Chiamare le cose con il proprio nome

Qual è il problema? Quale può essere secondo voi? Giusto, già presuppongo che ce ne sia davvero uno, un problema di fondo, una questione irrisolta, un cerchio mai chiuso. Incomincio questo articolo senza basi, senza strutture solide, non ho prove e fondamenti di questa mia scoperta che sto proponendo. Dunque un problema come da me indicato non sussiste? Non ha nome, non ha forma, non fa parte del nostro immaginario quotidiano, non c’è spazio per lui. Una casa, un lavoro, una famiglia, un lavoro ben pagato, un’automobile lucida, un conto in banca, vestiti stirati e letti rifatti. Non c’è spazio per un qualsivoglia problema aggiuntivo con tutto quel che già è presente ed occupa la vita di una persona. Anche il tempo vuol disfarsi di certe questioni inconsistenti archiviandole, inserendole nella lista delle cose che verranno trattate più avanti, in un “quando” indeterminato. È bello comporre un mosaico del genere ove un tassello improponibile non deve trovar collocazione perché i posti sono già presi e tutto funziona a meraviglia. Va assolutamente tutto bene perché un risultato del genere non può mentirci, è così conforme all’idea comune, alla forma a cui tutti ambiscono che non ci si può fermare a dubitare dei modelli, degli archetipi che idolatriamo. Quindi va tutto bene, siamo tutti sulla stessa linea di pensiero e non c’è menzogna perché siamo tutti d’accordo, vogliamo tutti la stessa cosa e stiamo camminando tutti insieme. Stiamo camminando no? Sono ben pochi i momenti in cui camminiamo, in cui possiamo perdere del tempo, quando riusciamo ad essere fuori da una struttura.

Linee guida vanno a comporre la geometria del nostro tempo, quel prezioso tempo che viene cronometrato continuamente, che pone su diversi livelli e piani tutte le nostre faccende, tutto quel che deve essere svolto da noi. Non possiamo mancare queste azioni in questi spazi e in questi tempi, archiviando sempre più e completando ogni giornata con le colonne insostituibili che le compongono. Un’azione vale l’altra, l’importante è che vi sia l’armonia, che si ottenga quel risultato richiesto dal contesto in quelle determinate condizioni. Non importa come, dobbiamo rimanere sulla linea che si palesa davanti a noi, fin da quando ci alziamo la mattina andando a comporre tutti gli automatismi che ci catapultano all’ora di pranzo. Non ne parliamo, il pranzo non ha poi questa sua dignità, serve ad intervallare, a dividere la giornata e a collegare gli altri automatismi. Un meccanismo perfetto, ben oliato, inutile insistere a voler trovare il pelo nell’uovo, no?

Non sono un esperto, non ho titoli di studio nel settore, scrivo di questi argomenti con un permesso speciale, un titolo che mi rilascio io stesso. Studio il mondo, l’uomo e tutto quello che lo coinvolge, dal singolo fino alla massa, ma lungi dal porre una qualche ragione, una parte profondamente decisionale. Sono immerso in questo contesto, in questo ambiente lavorativo fin dalla mia nascita, dal mio originario osservare. Ritrovandomi a far parte di questo sistema mi sono chiesto cosa mancasse, quale fosse quell’elemento aggiuntivo che riusciva a rendermi così incompleto, così insoddisfatto. Non lo troverò mai, molto probabilmente, ma se mi fermo ad osservare il mondo con gli occhi di un bambino, che non imbroglia e che è guidato dall’istinto, dalle sensazioni più pure, mi rendo conto che non vi è corrispondenza con ciò che si costruisce attorno a me. Sembra quasi che la discordanza sia data dall’uso di due linguaggi differenti, con la particolarità che uno non intende dire nulla di più rispetto a ciò che già ho scritto qualche riga più in alto. Non tenta di uscire da quell’immensa e fredda struttura preimpostata, invariabile, immutata nel tempo, un conformismo radicato in grado di persuadere con promesse anche piuttosto sicure.

In tutto questo vedo una forma indefinita, visibile e affermata ma che non riesce a trovare un nome, l’ha perduto tempo fa, come l’individuo che vi è dentro ha perduto se stesso poiché sommerso da se stesso, dalla sua creazione. Il punto di non ritorno è determinato da questa situazione che in psicologia è definita “workaholism”, una totale dedizione al lavoro come comportamento patologico, arrivando a mettere in secondo piano la vita sociale. In questo comportamento emerge la problematica della perfezione, quell’errore che è caratteristico di ciò che non comporta rischi, imprevisti o variazioni rispetto al programma. In questo verso si ha la suddivisione totale, prendendo ogni elemento non per ciò che è ma per la sua utilità e funzionalità, arrivando ad avere tante sagome senza un valore preciso, senza una soggettività a renderle uniche. Si abbatte la dimensione valoriale, ci si omologa e si perde il proprio nome perché non ha più senso la chiamata e il chiamare. Si perde totalmente l’essenza che si alberga in ogni singola cosa o persona. «Chiamare le cose con il proprio nome» recita un passo de Il Dottor Živago di Borìs Pasternàk.

Se smettiamo di credere così tanto nell’essenza delle cose allora smettiamo di chiamarle, di nominarle e perderemo di senso anche noi. Forse nemmeno io ho ancora compreso la grandezza di questa frase e mi ci potrebbe volere tutta la vita. Tutta la vita a vivere davvero qualcosa, a chiamare davvero qualcosa con il nome che le spetta, senza falsare, senza imitare o illudersi. Sembra già alla nostra portata ma la ritengo l’azione più difficile della nostra frenetica esistenza perché in quel momento ci fermeremo e vivremo davvero sessanta secondi in un minuto, vivremo davvero una risata come un momento incontenibile e felice, vivremo davvero un bacio come il riconoscimento di qualcuno. Quando, la prossima volta, penserete a ciò che non va, magari sarete nella vostra camera alla sera, dopo aver trascorso una normale serata, proprio lì avvertirete quella sensazione. Vi sarà una sensazione ad attaccarvi ferocemente, un senso di vuoto nella vita che è stata costruita sul principio della pienezza, del riempimento e la contraddizione non potrà non farvi domandare: qual è il problema?

Alvise Gasparini

Se mi imponi non ci sono più: chi sono?

«Facoltà di pensare, di operare, di scegliere a proprio talento, in modo autonomo; cioè, in termini filosofici, quella facoltà che è il presupposto trascendentale della possibilità e del volere, che a sua volta è fondamento di autonomia, responsabilità e imputabilità dell’agire umano nel campo religioso, morale, giuridico» (Treccani).

Questa è la definizione che il libro dei vocaboli mi concede.
Tuttavia è solo una parte dei miei poteri; se vengo associata al pensiero, al culto, all’espressione, alla stampa, persino all’essere felici, mi ritrovo in specifiche situazioni e opero senza ostacoli.
Nella mia natura non ho confini, e se non ci fossero le vostre leggi lavorerei a trecentosessanta gradi arrivando a distruggere le mie sorelle; non so chi sia stato il primo tra voi ad imbrigliarmi, quello che so è che da quel momento ho iniziato ad essere usata a vostro piacimento, anche solo per giustificare qualche vostra malsana idea di dominare il mondo.

C’ero quando mi avete posta in cima alla piramide dei vostri valori, era scritto in una carta firmata tanto tempo fa; c’ero quando mi avete vista sotto una certa luce e avete pensato che fosse la mia rappresentazione assoluta, per poi costringere tutti gli altri a guardarmi allo stesso modo.
Mi avete insegnata, spiegata, i più grandi tra coloro che chiamate filosofi mi hanno studiata, e ognuno ha detto la sua opinione.
Avete combattuto delle guerre solo per la convinzione di avermi come alleata o testimone.

No, non sono nulla di tutto quel che dite.
Nessuno mi possiede quindi tutti mi possiedono.
E’ inutile il vostro fomento, il vostro dito puntato contro qualcun altro che non è voi, vestito diversamente, che adora divinità diverse, che interpreta la vita in una delle sue innumerevoli declinazioni, loro come me: tutte giuste quindi tutte sbagliate.
Odio terribilmente quando mi chiamate, quando mi invocate, quando vi vantate, quando dite di avermi definito sotto ogni singolo aspetto.
Vi detesto soprattutto quando decidete cosa sono e per chi.

Ultimamente lo avete fatto con le donne.
Sì insomma, avete deciso come le donne di tutto il pianeta mi dovrebbero vivere, e non vi siete nemmeno resi conto che facendolo mi avete allontanata da loro.
Mi avete sbandierata a gennaio dello scorso anno, perché era giusto che dei fumettisti potessero disegnare ciò che volevano, oggi mi avete rinnegata perché quegli stessi fumettisti hanno disegnato ciò che volevano.

Vi piaccio solo quando vi fa comodo.
Solo quando non vi si tocca nel profondo, solo quando vivete di eterna superficialità, solo per fare bella figura con gli altri, voi e la vostra faccia pulita scevra da ogni ombra.
Mi legate a frasi sconnesse, a citazioni di altri come voi, mi legate a bandiere, a vessilli e mi portate in trionfo senza accorgervi del nulla che vi accompagna, mi legate a uomini che mi hanno negata per legge, senza rendervi conto delle amenità che pronunciate.
Dite di rispettarmi, ma non mi state nemmeno a sentire.
Siete pieni solo di voi stessi, non di me.

Allora, nel silenzio della vostra indifferenza quasi quasi me ne andrei.
Mi lascerei trasportare dalla tentazione di vedervi sbalorditi alla ricerca di qualcosa che avete perduto.
La straordinaria soddisfazione nel dirvi addio.
Nel prendere commiato e dare le dimissioni da questo mondo nel quale vengo imposta.
Basta, non ci sono più.
Parola di Libertà.

Alessandro Basso

[Immagine tratta da Google Immagini]