È la democrazia bellezza (?)

Ovvero ha senso considerare accorgimenti al suffragio universale per un migliore funzionamento della democrazia? O forse bisognerebbe ragionare d’altro?

Se ne sta discutendo in questi giorni successivi all’incredulità di buona parte dell’opinione pubblica e dei media di fronte all’elezione di Donald J. Trump a presidente degli Stati Uniti d’America.

In un sistema democratico tutti gli aventi diritto, esprimendo il loro voto, scelgono dei rappresentanti affinché facciano quello che li ha eletti: il bene comune, l’interesse della comunità, regione o nazione che sia. Se però i votanti non decidono per l’alternativa che appare la migliore e la più utile a tutti, il problema è del sistema, degli elettori o sta a monte?
Questa discussione parte da un presupposto abbastanza unilaterale che chi voti partiti estremisti e/o reazionari, xenofobi o solo populisti sia un ignorante. In realtà non è così, ma molto più complicato, come si è visto dalla vittoria di Donald Trump. Comunque sia alcuni ricominciano a chiedersi se il voto di questa persone debba valere come quello di una persona mediamente istruita e consapevole o meno.

La democrazia funziona solo se informata, come disse Franklin Delano Roosvelt,  ma allora che valore ha un voto se un terzo dei cittadini americani non sa nominare uno dei tre rami nei quali è suddiviso il potere in America? Il voto di una persona intelligente può valere come quello di un ignorante? Queste e altre domande si susseguono, nella corsa a capire le responsabilità e le reali volontà di una vittoria non pronosticata. E per capire che strada dovrà prendere la democrazia di qui in avanti.

Dopo questa scioccante tornata elettorale (si pensi anche a Brexit), si è ancora una volta ripreso a discutere se sia il caso di mettere dei paletti al suffragio universale così com’è inteso oggi. Prima di giungere ai saggi e alle proposte concrete di questi anni dobbiamo guardare a come funzionava la democrazia nei secoli. Il suffragio universale di per sé è una conquista relativamente recente  infatti, risalente al ‘900, mentre prima le restrizioni al suffragio erano molte: in base al sesso, alla razza e anche al censo (come in Italia), intese soprattutto a far rispettare uno status quo escludendo le minoranze dalle decisioni.

Già lì dove nacque la democrazia, nelle polis greche, fu Platone a teorizzare un governo di filosofi, intravedendo alcuni limiti del potere di tutti. Nel 1700 poi il filosofo americano John Stuart Mills pensò si potesse equilibrare il potere di voto permettendo di votare più volte alle persone più colte.

Cosa si propone adesso? Il più noto esempio, citato in questi giorni, è un saggio di Jason Brennan, Against Democracy, nel quale il giovane filosofo della Columbia University riprende queste idee e le soppesa per capire se potrebbero funzionare oggi. L’assunto da cui parte è il fatto che noi oggi vediamo il suffragio universale come un diritto inalienabile. Impossibile da mettere in discussione. Brennan dice invece che sì la democrazia è il governo migliore sperimentato finora, ma ciò non vuol dire che non sia possibile di miglioramento. Sulla scia di Platone propone quindi una forma ibrida: un governo di ben informati, grazie alla limitazione ad hoc del suffragio universale. Fino a qui si potrebbe essere d’accordo, ma quando si tratta di come realizzare questo sbarramento le cose si fanno più confuse. Scontrandosi con questa difficoltà la cosa per il professor Brennan più semplice da fare è selezionare i votanti guardando al livello di istruzione. Dato che può essere indicativo ma non assoluto (poiché uno stupido che frequenta una buona università molto probabilmente diventerà uno stupido istruito), oltre che potenzialmente di discriminatorio.
Come si è visto dalle ultime elezioni americane la Clinton è andata forte tra le persone con un PhD (dottorato di ricerca), mentre tra i laureati i votanti erano quasi equamente spartiti.

Qualcosa che non torna comunque c’è. Tutto il risentimento di molta gente per il famoso establishment, per il sistema politico che si incanala verso scelte drastiche, di rottura, molte volte dettate dalla paura di un mondo che sta mutando, non può e non deve rimanere inascoltato. Queste istanze ci dicono qualcosa, ci parlano della scarsa fiducia nella politica e nel suo sistema rappresentativo e non si può certo rispondere estromettendo direttamente parte dell’elettorato

Un bel articolo del New Yorker (A case against democracy) trattante questi temi a un certo punto si chiede: «But is democracy really failing, or is it just trying to say something?» La democrazia sta davvero fallendo o sta solo tentando di dirci qualcosa?

E se sì cosa ci sta dicendo?

Possiamo provare a capirlo solo se crediamo davvero che l’unica possibilità, perché una democrazia funzioni, sia che questa si basi su informazione e consapevolezza. E l’informazione è proprio ciò che è più in crisi oggi. Da una parte le difficoltà, economiche e di credibilità dei giornali, visti come parte dell’élite, dei quali non ci si può né ci si deve fidare, ma da osteggiare. Dall’altra contribuisce alla creazione di un’opinione pubblica poco e male informata il proliferare di bufale, notizie false o imprecise sui social network. Notizie che saranno certamente, come dice Mark Zuckerberg, una minima parte del traffico di Facebook, ma corrono molto più veloce della verità e arrivano a molte più persone, quasi autoalimentandosi. Se mettiamo in conto anche il fatto che si social siano la fonte unica o quasi di approvvigionamento di notizie di sempre più persone siamo di fronte a un cortocircuito.

Quindi sarebbe una buona e auspicabile proposta quella di un test di cultura e di educazione civica (in italia sostenuta da intellettuali come Massimo Gramellini) dietro il cui superamento ottenere il voto, ma l’educazione civica non si fa da sola. Bisogna istruire i cittadini se si vogliono cittadini consapevoli e bisogna informarli correttamente se li si vuole obiettivi. Luca Sofri, direttore del Post, che da anni si occupa di notizie fasulle e disinformazione ricorda che già Parise diceva che non si ha democrazia senza pedagogia. Ce lo si augura. E, in Italia almeno, vedere insegnata veramente l’educazione civica a scuola sarebbe un primo passo tangibile.

Tommaso Meo

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Turchia: un golpe fallito e il fallimento dei diritti

In Turchia, la notte di violenza tra il 15 e il 16 luglio ha visto fallire il tentativo di un golpe. Il premier turco ha costantemente manifestato forti timori di un possibile colpo di stato contro di lui: profeta o abile architetto?
Se questo rimane un interrogativo, quel che è certo è che di fatto il colpo di stato fallito ha reso Erdoğan ancora più forte.
Sarebbero circa 15.000 le persone arrestate; oltre 45.000 le persone sospese o rimosse dall’incarico; 20 siti web sono stati bloccati e sono stati 89 i mandati di cattura nei confronti dei giornalisti1.

Alla domanda del presidente turco “L’occidente è dalla parte della democrazia o dalla parte del golpe?”, mi pare opportuno rispondere che un colpo di stato è qualcosa di essenzialmente illiberale. La Turchia non deroga la norma.
Nel migliore scenario possibile avrebbe portato ad un diverso tipo di autoritarismo; nel peggiore avrebbe scaturito una guerra civile.
Eppure il fallimento del golpe non ha coinciso con la vittoria della democrazia, anzi.
Se intendiamo la democrazia non solo come espressione della libertà, ma anche approfondimento della dignità umana nel suo pieno significato, la democrazia ha fallito.
Erdoğan non si è fermato alle purghe. Il 21 luglio è entrato in vigore lo stato di emergenza. Il governo turco ha deciso di non applicare, in via temporanea, la Convenzione europea per i diritti umani. L’articolo 15 della Carta prevede la possibilità di sospensione della stessa «per motivi di pubblica sicurezza o di minaccia alla nazione», tuttavia, alcuni diritti non possono e non devono essere limitati.
Ad esempio, l’articolo 5 della suddetta recita: «Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o punizioni crudeli, inumani o degradanti». La pratica della tortura si prefigge lo scopo di annientare la personalità della vittima e negare la dignità della persona. Il divieto assoluto della tortura o qualsiasi altro trattamento inumano o degradante non tollera alcuna eccezione. Il governo turco si è reso protagonista di episodi di tortura e violenza nei confronti delle persone ree di essere state coinvolte con il tentato golpe.

Dobbiamo considerare Erdoğan come il Billy Budd di Melville? È davvero accettabile l’idea secondo la quale, in talune circostanze, la violenza sia l’unico modo di rimettere a posto la bilancia della giustizia?

È una sfida tra violenze? In uno scenario di violenza contro violenza, la superiorità del governo è sempre stata assoluta; tuttavia, tale superiorità dura soltanto fino a quando la struttura di potere del governo è intatta, cioè finché si obbedisce agli ordini o le forze di polizia sono preparate a far uso delle loro armi. Quando non è più così la situazione cambia totalmente.

È venuta a crearsi una realtà nella quale la violenza appare come l’ultima risorsa per mantenere inalterata la struttura di potere contro i singoli sfidanti, sembra in effetti che «la violenza sia un prerequisito del potere e il potere nient’altro che una facciata, il guanto di velluto che o nasconde il pugno di ferro oppure si rivela come appartenente a una tigre di carta»2.

Jessica Genova

NOTE:
1. www.amnestyinternational.it
2. Hannah Arendt, Sulla violenza

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Lo sguardo dell’arte come strumento di analisi e problematizzazione dell’attualità

L’arte anticipa i cambiamenti, comunica con la coscienza collettiva, apre gli occhi, scuote. Chiama alla partecipazione, muove le masse e fa parlare, nel bene e nel male. Se diventiamo consapevoli e se impariamo a distinguere il discorso sul contenuto da quello sulla forma, essa diventa un’indispensabile chiave di lettura della realtà.

Viviamo un momento storico in cui parlare d’arte e cultura sembra superfluo: il terrorismo, l’instabilità dell’Europa, la situazione complessa del Medio Oriente, ecc. Dopo una lunga incertezza su come scrivere questo articolo – qualsiasi cosa sembrava fuori luogo – ho pensato che è proprio in un momento di disorientamento e insicurezza come quello attuale che si deve parlare di cultura.

In particolare in questi giorni, la situazione politica della Turchia è al centro dell’attenzione internazionale, il tentativo di colpo di Stato e le successive misure attuate dal presidente Recep Tayyip Erdoğan hanno aperto un dibattito sul reale valore della democrazia di cui il governo turco si fa promotore.

In questo contesto può l’arte aprire un discorso di approfondimento sull’attualità? Può trovare una sua finalità nel cercare di spiegare il reale e di dare una prospettiva differente?

La libertà d’espressione ci dà la misura dello stato di salute della democrazia di un paese, ed è proprio in terreno artistico che vanno cercati i primi segnali di una società malata, di un autoritarismo crescente, di un’atrofizzazione dei valori collettivi.

In particolare l’arte pubblica, che irrompe nelle strade, è un potente strumento di consolidamento del sentimento collettivo, ma anche di critica. L’arte si fa politica nel vero senso del termine, entra nella polis e si rivolge direttamente ad essa.

Penso quindi all’opera degli artisti attivisti Pixel Helper che nel maggio scorso ha fatto scandalo a Berlino: il volto del presidente turco Erdoğan accostato a quello di Hitler, entrambi proiettati sulla parete dell’ambasciata turca. Un messaggio forte, estremo, di critica non solo nei confronti della politica turca ma anche contro l’atteggiamento condiscendente di quella tedesca nel sostenerla.

Arte come sguardo all'attualità - La chiave di Sophia

Il gruppo di artisti ha spiegato la sua azione con queste parole:

«A scuola gli insegnanti ci hanno sempre avvisato del pericolo di quel piccolo uomo con i baffetti che, prima, giunse al potere democraticamente, poi iniziò ad arrestare gli oppositori, poi cambiò la Costituzione per perseguitare le minoranze religiose. A quei tempi, tutti gli stati confinanti hanno continuato a trattare con questo signore, perché, pensavano, con certi demagoghi si possono fare affari. Vabbè… per fortuna qualcosa del genere oggi non succederebbe mai. PER FORTUNA! Oggi abbiamo tutti imparato dalla storia, e con i despoti NESSUNO fa più accordi…»

Per quanto radicale il messaggio è chiaro, immediato: “Gente prestate attenzione, la storia può ripetersi”.

E considerando i fatti attuali quest’opera acquista un senso più lucido, l’arte ha la capacità predittiva dell’intuito ed è per questo motivo che è utile ascoltare quello che ha da dirci.

Nel 2007 l’artista Ferhat Özgür con la sua sua opera I Love You 301 espone per le strade di Istanbul l’articolo 301 del codice penale turco, che prevede l’incarcerazione per chiunque offenda pubblicamente lo Stato e i suoi organi. Ad oggi sono passati nove anni e sorge il dubbio che Özgür possa ripetere un’azione del genere.

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Aprire gli occhi sulla realtà sembra l’atto più radicale che l’arte possa compiere oggi, la prospettiva amplificata che gli artisti ci possono offrire è fondamentale, indifferentemente dalle nostre posizioni, perché spesso l’informazione non è sufficiente.

Non per forza l’arte deve essere sovversiva: spesso la realtà viene solo suggerita e il messaggio è altrettanto potente. Durante la 14° Biennale di Istanbul, conclusasi nel novembre 2015, l’installazione The Closet dell’artista Hale Tenger si presenta come una riflessione sul buio periodo di dittatura che seguì il colpo di Stato in Turchia nel 1980: tre stanze nelle quali vediamo un tavolo perfettamente apparecchiato, i libri di grammatica aperti sulla scrivania, sentiamo il profumo della cena, l’ambiente è ordinato e domestico. La radio accesa manda in onda la cronaca di una partita che viene interrotta puntualmente dal messaggio “terroristi arrestati, catturati, uccisi”. Ma la casa è completamente vuota e quello che si diffonde è un senso di inquietudine, perché qualcosa è successo in quella casa. È il 1980? È casa nostra? È adesso?

Attraverso l’arte ci viene offerto un prezioso strumento di lettura della realtà sociale e culturale che ci circonda. Poiché l’immagine è immediata ed è in grado di esprimere sentimenti collettivi attraverso un processo di empatia e condivisione, lo spettatore è portato a partecipare attraverso la riflessione e all’elaborazione del messaggio. Se l’artista crea l’opera, chi la percepisce la rende viva.

D’altronde noi in quanto pubblico dobbiamo pretendere che il messaggio dell’arte sia un’espressione di verità, non possiamo concederle il lusso di essere superficiale.

Prendiamo ad esempio l’artista Christo, che con le sue Floating Piers è rimasto al centro dell’attenzione mediatica per settimane, e che ha acceso i riflettori sulla partecipazione massiva all’opera d’arte. O più che altro, sul contemporaneo e viscerale bisogno umano – frutto di una lunga evoluzione – di esserci per esserci, e poi condividere la foto sui social. Milioni di foto, tutte uguali.

Christo ha detto di essere molto soddisfatto di aver permesso a tutti di vivere l’esperienza di camminare sulle acque del Lago d’Iseo e di vivere quell’istante come unico, ma non chiediamo ai 1,2 milioni di visitatori il senso di questa partecipazione, perché accalcati sopra le passerelle probabilmente era davvero difficile capirlo. E in fin dei conti ci ha detto davvero qualcosa quest’opera? O il suo significato è rimasto limitato nell’ambito dell’evento mondano?

In quanto spettatori dobbiamo essere curiosi, sempre, ma anche chiederci se l’occasione che l’opera d’arte ci offre di diventare partecipi di un progetto ci permette di condividere riflessioni e sentimenti profondi, complessi, archetipi culturali in cui riconoscere la nostra identità. L’arte ludica esiste e va benissimo, ma forse andrebbe ridimensionata l’attenzione che le rivolgiamo.

L’attentato di Nizza della settimana scorsa ha nuovamente fatto irrompere con prepotenza l’orrore nella nostra quotidianità. Per quanto si sia detto successivamente attraverso i media, credo che l’immagine del David di Michelangelo nero disteso in Piazza della Repubblica a Firenze sia riuscito ad esprimere più di mille parole.

Arte come sguardo all'attualità - La chiave di Sophia

Un’immagine che colpisce direttamente ognuno di noi con il suo messaggio di perdita e lutto, una messa in discussione della nostra civiltà che non ha identità politica nel suo manifestarsi fragile e decadente, nessuno ne è immune.

L’arte è un dibattito aperto e continuo, teniamone conto in quest’epoca di opinionisti, forse meriterebbe più spazio.

Claudia Carbonari

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La questione del suffragio universale

In questo ultimo periodo caratterizzato da referendum e votazioni mi sono sorpreso da ciò che questi fatti producevano al mio interno: la messa in discussione della valenza del suffragio universale.
Inizialmente pensavo fosse causato dal mio orrore mentre ascoltavo i resoconti delle affluenze così basse, delle interviste e degli autorevoli pareri di esperti. Successivamente, però, mi sono reso conto che – analizzato logicamente dal punto di vista teorico – forse una discussione attorno alla sua necessità debba essere intavolata, almeno per essere sicuri di accettarlo consapevolmente e non per comune abitudine.

Il suffragio universale è uno dei capisaldi della democrazia, introdotto in Europa nel corso dell’Ottocento – nonostante per un periodo di tempo brevissimo sia stato adottato anche nella Francia post-rivoluzionaria. Esso esprime gli ideali democratici in maniera massima: ognuno vale uno, cioè ognuno è uguale, ogni opinione ha lo stesso peso, ogni desiderio ha la stessa importanza di ogni altro. Non ci sono restrizioni: non c’è ceto, etnia, censo, genere, orientamento sessuale che tenga.
Concentriamo il nostro sguardo sull’unica discriminante: è necessario aver raggiunto la maggiore età per poter esercitare questo diritto. Quindi: per votare, è necessario avere un’età minima.
Ora mi chiedo: e perché non si è presa in considerazione anche un’età massima?
La questione è molto meno banale di quello che sembri, basti osservare cosa è successo nel Regno Unito recentemente: la parte “vecchia” della popolazione ha imposto il Leave alla nuova generazione, che aveva votato compatta per il Remain (75%). Non sto esprimendo giudizi su chi avesse ragione e chi torto, sto semplicemente analizzando un fatto: chi non vedrà i risultati del proprio voto ha imposto il futuro a chi, invece, subirà le conseguenze (positive o negative che siano) di questa votazione.
Stesso discorso per quanto riguarda, invece, due non-restrizioni: il grado di istruzione e il bagaglio di informazioni. Queste due variabili, infatti, condizionano pesantemente le nostre scelte. Guardando sempre alla “Brexit” per comodità temporale, la differenza tra zone rurali e grandi città come Londra è molto evidente.
Con ciò, di nuovo, non sto dicendo che una delle due sia nella ragione ed una nel torto, sto analizzando semplicemente dei dati.

Il problema non è di facile soluzione, perché ha a che fare con il Tutto, nel suo rapporto con la molteplicità.
Inoltre, il suffragio universale, mi sembra che presupponga se stesso nella sua accettazione: una ipotetica votazione che abbia come oggetto l’adozione o meno del suffragio universale come metodo di voto deve per forza di cose essere già aperta a tutti, e quindi esso si troverebbe già ad essere il metodo di votazione.

Un inizio di soluzione può essere intravisto alla base del sistema.
La questione non è la diversità di opinione a cui il suffragio universale dà voce; anzi: essa è ciò che permette l’essere di uno stato democratico. L’anello debole della catena è la volontà subdola di creare o trasformare opinioni negli/degli altri, di allarmare, di terrorizzare, di deviare l’attenzione verso capri espiatori. Ciò fa gravemente ammalare la validità del suffragio universale, che diventa una semplice facciata: un nome per coprire gli intenti demagoghi e populisti e un mezzo per realizzarli.
La cura, a mio modo di vedere, prevede una medicina politica ed un per la società.
La prima dà voce a come sia necessario avere la capacità critica di scegliere quali decisioni debbano essere espresse dal collettivo e quali dalla rappresentanza di esso. Con il nostro voto, infatti, scegliamo i nostri rappresentati, ai quali diamo la nostra fiducia. E una delle sezioni all’interno di questa fiducia è la speranza che scelgano per noi il meglio, a fronte di una capacità politica che noi non possediamo. Questo determina delle scelte in cui la nostra voce di popolo non conta, perché è appunto espressa dalla rappresentanza, o comunque essa tenta di raggiungere i migliori risultati possibili per la collettività.
La seconda ha a che vedere con la buona informazione.
Può essere un’utopia, in un mondo dominato dalla Rete; in cui ogni notizia è praticamente istantanea e priva di filtri, in cui si fa a gara a chi pubblica per primo una notizia, in cui i dettagli non contano: ciò che importa è il titolo (al quale una buona parte del pubblico si ferma senza andare oltre).
Ma una buona informazione è uno – se non il – presupposto perché il suffragio universale sia espressione del popolo e non di opinioni condizionate.

Massimiliano Mattiuzzo

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L’esportatore di progresso

Il suo è un mestiere difficile che non prevede la pensione, nessuna indennità o malattia, non gli da diritto a programmare ferie, non si ferma mai, nemmeno il tempo riesce a contenerlo.
Questo lavoro gli piace così tanto che non ha mai firmato un contratto, non ha mai sentito il bisogno di tutelarsi o di mettere per iscritto diritti o doveri che si è imposto da solo.
E’ un libero professionista, il dipendente di se stesso, disfa e costruisce di volta in volta i suoi obiettivi, allarga gli orizzonti oppure ricalca vecchie orme in terre già battute.
Non serve avere un’età, lui per esempio non ha età, si sposta a cavallo dei secoli attraversando mondi paralleli, epoche e società.

E’ cittadino del Mondo, padrone e suddito, comanda e serve gli uomini perché hanno bisogno di lui e lui ha bisogno che essi lo usino solo per poter dire che esiste.
In Occidente lo trattano bene, c’è terreno fertile per qualsiasi sua proposta estrema, e quando ha carta bianca da il meglio di se.
Ma in che cosa consiste il suo lavoro?
Semplice, lui esporta progresso.

Un bel giorno decide che la società a cui appartiene è la migliore in assoluto, e sente il bisogno di comunicarlo a tutti gli altri privandoli della possibilità di replica.
Detta così superficialmente non contribuisce a svelare l’arcano ragionamento; occorre specificare allora quali siano le materie sociali su cui agisce.

Prendiamo la scrittura.
L’esportatore del progresso ha stabilito che i popoli senza scrittura sono primitivi, mentre quelli che la possiedono sono avanzati.
Poco importa se esistono altri metodi per raccontare o tramandare qualcosa perché l’esportatore di progresso ci riferisce che le parole scritte non sono mutabili, ergo non possono essere interpretate a seconda dei tempi, mentre l’oralità – al contrario – è e sarà sempre imperfetta.
Del resto, quando mai abbiamo modificato l’interpretazione dei testi Sacri, o altri scritti realizzati da personalità che, inevitabilmente, hanno intriso pagine e pagine di cronache ‘sporche’ del loro punto di vista?

Esistesse solo questa categoria ad impegnare il nostro progressista nel suo duro lavoro di catalogazione, non avrei detto nulla di stupefacente.
Ad un certo punto decise di esportare un modello di società ben preciso, quello Occidentale appunto e con esso anche la Democrazia.
Se vivi in una società senza strade, scuole, ospedali e altre infrastrutture che all’Occidente hanno portato al contempo benessere e complicazioni, sei automaticamente retrogrado.
All’esportatore di progresso non interessa sapere che la tua cultura ha raggiunto il suo equilibrio adattandosi all’ambiente circostante e alle tradizioni, mutabili, della propria Storia.

Non gli interessa nemmeno sapere che la via intrapresa da questa o da quell’altra società è solo una delle tante possibili, perché la migliore è quella in cui lavora, e l’ha deciso da solo.
Un po’ come autodefinirsi belli perché l’ha detto mamma.

La Democrazia invece pare sia improvvisamente diventata il migliore dei sistemi politici.
A contendersi la supremazia però sono state svariate forme di governo, tutte puntualmente esportate dal progressista e ognuna spacciata come ‘la migliore’: inizialmente fu la Monarchica assoluta retta da un sovrano despota ed illuminato, seduto sul trono per volere di Dio; poi fu il turno del Parlamento e successivamente toccò alla Repubblica borghese che pochi potevano governare…

Infine in Occidente crearono la Democrazia e decisero che tutti potevano partecipare alla Cosa Pubblica, ma non solo gli occidentali, qualsiasi persona compresa nel raggio dei quattro angoli del Mondo, e chi era rimasto ai re, ai sacerdoti e ai rituali arcaici avrebbe dovuto adeguarsi.

L’esportatore di progresso si diede molto da fare, fondò nuovi Stati, tracciò nuovi confini studiati a tavolino unendo sotto la stessa bandiera società in conflitto tra loro e separandone altre di affini; portò l’Occidente in territori non occidentali, anche appoggiando spietati dittatori, decidendo di volta in volta quale fosse ‘buono’ e quale ‘cattivo’.

Nel 2015 l’esportatore di progresso esiste ancora, vive cibandosi delle nostre incomprensioni, di tutto ciò che appare assurdo ai nostri occhi, vive delle aspre critiche che lanciamo a chi mangia cibi diversi dai nostri, a chi tratta la donna in un modo che a noi appare antiquato, a chi segue i dettami di una religione che non è la nostra, a chi abita in capanne fatte di paglia e sterco, a chiunque non indossi giacca e cravatta ma abiti ‘strani’ o ‘bizzarri’.
L’esportatore di progresso respira l’aria della superiorità che ci siamo attribuiti e dell’auto incoronazione di noi stessi.

Ci aiuta, giorno dopo giorno, a trasportare il masso lasciato in eredità da un Sisifo stanco, e questo masso serve a rinfacciare la fatica – non richiesta – spesa per la costruzione di una visione soggettiva non traducibile in altre declinazioni culturali.
Si veste di arroganza e troppo spesso applaudiamo compiacenti la sua eleganza così conforme alla nostra.
Rende assurda persino l’ovvietà fatta di numeri, quei sette miliardi di uomini e le centinaia di culture annesse che sussurrano di non sentirci troppo soli.

Che la vanagloria è un labirinto dal quale si esce solamente mettendosi in discussione.

 Alessandro Basso

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Conformismo democratico: un dialogo tra A. Tocqueville e H. Arendt

Hannah Arendt, nella sua lunga riflessione, è sempre tornata sulle pagine di Alexis Tocqueville, tanto che potrebbe essere considerata vera erede del pensatore normanno. Pur potendo parlare di continuità di pensiero, visti i continui rimandi ai testi di Tocqueville da parte della Arendt, è utile quanto necessario un autentico confronto non solo tra i punti di contatto ma anche tra le differenze delle due prospettive. Dobbiamo tener conto infatti, che tra i due Autori vi è un contesto storico, sociale e intellettuale molto diverso.

Tocqueville aveva ben intuito quei dilemmi interni della società moderna, che secondo la Arendt, hanno poi trovato la loro massima espressione nel fenomeno totalitario. Se consideriamo poi le riflessioni circa la civiltà di massa che la Arendt delinea in Vita Activa, il richiamo a Tocqueville è evidente: egli aveva messo in evidenza infatti le trasformazioni antropologiche del cittadino democratico verso un universale livellamento dell’assetto egualitario e di conseguenza, l’inabissarsi del singolo verso una folla piatta. Siamo di fronte a un processo di de-individualizzazione che tocca sia l’uomo-eguale quanto l’uomo-massa arendtiano.

Hannah Arendt riconosce a Tocqueville il merito di aver individuato nell’uguaglianza dei moderni l’origine del conformismo della società moderna. Se per Tocqueville la massificazione, cui è sottoposto il cittadino americano, si realizza nel momento in cui l’uomo-eguale si abbandona al potere della maggioranza, per Hannah Arendt il livellamento dell’uomo-massa è rintracciabile all’interno di quel processo omologante che è emerso a partire da un individuo che non è più in grado di distinguere l’oikos dall’agorà e concentra tutta la propria esistenza attorno al labor, dove ciascun individuo altro non è che un semplice ingranaggio nella grande macchina produttiva. Un conformismo comportamentale nato da un agire strumentale standardizzato, che sfocia nella totale spersonalizzazione dell’individuo, il quale, spogliato di ogni tratto distintivo, è privato di quella dimensione intersoggettiva dell’in-fra in cui poter comunicare e relazionarsi. In Vita Activa così scrive Hannah Arendt:

«ciò che rende la società di massa così difficile da sopportare, non è, almeno non lo è principalmente, il numero delle persone implicate, ma il fatto che il mondo che sta tra loro ha perduto il potere di riunirle insieme, di metterle in relazione e di separarle»1.

I due pensatori concordano sul delinearsi di un nuovo ordine sociale composto da individui eguali ma isolati l’uno dall’altro, individui interessati solamente al perseguimento di una felicità privata e non più interessati a quella felicità pubblica di cui parlava la Arendt, ovvero di quella felicità coincidente con la partecipazione alla vita politica, una partecipazione che però va intesa come azione diretta al potere politico. Leggiamo così:

«perché felicità pubblica significava una partecipazione al governo degli affari, cioè al potere pubblico, in quanto distinto dal diritto, generalmente riconosciuto, di essere protetti dal governo persino contro il potere pubblico»2.

Visione comune è questo graduale inabissarsi dell’agire politico in epoca moderna. Ciò che è andato perso è quella capacità umana di agire e dialogare in uno spazio condiviso da una pluralità di individui diversi3. Solamente all’interno di uno spazio pubblico l’individuo può mostrare la propria unicità; così «la politica – ripensata e ri-immaginata a partire dalla suggestioni antiche, ma non esclusivamente aderente a esse – non è altro che lo spazio/tempo in cui la pluralità può mostrarsi»4. La ricerca di uno spazio politico nuovo dove il pluralismo possa dar vita a una nuova libertà degli antichi5, è ciò che lega il pensiero di Hannah Arendt al liberalismo di Tocqueville.

 

Elena Casagrande

 

NOTE
1. H. Arendt, Vita Activa, Bompiani, Milano 1964, p. 59.
2. H. Arendt, L’azione e «la ricerca della felicità», p. 345
3. O. Guaraldo, Hannah Arendt: la politica come libertà, in Quaderni laici, n.7, 2012, p.99
4. Ivi, p.103
5. Rifierimento a B. Costant, La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni, Einaudi, Torino, 2005.

Aldo Capitini la migliore delle democrazie: l’Omnicrazia

Fin da una prima lettura risulta difficile non riconoscere il pensiero di Aldo Capitini come prossimo alle nostre sensibilità personali, se non addirittura familiare. La profondità morale delle sue riflessioni, la tenacia con cui cercò di stimolare le coscienze degli italiani, l’impegno concreto con cui si oppose ad ogni forma di autoritarismo sia politico sia religioso, sono tutti elementi che caratterizzarono la sua figura e che meriterebbero di essere messi in luce per mostrare la necessità della riscoperta di un sano confronto democratico, riguardo le più imponenti tematiche socio-politiche che caratterizzano i tempi attuali.

Attraverso la lettura del testo “Il Potere di tutti”, sono riuscita a percepire quanto Capitini desiderasse per l’Italia una forma di governo autenticamente democratica. Dico “autenticamente” in quanto l’idea di democrazia che egli aveva definito era così pura da portarlo a criticare la forma di governo “democratica” che a quel tempo si era instaurata, e che continua tutt’oggi. Quest’ultima, infatti, a suo parere non era in grado di favorire una vera interdipendenza positiva tra gli individui, né tantomeno di realizzare un legame solido e proficuo tra essi e i detentori del potere politico. Capitini dimostrò di nutrire nei confronti dell’ideale democratico il massimo delle aspirazioni, tant’è vero che per sottolineare la fiducia che egli riponeva in esso e soprattutto nel suo miglioramento, egli parlò principalmente di omnicrazia.

Omnicrazia, o potere di tutti, deve essere intesa come una più avanzata e più aperta democrazia; in essa tutti devono poter partecipare alla discussione pubblica, senza distinzioni (di sesso, età, razza, nazionalità, istruzione, censo, partito politico) né limitazioni.

Ciò che più importava a Capitini era il dimostrare la reale necessità di procedere oltre il sistema della delega del potere; questa, infatti, marcando una netta distanza tra coloro che detengono direttamente il potere e coloro che invece lo detengono soltanto in maniera indiretta, a lungo andare potrebbe sfavorire l’effettiva partecipazione del popolo alla vita pubblica e politica del paese. Tale processo, a distanza di cinquant’anni rispetto alle elaborazioni teoriche di Capitini, risulta abbastanza evidente: la politica è considerata sempre più come una sfera lontana dalle finite possibilità degli individui e talvolta come impermeabile rispetto alle proposte o alle iniziative provenienti da quei cittadini che vorrebbero apportare al suo interno i cambiamenti indispensabili ad un suo migliore funzionamento. Questo sentimento comune, a mio parere, è palese nella sfiducia di quanti guardano impotenti agli alti piani della politica, nell’alto tasso di assenteismo che si registra al momento delle elezioni, nella mancanza di iniziativa privata (in quanto, inutile dirlo, a causa delle problematiche economiche che caratterizzano l’andamento degli ultimi tempi, gli individui sono talvolta occupati a fare i conti con ben altre preoccupazioni).

Al fine di poter godere di un migliore sistema rappresentativo, Capitini riteneva che il Parlamento dovesse essere integrato da centri sociali e da assemblee pubbliche non per forza deliberanti, ma comunque consultive. Questa integrazione era da lui ritenuta necessaria in quanto «le istituzioni possono inorgoglirsi della loro chiusura e divenire prepotenti». Egli fondò così i cosiddetti Centri di Orientamento Sociale, i quali, garantendo un più profondo coinvolgimento della popolazione rispetto a quanto non avveniva all’interno di un normale contesto democratico, si proponevano come il mezzo migliore per poter attuare una forma di governo omnicratica.

I COS permettevano lo sviluppo di una particolare forma di decentramento politico e di “controllo dal basso” (contro l’influenzabilità politica che può derivare da interessi privati e settoriali, la quale sempre più oggi fa sentire il suo peso) dai benefici facilmente intuibili: non soltanto consentivano agli individui di sentirsi responsabili in prima persona, ma garantivano anche un’attenuazione del tanto temuto divario tra coloro che detenevano il potere e coloro che invece non lo esercitavano direttamente.

A mio parere, la riflessione politica di Capitini, assieme al suo complesso sistema di pensiero etico, filosofico e religioso, può essere un utile spunto per chiederci, non con l’amarezza e la rassegnazione che sempre più caratterizzano il nostro presente, ma piuttosto con una sana progettualità: a che punto ci troviamo oggi? Sentiamo di vivere all’interno di un contesto democratico adatto a realizzare la nostra natura, in grado di tutelare le nostre attività, capace di provvedere al domani del nostro Paese? Ma soprattutto, quanto peso e quanta influenza riteniamo di possedere rispetto alle decisioni politiche che inevitabilmente giungono a condizionare anche la nostra vita privata?

 

Durante il secolo scorso Aldo Capitini si propose e venne identificato come personaggio decisamente controcorrente a causa delle critiche che egli non mancò di indirizzare nei confronti del conservatorismo ecclesiastico e a causa della sua palese opposizione alle direttive del Partito Fascista, del quale, a differenza di molti altri intellettuali dell’epoca, rifiutò coraggiosamente la tessera d’iscrizione. In seguito alla pubblicazione dei suoi primi scritti egli divenne uno dei riferimenti letterari della gioventù antifascista. Capitini si fece inoltre portavoce del pensiero nonviolento di Gandhiana memoria promuovendolo attraverso una serie di iniziative concrete, tra le quali la prima Marcia per la Pace che si svolse nel contesto italiano, dispiegatasi nel 1961 da Perugia ad Assisi.

 Federica Bonisiol

[immagine tratta do Google Immagini]

 

BIBLIOGRAFIA:

Aldo Capitini, Il potere di tutti, Guerra Edizioni, Perugia 1999

(Fabrizio Truini, Aldo Capitini, Edizioni Cultura della Pace, Firenze 1989)

Laissez faire, laissez passer mon amis

A cercar moti rivoluzionari ognuno di noi è votato. Il regno dei cieli, l’impero in terra e le nazioni tutte crollano davanti l’inizio di un idillio che porta dritto all’amor fati: l’amor proprio.

Ah! Questo inafferrabile amore per la vita che ci spinge ad immolarci alla testa di un esercito o di una nazione, che fa bruciare ogni tempestosa cima ed ogni irto colle, che fa scrivere, cantare e combattere guerre come eroi o maligni dittatori!  Un amore che ci richiama a vivere appieno e senza riserbo o rancore ogni momento che questa vita ci concede. Tanto gentile e tanto onesto pari amor mio, tanto da chiedermi se serve continuare a dominare la natura umana nonostante sappiamo già di essere causa, effetto e componente complementare, paradossale, della natura stessa: l’abbandono alla vita, al suo fato e a ciò che ognuno di noi diventa sotto l’imperativo progressista ed individualista della modernità sembra l’unica via percorribile.

Dominiamo noi stessi con la stessa energia con cui si dominavano e si strumentalizzavano gli ideali ascetici: dominiamo senza mai realizzarci, continuando la folle corsa del progresso individuale! Lo spazio e l’universo non saranno mai terreno di gioco per quest’uomo fintanto che di quest’uomo non si riescono a dominare le potenze e le sue pulsioni emotive. Come potremmo mai superare i limiti della luce, delle sensazioni e delle nostre stesse emozioni – perché è a questo che noi stiamo puntando – se siamo completamente permeati dal conflitto e dalla rivalità sino nell’intimo, sin dentro i nostri abissi? Come dominare gli astri, il firmamento, la fisica intera se non abbiamo più astri, firmamenti ed una fisica dei nostri più intimi desideri? Dove sono i filosofi di questo tempo? Dove son finiti se non a riparare e ricollegare quanto questa nevrastenica insoddisfatta modernità distrugge e scollega? Dove son finiti i filosofi se non nel profondo abisso in cui sprofondano, uno ad uno, tutti i vecchi ideali? Invece sono tutti lì, in bella mostra, a dar man forte alla democrazia novecentesca: il braccio politico della modernità. La democrazia, questa vecchina, che tanto ci aiutò contro le funeste e sanguinarie passioni totalitarie, adesso in preda alle nostalgie e agli acciacchi della vecchiaia, debilita ogni cambiamento sociale ed ogni moto creatore. Uniforma e appiattisce gli spiriti liberi contemporanei e la loro naturale opposizione ad ogni catena, contemporaneamente deforma e acuisce ogni spirito gregario sino a fargli credere d’essere il signore del suo mondo – a volte anche di questo mondo! Non focalizziamoci sul delegato bensì sul delegante: può mai funzionare una democrazia con delega di governo proveniente da spiriti gregari che si ritrovano con leader privi di coraggio e di spirito creatore? Molti diranno di si, nonostante la pochezza del basso ventre della società oltre che dal misero numero di partecipanti alla vita politica; dal flusso della modernità che spinge all’individualizzazione, da un lato, e a renderci tutti uguali, dall’altro.

L’astensionismo in politica è un segno naturale dell’incostanza oltre che della paradossalità di questa era: quanti problemi risolvemmo e quante opportunità perdemmo per rendere eguale ciò che per natura è diseguale? Soprattutto per quanto tempo ancora continueremo a svuotare la democrazia? Questa porcheria vien fuori da questo processo di uguaglianza, oggi più che mai estremo e feroce, e dalla continua richiesta sociale di distinzione. Così dal basso si spinge verso una maggiore uguaglianza mentre dall’alto discende la volontà di differenziarsi; gli uni seguono gli altri sino a mordersi la coda, sino a scambiarsi i ruoli e gli obiettivi, mandando in tilt ciò che di meglio sapevano fare i vecchi valori: tenere a freno la volontà di potenza del basso ventre della società, costringendo gli spiriti creatori a fare coming out del loro coraggio e della loro deriva individualistica, quindi imponendo loro il loro destino da leader – la morte, la gogna, l’esilio … – a farsi da esempio a chiunque volesse dal basso elevarsi a creare valore.

Mi si dirà che questi tempi sono i migliori mai vissuti dalla specie umana e che mai come prima l’uomo è maturo e consapevole della sua volontà e della sua potenza. Eppure non sembra proprio così. Abbiamo versato sangue, tolto vite su vite, volato, issato bandiere sulla luna e ci accingiamo ad invadere la nostra galassia, ma noi?! L’uomo? Se avessimo davvero portato a maturazione quanto fatto in questi ultimi due millenni allora sarebbe emerso un nuovo ideale, un nuovo senso di vita; magari un nuovo rinascimento ed un nuovo umanesimo. Invece stiamo qui a distinguerci predicando l’uguaglianza; a delegare ad altri con costanza – o furbizia! – il bene per il prossimo invece di provare in prima persona ad amare questo prossimo. Stiamo qui ad ostacolare uno spontaneo fare comunitario in nome della “distinzione” a tutti i costi e basandoci sul principio dell’uguaglianza. Amici, assai vario e complesso è l’uomo, in esso valgono leggi molto diverse da quelle del suo mondo e come in Fantàsia, le sue mete risultano vicine o lontane in base a se e quanto si desidera raggiungerle nonché dal punto da cui si intraprende il viaggio.

“Laissez faire, telle devrait être la devise de toute puissance publique, depuis que le monde est civilisé”

René-Louis de Voyer de Paulmy d’Argenson

Salvatore Musumarra

[immagini dell’artista Saro Intelisano ]