluderà, questa volta il tuo papà ti farà soffrire come non avrebbe mai voluto fare. Spero solo che, una volta lette queste poche righe, la delusione e la sofferenza lasceranno spazio a un po’ di comprensione.

Scusami bambina mia (perché per me, lo sai, sarai sempre la mia bambina), questa volta non ce l’ho più fatta a combattere, questa volta il male di vivere ha preso il sopravvento.

Negli ultimi dieci anni non sono stato più un uomo, negli ultimi dieci anni intorno a me era tutto buio. Sono precipitato in una prigione di tenebre da cui non sono più riuscito a fare ritorno. Read more