Cartesio e il problema della libertà

Il concetto di libertà è uno di quei temi che non passano mai di moda. Comprensibile, visto che difficilmente possiamo trovare qualcosa che tocchi più da vicino la nostra sensibilità. Più o meno consapevolmente, la libertà viene chiamata in causa nei contesti più disparati: se n’è parlato molto in politica quando la questione del green pass era al centro dei dibattiti; se ne parla moltissimo a scuola, quando si affronta la nozione di diritto; se ne discute implicitamente innumerevoli volte prima dei diciott’anni, con i propri genitori, quando trattiamo sull’orario di rientro la sera. E quando finalmente diveniamo maggiorenni, il mondo ci sembra ad un tratto un posto più grande, perché “adesso possiamo fare quello che vogliamo”. E quest’idea sembra essere la più popolare, quella che dà la sua accezione al concetto di libertà che ha il senso comune: assenza di limitazioni esterne.

Presto ci rendiamo conto che la vita in società non può ammettere l’assoluta libertà di ognuno, pertanto ridimensioniamo la nostra idea ed affermiamo che “la nostra libertà finisce laddove inizia quella dell’altro”. Tuttavia quest’idea di una completa indipendenza da vincoli persiste ad un livello più intimo: le nostre scelte sarebbero libere nella misura in cui non vi è nulla, se non la nostra volontà, a determinarci. E in questo senso, saremmo tanto più liberi quanto più la nostra volontà è scevra di fattori che possano spingerla in una direzione piuttosto che in un’altra. Ed è in virtù di queste ragioni, sembra, che storciamo il naso all’idea che i nostri pensieri e le nostre azioni siano causati da fattori esterni alla nostra volontà, ma che la determinano: il determinismo in tutte le sue forme è percepito come negazione della libertà.

A questo punto sorge un problema. Se da un lato un’azione libera è determinata esclusivamente dalla nostra volontà, dall’altro non possiamo però decidere che cosa vogliamo: di fronte a due alternative diamo la preferenza all’una o all’altra secondo le nostre inclinazioni, che non dipendono da una deliberazione consapevole.
Insomma, come potrò agire esclusivamente in virtù della mia volontà, se questa è determinata a sua volta da fattori che le sfuggono? Per decidere in piena libertà che cosa fare, non dovrei forse essere per l’appunto libero dalle inclinazioni che mi spingono in una direzione piuttosto che nell’altra?

Un approccio interessante alla questione della libertà è offerto da Cartesio nelle sue Meditazioni metafisiche, pubblicate per la prima volta nel 1641 (in particolare nella quarta, titolata Del vero e del falso). L’autore francese mostra come nell’atto di prendere una decisione intervengano due facoltà: la volontà e l’intelletto. La prima è definita come «la potenza di deliberare», di pronunciarsi su qualcosa. È il potere di decidere se accettare o rifiutare, oppure se è il caso, per il momento, di astenersi perché non abbiamo abbastanza informazioni. In questo senso, essa è intesa da Cartesio come libero arbitrio. La volontà è quindi ben distinta dalle inclinazioni personali verso qualcosa. Le inclinazioni sono un fatto, mentre la volontà è un potere d’azione, e le due cose agiscono separatamente l’una dall’altra. Per esempio, se in questo momento ci fa voglia un gelato, non possiamo farci nulla: è un fatto, ed è ciò che qui abbiamo chiamato inclinazione. Tuttavia possiamo decidere se è il caso di prenderlo oppure no: se ne abbiamo già mangiati dieci, sappiamo che mangiarne un altro ci farà male, pertanto decidiamo di non prenderlo, pur facendoci voglia.

Ad un’osservazione più attenta, ciò che ha determinato la nostra volontà a rifiutare il gelato contravvenendo alla nostra inclinazione immediata è la consapevolezza del fatto che troppo gelato fa male. La conoscenza è di competenza della seconda facoltà, l’intelletto. La conoscenza delle cose ci aiuta a prendere delle decisioni accurate: vedendo ciò che è bene e ciò che invece è dannoso, ci comportiamo di conseguenza.

Da questo testo di Cartesio emerge un’idea davvero affascinante: l’indifferenza tra più alternative non è libertà, ma indecisione causata dal fatto che non conosciamo ciò su cui stiamo decidendo, e ciò produce una sorta di paralisi. Quando invece sappiamo bene cosa scegliamo quando lo scegliamo, ci decidiamo molto più spontaneamente, e siamo tanto più liberi non avendo che una sola alternativa: quella giusta, poiché nulla ci ostacola nella nostra azione. Recita Cartesio:

«Se conoscessi sempre ciò che è vero e ciò che è buono non sarei mai nella difficoltà di decidere […], e sarei interamente libero, senza mai essere indifferente» (Cartesio, Meditazioni metafisiche, 1986).

Insomma, quello che Cartesio vuole dirci è che libertà e conoscenza sono inseparabili: soltanto conoscendo ciò che è bene, che non può che giovarmi, asseconderò la mia natura e sceglierò liberamente, eliminando così l’imbarazzo della scelta.

 

Pietro Bogo

 

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Essere in buona salute e sentirsi bene nell’epoca delle biotecnologie

Un tempo la salute del paziente e i successi in ambito medico erano riscontrabili in termini quantitativi, ovvero l’oggettività scientifica costituiva il parametro attraverso il quale si riscontrava se la terapia messa in atto aveva ristabilito o meno lo stato di salute fisica del paziente.

Nel secondo dopoguerra, la medicina ha avviato una prima rivoluzione terapeutica debellando molte malattie infettive gravemente invalidanti o mortali; inoltre, l’applicazione del metodo sperimentale ha permesso l’allungamento della vita media. Negli anni, una seconda rivoluzione, quella biologica, ha consentito di iniziare a intervenire nell’ambito della nuova genetica.

Tali successi e innovazioni medico-scientifiche hanno reso dunque necessario un ripensamento dei contenuti del termine salute.

Nel 1948, l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) diede una svolta al concetto di salute fino ad allora caratterizzato da un approccio paternalistico. La salute venne definita come uno «stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia».

Questa definizione annunciò il superamento del riduzionismo organicista e la valorizzazione della dimensione soggettiva. Quindi, la salute viene intesa anche come l’auto-percezione del singolo soggetto nei vari momenti della sua vita.

Ciò avrebbe quindi permesso di affiancare allo stato di salute oggettivamente rilevabile in termini clinici, il concetto di qualità di vita, frutto della percezione stessa del paziente, delle sue preferenze e valori. Il progresso scientifico-tecnologico in medicina avrebbe così favorito l’affermazione di tale parametro, da affiancare e valutare congiuntamente alla qualità delle terapie.

Ad oggi, non è possibile definire uno stato di salute tralasciando la percezione della persona stessa di trovarsi in uno stato di buona salute, oppure non prendendo in considerazione i fattori psicologici e morali relativi alla percezione di sé e del proprio benessere.

Sebbene focalizzarsi sulla persona, sulla valutazione integrale e multidisciplinare dei bisogni al fine di promuoverne dignità e qualità di vita, sia il punto di svolta della definizione dell’OMS, il raggiungimento di uno stato di completo e concomitante benessere fisico, psichico e sociale risulta oggettivamente utopistico.

Sposando tale definizione, pertanto, nessun essere umano potrebbe essere definito completamente “sano”. Inoltre, associare il benessere alla salute significa inevitabilmente legare il malessere all’assenza di salute; è tuttavia evidente che le cose non stanno così: il benessere e il malessere sono stati non stimabili effettivamente.

Di qui, la concreta difficoltà nel determinare all’unanimità la validità dei parametri oggettivi e dei fattori soggettivi che convergono nella valutazione della qualità di vita; ne deriva quindi la difficoltà di sapere a chi spetta stabilire i termini che la definiscono e la rilevanza da assegnare a ciascuno di essi nell’elaborazione delle scale di stima della qualità di vita.

Tale prospettiva può avere conseguenze rilevanti soprattutto per quanto riguarda la valutazione delle nuove biotecnologie e il loro impatto sulle nostre vite; la presenza di parametri soggettivi nella definizione dello stato di salute è indicativo non solo della rilevanza delle prospettive emancipatorie che caratterizzano le “nuove tecnologie della libertà” (libertà dalla malattia, libertà dal dolore, libertà da un determinato destino biologico, ecc…), ma anche delle sfide che il loro uso o abuso può comportare.

Infatti, gli ambiti specialistici maggiormente interessati da un’attenta valutazione della qualità di vita sono quelli in cui la conoscenza biologica, che si ottiene nei laboratori, è stata tradotta in tecnologia, ovvero in metodi, procedure e strumenti che possono modificare le nostre vite con lo scopo di migliorarne la forma o il funzionamento oltre quanto necessario per il recupero di uno stato di salute quantitativamente rilevabile.

Il passaggio da una concezione della salute intesa in senso puramente quantitativo, ad un’idea di salute intesa come benessere e ben vivere, avente al suo centro la capacità dell’individuo di prendersi cura di sé, comporta un rischio ben definito: un impiego ideologico del criterio di qualità di vita.

Il problema risulta essere quello di porre il principio di qualità di vita a fondamento della norma etica, permettendo ad ogni soggettività la gestione indiscriminata del proprio corpo e della propria vita, in conformità ad una visione del bene e della qualità di vita totalmente personali, dimenticando però che le conoscenze di cui oggi disponiamo richiedono una riflessione a tutto campo, universalmente condivisa.

Se da un lato non si può concepire una medicina priva del coinvolgimento dei desideri del paziente nel ripristino della sua salute, dall’altro è altrettanto necessario che i bisogni del paziente siano orientati da valori etici coincidenti con il rispetto della vita fisica, delle persone, dell’ “ecosistema” in cui viviamo. La ricerca scientifica e l’attività medica devono avere una finalità orientativa ben precisa perché senza un’etica della vita non può esserci una qualità di vita.

Ritengo dunque che la definizione epistemologica dello stato di salute dovrebbe essere accostata ad una condizione di equilibrio dinamico da creare tra il soggetto e l’ambiente umano, biologico e sociale che lo circonda, in maniera tale da poter affrontare, attraverso lo sviluppo di risorse interne, le condizioni di malattia.

 

Silvia Pennisi

 

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Quel che resta dell’antropologia

L’antropologia è una disciplina che mette ordine. Reinserisce ogni attore nella sua area di azione e lo rileva nella sua forma agentiva. In questo modo lo valorizza nel suo potenziale e nei suoi atti; riconosce i legami e le economie di potere che lo influenzano e che instaura coi presenti; colleziona quante più dinamiche possibili prima di asserire qualsiasi cosa. Calibra il giudizio anche su quegli elementi che normalmente restano ignoti o vengono misconosciuti. È una disciplina che ricerca l’etica, e la risveglia, in mezzo a intricatissime panoramiche. Quindi si può dire che le sue scoperte si producono nei suoi allievi. Il mantra è che la cultura è un farsi umano, un improvvisarsi situazionale, un incontrare, un comunicare e un plasmare sempre “in viaggio”1; un fare che non ha riscontri oggettivi, ma solo frontiere da varcare e da fuggire, storie da narrare.

L’antropologia però nasce come disciplina etnocentrica: come emissaria dell’imperialismo. Nei decenni, studiando l’uomo altro, si è stupita delle numerose similitudini tra la propria casa e quelle dell’uomo altro, annotandosele entusiasta. Ma procedendo e approfondendo questi temi, si è resa conto di quanto quelle somiglianze fossero inesistenti, arbitrarie, perché ricondotte soltanto alla propria personale singolarità, nel soggettivo, nell’interpretato, in un percorso unidirezionale che finiva col giustificare un pensiero ingenuo. Ingenuo perché troppo accasato nella comodità dei propri dogmi. Quelle somiglianze servirono solo che alla trascesa verso un ascolto orizzontale, il quale, nel suo praticarsi, ha portato alla luce un sapere che fa della dolcezza − e della disillusione − la sua forza.

L’antropologia pervade come un fiume, non invade come una montagna. È una disciplina che disegna e traccia cosmi a partire da una materia rarefatta che è la vita stessa nelle sue prolifiche espressioni. L’antropologia, in ultima, e in realtà primissima analisi, è uno studio sulla vita che si esprime. Ma è anche della vita che si esprime, della vita rappresentata dal singolo ricercatore, la quale si adopera per riconoscersi, rappresentarsi, aiutarsi e coinvolgersi nella cura di sé. L’antropologo dovrebbe dunque essere anzitutto un amante della vita. Di quella vita che si medita nel dialogo che è prassi tipicamente umana, di quella vita che trascende le parti per mostrarsi sopra e insieme ad esse, e soprattutto di quella vita – eccolo il trucchetto – che parla al di là dello scambio duale, al di là delle simmetrie e al di là delle rappresentanze.

La vita da amare ha un lato selvaggio, e ogni cosa d’amare ha qualcosa di pernicioso che bisogna riconoscere. In ogni parola e in ogni gesto, in ogni risposta che questi atti producono, si sollevano moltitudini di volti e concerti di nomi, si sente la presenza di narrazioni sgargianti, si ode lo scalpiccio di un milione di cammini. Fasci di luce che rimbalzano e impressionano da uno specchio all’altro. Nella voce di chi parla ci sono le parole e le idee di chi egli ha ascoltato, e nelle nostre domande risuonano le cantilene di chi vediamo ogni giorno, e a volte anche quegli episodi singoli, legati a un vecchio sconosciuto, che stranamente ci rendono nostalgici. Il mondo e la vita sono relazioni: l’antropologia è la disciplina che ne fa una certezza.

Ancora di più, l’antropologia guarda e contempla gli “attriti”2. Quelle regioni di contatto tra forze opposte, quei fenomeni imprevedibili, saturi di storia, che scintillano quando un universale cerca di espandersi in un contesto particolare. Succede che l’universale non è più universale e perde se stesso: può perdere il suo mondo. Le cose “non vanno come previsto”, un’intenzione, pur positiva, fallisce nel suo scopo, poiché si è avvicinata al prossimo con una valigia piena di idee mai scartate, mai tolte dalla scatola. Ammirate soltanto, desiderate, servite, mai capite, mai offese. Quindi un incontro diventa foriero di delusioni; e al richiamo di quelle delusioni, che tradiscono il desiderio esistente di capirsi per un motivo o per un altro, giunge l’antropologo col suo linguaggio saggio e calmo, improntato alla tolleranza, all’onestà e alla liquidità. L’antropologia è dunque amore per il limite: un ascolto. È un sapere che si produce nelle Zone, nelle aree magiche fuori casa, dove i saperi sono solo strumenti: quindi è una coscienza. È una colta amante viva nelle regioni dove gli attriti dettano l’andamento del quotidiano e palesano i neuronali filamenti che avvolgono il pianeta.

Se c’è una cosa che accomuna l’antropologia alla filosofia è la reciproca assenza di forma. La filosofia, è vero, costruisce le sue forme, cerca di dare un assetto al mondo, ma se è profonda e sincera con se stessa sa anche discutere quell’assetto e sa farsi da parte quel che basta per accogliere altre riflessioni. Una filosofia forte sa amare la sua opinabilità. L’antropologia, questo fantasma disciplinare che perde sempre più oggetti, dispensa buoni, ottimi consigli. Risveglia l’etica, appunto, ci rammenta la nostra arbitrarietà e insieme la nostra libertà, quindi la possibilità di amare quella stessa arbitrarietà. Ci porta a contemplare il fondo comune che alla fine non è nulla: una patina di vuoto che possiamo pensare come il divenire, il movimento. L’antropologia scioglie l’universo e lo rende semplice. Parla, guizza, espone, per poi scomparire. E in quel momento speciale, dopo che hanno scoperto chi sono, i coinvolti si trovano a dover rispondere a un invito disarmante: riconoscere il proprio potere e prendere una decisione.

 

Leonardo Albano

 

NOTE:
1. Cfr. J. Clifford, Culture in viaggio, in Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX, Bollati Boringhieri, 1999
2. Cfr. A. L. Tsing, Friction. An ethnography of global connection, Princeton University Press, 2005

 

[Photo credit: Adolfo Félix via Unsplash.com]

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Se non fossimo liberi: l’assurdità della necessità

Che senso ha pensare fino in fondo che tutto ciò che si è, che si pensa e che si fa, sia in qualche modo già deciso? Può qualcuno conciliare una credenza simile con la vita quotidiana?

Premetto subito per evitare confusioni che qui intendo la libertà in senso ontologico: cioè come libero arbitrio, non come libertà fattuale, come quando si dice ‘Spartaco si è liberato dalle catene’. In questo secondo senso gli uomini sono un miscuglio, in diverse misure, di libertà e condizionatezza; nel senso del libero arbitrio la questione è invece a dir poco controversa da qualsiasi punto di vista la si tratti.

In ambito filosofico le opinioni si muovono in uno spettro compreso tra: ‘Siamo assolutamente liberi (e condannati ad esserlo)’ e ‘Il libero arbitrio è semplice illusione’. Tra questi due poli si inseriscono poi infinite sfumature e compromessi.

Abbozzato velocemente lo sfondo, entriamo nel vivo dell’argomentazione. Lo scopo di questo articolo, sulla scorta di argomentazioni antiche, è mostrare che, quantomeno da un punto di vista esistenziale, la negazione del libero arbitrio sfocia in una sorta di contraddizione. Un tal tipo di contraddizione, largamente intesa, è uno iato, uno sfasamento tra ciò che uno dice e ciò che uno fa.

Nei suoi effetti psicologici essa è pensabile come dissonanza cognitiva: qualcosa in me stride, una dimensione del mio essere non è in accordo con un’altra. Questa situazione deve trovare riappacificazione altrimenti, secondo alcuni, a lungo andare si rischierebbe l’insorgere di disturbi psichici.

Siamo partiti dalla fine, dando per scontato che negare il libero arbitrio risulti effettivamente in un tale tipo di contraddizione. Vediamo perché ciò accade.

L’etica, come sa chiunque si sia addentrato nei suoi meandri, è pensabile come teoria della decisione. Essa riguarda le scelte e le loro destinazioni, cioè i fini. Le scelte, che siano reali o illusorie, innervano la vita di chiunque di noi. Alcune decisioni che prendiamo hanno grande importanza nel decidere chi saremo domani, e come importanti le considera la maggior parte di noi. Pensare che la storia della vita di ognuno sia già scritta rende insignificante l’attività di decidere, rende indifferente di intraprendere una via e non un’altra, e rende quindi impossibile scegliere.

Le teorie deterministiche cercano di affermare proprio questo: non essendo io libero, quando valuto due opzioni sono simile ad una pietra sospesa in aria prima della caduta che ‘decide’ in che direzione rotolare, ossia sto sprecando tempo.

A questo punto chi si ostina a negare la libertà ha due opzioni: (1) coerentizzare ciò che fa a ciò che pensa e dice e quindi cercare inutilmente di vivere come se le sue scelte fossero illusorie, scorrendo attraverso la vita, negando le responsabilità, convivendo con i problemi non solo pratici ma anche teorici che la scelta di una vita del genere comporta. Oppure, per evitare (1), deve (2) vivere una vita scissa tra ciò che dice di credere e ciò che le sue azioni dicono che egli crede fino a diventare due persone diverse: io che penso e io che agisco. Inutile dirlo, in entrambi i casi le conseguenze sono disastrose.

Quello qui formulato è uno sviluppo del cosiddetto ‘argomento pigro’, conosciuto già dai pensatori di epoca greco-romana. Con esso si vuole mostrare che, pur non essendo immediatamente squalificabile, la posizione deterministica stessa è incompatibile con la morale − e quindi infondo con la vita −, sia da un punto di vista teorico che pratico.

Tornando alla domanda iniziale, diremo quindi che uno è certamente libero di negare la libertà, basta che ne accetti le conseguenze.

Francesco Fanti Rovetta

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La scelta democratica è morale?

«La forza è la prima legge della Natura, indistruttibile. Il mondo non può essere costituito che su la forza, tanto nei secoli di civiltà quanto nelle epoche primordiali. La Natura è iniqua. Noi siamo i prodotti della Natura: non possiamo dunque aspirare alla giustizia, ribellandoci alla nostra causa stessa. Chi reclama e sogna e profetizza è un ingenuo o un retore. Se fossero distrutte da un altro diluvio deucalionico le razze terrestri e sorgessero nuove generazioni dalle pietre, come nell’antica favola, gli uomini si batterebbero tra loro appena espressi dalla terra generatrice finché uno, il più valido, non riuscisse ad imperare sugli altri»¹.

Sembra Nietzsche, ma questo breve estratto è di D’Annunzio, scritto nell’anno 1892. Il poeta italiano si sta interrogando sulla democrazia, considerata adatta solo a spiriti deboli:

«Giova forse prolungare la vita dei miserabili? A che? Preoccuparsi della folla a detrimento dei “nobili” non sarebbe come trascurare gli arbusti più vigorosi, in una selva, per curare qualche virgulto povero di linfa o qualche erba vile?»2.

Effettivamente, posta su questo piano, chiedendo ad un qualsiasi coltivatore quali piante promuove nei suoi campi e quali invece abbandona − o addirittura estirpa − la scelta sembra quasi obbligata. L’occidente, invece, ha “scelto” l’uguaglianza come base dell’organizzazione statale e la necessaria conseguenza di questa decisione è la democrazia. A questo proposito D’Annunzio afferma:

«Per fortuna lo Stato fondato sulle funzioni del suffragio universale e dell’uguaglianza, cementato dalla paura, non è soltanto una costruzione ignobile ma è anche precaria».
«Su l’uguaglianza economica e politica, a cui aspira la democrazia socialista e non socialista, si andrà formando un’oligarchia nuova, un nuovo reame della forza; e questo gruppo a poco a poco riuscirà ad impadronirsi di tutte le redini per domare le masse a suo profitto, distruggendo qualunque vano sogno di uguaglianza e di giustizia»3.

«Pillola rossa o pillola blu?»
Questa domanda, posta da Morpheus a Neo nel celebre film Matrix, può essere paradigmatica per ogni tipo di scelta a cui andiamo incontro.
Quante variabili concorrono nel momento in cui dobbiamo decidere qualcosa? Infinite, ma potrebbero essere organizzate in due categorie fondamentali: motivazioni interne ed esterne. Alcune di queste sono però singolari, poiché sfuggono a questa classificazione inserendosi in entrambi gli ambiti. In particolare, emerge prepotentemente la morale.
Quanto influisce la morale in una scelta? Se poi ci concentriamo in una di quelle decisioni che più ha influito e tutt’ora condiziona la vita degli uomini − l’organizzazione dello Stato − questa domanda assume una notevole intensità.

Può esistere un “a-priori della scelta” che non sia morale e che non sia il bisogno? Possiamo cioè configurare una qualche funzione logica che ci guidi nelle scelte, che possa essere usata come minimo comune denominatore nelle decisioni?
Mi spiego meglio con un esempio: in logica si passa da un classico e ormai nauseante sillogismo come “Tutti gli uomini sono mortali; Socrate è un uomo; quindi Socrate è mortale” ad una formula che lo esprime formalmente, cioè che può valere non solo con questi particolari elementi ma con qualsiasi termine che configuri quella inferenza. Nel nostro caso la formula è: ∀x(U(x)→M(x)) dove “∀” significa “per ogni” e quindi “tutti”, U(x) è la proprietà di essere uomo posseduta da un x, “→” esprime la relazione “se… allora…” e M(x) la proprietà di essere mortale posseduta da un x.

Sempre D’Annunzio continua:

«L’eguaglianza e la giustizia sono due astrazioni vane, e le dottrine che ne derivano sono inaccettabili dagli uomini superiori.
L’aristocrazia nuova si formerà dunque ricollocando nel suo posto d’onore il sentimento della potenza, levandosi sopra il bene e sopra il male»4.

“Levandosi sopra il bene e sopra il male”. Proprio questo è il punto: elevarsi dalla morale, da una giudizio che sia in qualche maniera condivisibile o meno.
E cosa ha portato, secondo il poeta, a questa scelta da parte degli uomini? Qui il debito verso Nietzsche è più forte che mai:

«[…] una fra le ragioni del general decadimento sta in questo: che l’Europa intera ha ricevuta la sua definitiva impronta dalla nozione del bene e del male presa nel senso della morale degli schiavi.
Due sono le morali: quella dei “nobili” e quella del gregge servile. Ora, poiché in tutte le lingue primitive nobile e buono sono termini equivalenti e poiché la parola nobile è anche una designazione di classe, ne vien per conseguenza manifesta che la casta dei signori ha la prima nozione del Bene. Tutta la loro morale ha la sua radice nella sovrana concezione della loro dignità e tende alla glorificazione superba della vita.
La genesi del Bene è necessariamente diversa nello schiavo. Per istinto, egli diffida di ciò che il signore chiama il Bene; poiché in fatti ciò che per costui merita un tal nome è cattivo per lo schiavo e quindi rappresenta il Male.
Ma pur troppo la morale degli schiavi ha vinto l’altra»5.

Non c’è dubbio che la scelta abbia, almeno ad una prima analisi o per una sua parte, una genesi ed un lascito morali. Ciò, però, non deve farci ricadere in una valutazione su di essa se sia “giusta” o “sbagliata”, altrimenti riprodurremo una scelta morale. Il punto è che in forza di questa sua caratteristica la democrazia è l’unico ordinamento politico che permette la sua autocritica, e proprio questo è uno degli elementi da sempre sottolineati da chi vuole difenderla.
Tutto sta − a mio parere − nel tentare di “elevarsi”, appunto, per capire dove ci sta portando. Se effettivamente questa nuova oligarchia si stia impadronendo «di tutte le redini per domare le masse a suo profitto, distruggendo qualunque vano sogno di uguaglianza e di giustizia».

Siamo così sicuri che sia stato detto che «la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle forme che si sono sperimentate fino ad ora»6?

Massimiliano Mattiuzzo

NOTE:
1. 25-26 settembre 1892, “Il Mattino”, ora in Gabriele d’Annunzio, Scritti giornalistici 1889 – 1938, vol. II, pp. 86 – 94, Mondadori, Milano 2003.
2-5. Ibidem.
6. Celebre aforisma di Winston Churchill.

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Leggere le decisioni di giustizia attraverso Marx, le scienze cognitive e un cantastorie

Tradizionalmente il diritto e la giustizia vengono raccontati ricercando l’equilibrio tra la fissità della norma giuridica e le interpretazioni del fatto alla luce della logica giuridica. Tutto ciò in una apparente apollinea perfezione delle forme. Lo fa il giudice (o almeno crede di farlo, sempre in buona fede) e lo fanno anche (o almeno credono di farlo, usualmente in buona fede) il pubblico ed i media che si occupano di vicende di cronaca. Questa rigidità cognitiva presenta due limitazioni: da un lato non rispecchia le varie sfaccettature che il diritto e la giustizia applicata (lo jusdicere) portano con sé nell’esercizio di questa complicatissima attività del decidere umano; dall’altro, come conseguenza della prima limitazione, trasforma un fare ‘molto concreto’ dell’agire umano in qualcosa di estraneo alla percezione, non solo sensoriale ed istintiva, ma persino intellettuale.

Il ‘fare giustizia’ viene così trasfigurato in qualcosa che può essere trattato come il prodotto di un duello rusticano o di una prova ordalica, privi di regole popperianamente falsificabili o, almeno, empiricamente riscontrabili. Dove il vincitore (colui che decide) è, al contempo, l’effetto dell’espressione di una morale mitologica o di una altrettanto mitologica immoralità. Rompere la dialettica improduttiva tra fatto e diritto vuol dire creare un percorso cognitivo sulla giustizia che può ‘suonare’ come eccessivamente dissacrante, spudoratamente dionisiaco, banalmente da cantastorie. Ma sono le scienze cognitive ad imporre di rompere lo schema apollineo di una presunta dialettica costruttiva tra fatto e diritto, a favore dello schema ‘senza confini’ ed eracliteo (più aderente, appunto, allo spirito musicale dei cantastorie folk) dettato dalla psicologia cognitiva, la filosofia della mente e l’antropologia culturale.

Il cervello del giudice è composto di neuroni e sinapsi, neurotrasmettitori e DNA metilato. Non è un ‘angelo cognitivo’, ma un soggetto antropologicamente analogo a tutti gli altri individui, che ‘vivono’ di euristiche (scorciatoie cognitive) e bias (errori cognitivi) trappole mentali e pregiudizi. Le scienze cognitive, con il loro approccio ‘aperto’ e multidisciplinare indeterminato, consentono di affondare l’interpretazione sulla giustizia applicata nel cuore pulsante della decisione (nel cervello) evidenziando come questo sia paragonabile ad una biblioteca, laddove lo spazio del libero arbitrio è direttamente correlato e dettato dai ‘testi’ che formano la biblioteca medesima. Non possono essere ‘lette’ scelte differenti dai ‘volumi’ presenti in ‘archivio’ ed il contenuto di detti volumi segna il ‘colore’ del libero arbitrio e del libero convincimento (e dunque, anche, le euristiche, i bias e le trappole mentali del decisore).

Per comprendere realmente le vicende di giustizia, oltre alle scienze cognitive, è decisiva anche la filosofia, che da sempre studia i grandi temi dell’umanità, tra i quali la libertà del fare è certamente uno tra quelli più ponderosi. Sul piano filosofico lo spunto qualificante e direttamente correlato con gli statuti scientifici sulla cognizione, risiede nel pensiero di Marx ed in specie nella parte afferente il concetto di struttura e sovrastruttura. In Per la critica dell’economia politica (1859) l’autore afferma che «non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza»; più specificatamente, ed in modo precipuo circa il rapporto uomo-legge, Marx sottolinea che questo ‘essere sociale’ (l’uomo) è determinato dalla struttura della produzione economica e la legge è solo una sua sovrastruttura. Dunque, per cambiare la legge, è necessario, preliminarmente, modificare la struttura che ne sta alla base.

L’approccio da cantastorie all’interpretazione ed alla narrazione della giustizia, rompendo con lo schema dialettico tra fatto e diritto come unica chiave di lettura dello jusdicere, consente una reinterpretazione del libero convincimento alla luce della psicologia cognitiva e del rapporto conflittuale tra struttura e sovrastruttura di tradizione marxiana. Mi spiego: il cervello del giudice è, come detto, antropologicamente identico a quello di ogni altro individuo. L’io cognitivo del singolo individuo determina la prima struttura cognitiva del giudicante. Tale cervello (con la sua biblioteca personalissima sopra descritta) è però inserito all’interno di un diverso sistema cognitivo, con uno statuto suo proprio, costituito dall’apparato di giustizia che si concretizza (esplicitato in modo generico) nella garanzia di proteggere i cittadini onesti da coloro che delinquono, nel tutelare la vittima, nel sanare una ferita sociale (Durkheim), nello svolgere una funzione di ‘crime control’ e nell’ ‘istruire’ la collettività attraverso la pena ed il processo nei confronti del singolo (funzione general-preventiva della pena). L’inserimento del giudice all’interno di questo apparato o sovrastruttura di secondo livello costituisce, secondo il modello-Zimbardo (esplicitata nel testo L’effetto Lucifero), una forma assai cogente di mente estesa che ragiona, in armonia o in conflitto, con quella dell’io (di primo livello).

A questi due livelli di cognizione si deve aggiungere un ulteriore livello cognitivo, ennesima sovrastruttura rispetto all’io pensante ed all’io mente estesa, e cioè dire la legge. Come per Marx, per il quale la legge è sovrastruttura della coscienza collettiva, la medesima legge costituisce, reinterpretata in chiave scientifico-cognitiva (‘vestita’ sul giudice) una sovrastruttura (l’ennesima) nel rapporto cervello, mente estesa e mondo (laddove il mondo è il non-io del giudice, l’oggetto del giudizio, il fatto da giudicare attraverso lo jusdicere). La legge è, così, a sua volta, un nuovo livello cognitivo ed anche una nuova forma di mente estesa, che gioca un suo ruolo dialettico e confliggente con l’io cognitivo e la mente estesa costituita dall’apparato della giustizia.

A questo schema complesso e composito va poi aggiunto, in specifici casi di giustizia applicata, un altro mondo cognitivo, assai spesso alieno rispetto alle conoscenze del giudice e costituito da ‘menti estese’ quali la scienza e la tecnica (al servizio della prova penale), la normativa amministrativa (si pensi a quella antiriciclaggio rispetto al delitto di riciclaggio), oppure la scienza medica, l’ingegneria o altre specialità peritali.  Il precipitato di questa lettura della cognizione processuale, estranea alla tradizionale interpretazione giuridica (ma, come detto, da cantastorie folk) comporta delle conseguenze decisive, sia in ambito filosofico che, più specificatamente, in ambito cognitivo. Per quelle di ordine filosofico: Marx ha statuito che la liberazione dalla trappola struttura-sovrastruttura consiste nella rottura della struttura, volta poi a modificare la sovrastruttura (è la dottrina del materialismo storico); per Hegel, secondo il quale la legge è un momento della fenomenologia dello spirito, nel percorso dialettico tendente all’assoluto, detta liberazione è protesa verso l’unità epistemica nel rapporto io-mondo. Per entrambi i sistemi filosofici il riscatto e la piena coscienza è dunque possibile, così mettendo in salvo l’io dall’alienazione del sé. Per il giudice questo non può accadere. Costui non può rompere né la struttura né la sovrastruttura (l’io cognitivo di primo livello o l’io della mente estesa dei livelli successivi); né, del pari, può abbattere la sovrastruttura costituita dalla legge. In questo modo la dialettica dell’ io-giudice (con gli apparati cognitivi predetti) ed il citato non-io, costituito dalla questione di fatto da risolvere mediante lo jusdicere, resta intrappolata, senza scampo, nei percorsi cognitivi del giudice e ciò in quanto priva di una soluzione armonica. Tale indissolubile trappola si risolve, sempre marxianamente, in una continua alienazione della coscienza cognitiva. Il risultato di questa alienazione è un gioco di euristiche e bias cognitivi continui che, come in un flipper impazzito, rischiano di ‘giocarsi reciprocamente’ la pallina del fatto, oggetto del giudizio (il non-io del giudice) e della conseguente decisione. Con la evidente perdita del tasso di certezza della scientificità cognitiva di ogni decisione e del rispetto delle regole di diritto.

Luca D’Auria

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Le euristiche del giudice ed il processo penale. Anche il giudice può cadere nelle trappole mentali

Il mondo della giustizia (penale) è un mondo di decisioni. Il giudice è il decisore per eccellenza. Nelle sue mani sono racchiuse le sorti dell’accusato. A sua volta l’accusato è imputato di aver deciso di trasgredire le regole su cui si fonda la comunità in cui vive. Le scienze cognitive affrontano il tema della decisione mettendo in luce come il cervello, con i neuroni, le sinapsi ed i neurotrasmettitori, determina le decisioni nell’interazione col mondo, utilizzando i percorsi “stampati” nelle connessioni cerebrali. Tutto questo è il frutto dell’apprendimento. Questo è il vero pilota della nostra vita, spesso automatico in quanto “sicuro di sé” (l’apprendimento serve proprio a non dover sempre “ragionare” su ogni scelta) e gioca una partita a scacchi con il DNA ed il caso. Ne scaturisce un uomo ben diverso da quel “legislatore universale” che vorrebbe Kant; chi potrebbe dirsi capace di decidere in modo così “angelico” come avrebbe voluto il Padre Nobile dell’illuminismo? E’ vero, l’Occidente è figlio di quella tradizione che, però, presa dogmaticamente, rischia di trasformarsi in un paradigma antistorico. Il diritto penale applicato è uno dei campi che restano maggiormente ancorati a questo dogma. Il giudice deve decidere secondo il suo “libero convincimento” ed il reo deve aver deciso con “libertà d’intendere e di volere”.

Sia concesso qualche ragionamento sul giudice. Il codice impone che la decisione sia logica, libera, rispettosa delle regole processuali. I caratteri quasi religiosi di questo strumento di gestione della collettività sono di immediata intuizione. La toga, lo scranno ed i simboli dell’Ordine giudiziario ne sono la rappresentazione “pop”. Questi sono solo all’apparenza inutili. Lo “jusdicere” deve affascinare, fare paura, creare rispetto. E non essere discusso nei suoi aspetti più profondi: quelli che attengono alla libertà del decidere. Oggi qualsiasi scienziato cognitivo afferma che è una chimera sostenere la piena logicità del nostro fare; le euristiche e cioè le scorciatoie che in ogni istante il cervello plastico prende per agire senza sorprese, determinano il fare e convincono la coscienza di aver scelto “la via giusta”. Talvolta è così; altre volte si tratta di trappole mentali che determinano i bias cognitivi e cioè errori di rapporto tra il mentale e la realtà che vuole una risposta. Questi colpiscono tutti, sempre. Sono modalità decisorie normali, utili ed adattive. Insano sarebbe un metodo diverso. E’ vero per tutti e tutto tranne che per il giudice? Non risultano individuate da nessuno le trappole mentali e dunque le euristiche causatrici di bias cerebrali specificatamente riferite alla funzione della decisione giudiziale. Di contro, la psicologia cognitiva, come è noto, ha catalogato quelle più comuni che inficiano il ragionamento.

Un seppur superficiale e non esaustivo elenco delle trappole mentali giudiziarie è necessario ed utile per una corretta comprensione della decisione giudiziaria. Alle comuni euristiche possono affiancarsi le seguenti trappole mentali tipicamente giudiziarie:

Tolomeo mental trap: la trappola mentale di Tolomeo riguarda tutti gli errori nei quali può incorrere il giudice rispetto alla prova tecnica o scientifica. Tale fonte conoscitiva esula infatti dalle sue competenze e dunque chi decide può essere fuorviato dall’idea astratta che un certo mezzo conoscitivo porta con sé (si pensi alla prova del DNA) trascurando le emergenze che nel singolo caso possono rendere non affidabile la fonte di prova.

Aristotele mental trap: la trappola di Aristotele consiste nel rischio che il giudice confonda il tipo di sillogismo da applicare in sede giudiziaria; in specie non utilizzi il metodo induttivo che va dal particolare (la fonte di prova) al generale (la prova della commissione del fatto) ma si attesti sul sillogismo deduttivo che, per definizione, non dimostra nulla in quanto la premessa maggiore contiene già la conclusione.

Wig mental trap: è la trappola della parrucca (simbolo del giudicante ma anche delle parti processuali). Si può verificare ogni qualvolta il giudice non valuti la prova così come offerta dall’istruzione ma faccia prevalere il proprio ruolo di garante della collettività e dunque si trovi a decidere in base a ciò che ritiene giusto per il ruolo ricoperto più che in base agli atti.

Josef K mental trap: è la trappola mentale dell’accusato. Nel celebre romanzo di Kafka (Il Processo) Josef K viene accusato e condannato e il protagonista stesso non trova la modalità per dimostrare l’infondatezza dell’accusa.

Giovanna d’Arco mental trap: la trappola mentale di Giovanna d’Arco può colpire il giudice nella valutazione della deposizione vittima del reato. In questi casi il giudice può dare eccessivo credito alla versione di chi lamenta di aver subìto un reato oppure, al contrario, la vittima può essere, a suo volta, “vittima” di uno svilimento delle proprie ragioni.

Dr. Watson mental trap: è la trappola mentale del poliziotto. Investe il giudice ogni qualvolta crede alla ricostruzione della polizia anche se questa diventa un postulato.

Black money mental trap: la trappola del “denaro nero” riguarda il giudizio che attiene ogni utilizzo sospetto del denaro stesso.

Eyes mental trap: la trappola mentale degli occhi attiene a tutte quelle situazioni in cui il giudice deve porsi nella condizione di “cosa avrebbe visto” l’agente prima della commissione del fatto e non già “guardando” al suo comportamento in ragione dell’evento accaduto.

Ink mental trap: la trappola dell’inchiostro si ha ogni volta in cui il giudice è chiamato a decidere sulla base di documenti o, ancora di più, di intercettazioni trascritte. Queste ultime possono infatti essere lette in svariati modi e sensi in quanto la trascrizione scritta delle medesime non permette di comprenderne i toni e dunque il valore “indiziante” delle medesime.

Due process of law mental trap: la trappola mentale del “giusto processo” è l’errore di sistema processuale per cui il giudice sente per prima la versione dell’accusa. Questa garanzia giuridica per l’accusato, sul fronte delle scienze cognitive, costituisce trappola mentale in quanto i neuroni vengono “segnati indelebilmente” dalla prima versione proposta (al giudice).

Pop justice mental trap: la trappola causata dal “lato pop” della giustizia attiene a tutte quelle influenze esterne che possono riverberarsi sul processo (si pensi alla così detta giustizia mediatica) ma ancora di più riguarda la funzione general preventiva della pena. Questa infatti può portare il giudice a decidere proiettandosi verso la società e non già rimanendo strettamente legato alla prova.

Old sage mental trap: è la trappola mentale del “vecchio saggio” o “saggio precedente giurisprudenziale” preso in esame dal giudice. In realtà è esperienza comune verificare come la giurisprudenza, anche consolidata, non sia sempre immediatamente utilizzabile come “stare decisis” in una nuova.

Hans Georg Gadamer mental trap: la trappola mentale di Georg Gadamer si verifica ogniqualvolta in giudice applica l’ermeneutica in luogo dell’epistemologia. L’ermeneutica, infatti, metodologia tipica dello storico, consente di “riempire” i vuoti informativi usando la scienza propria dell’interprete. Comprendere le trappole mentali del giudice non è un modo per svilirne l’attività ma, anzi, per consentire una maggior aderenza giuridica delle sentenze alle esigenze imposte dalle regole sulla prova penale.

Luca d’Auria

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Pillola rossa o pillola blu? Questione di stress

Immaginate di essere stati lì, catapultati in una situazione imprevista, di fronte a un brutto ceffo che fino a qualche istante prima non avreste mai osato guardare in faccia, se non per l’ingresso in un locale notturno.

Immaginate che vi metta queste due pillole davanti con una spiegazione tanto ermetica quanto didascalica.
Cosa fare? Quale dannata pillola ingoiare, prima che sia lui stesso a ficcarcene una in gola (di sicuro quella sbagliata)?

Bisognerebbe fermare il tempo, chiedere un time out all’universo e infilarci in una dimensione spazio-temporale che ci permetta di esercitare quella razionalità olimpica che Herbert Simon attribuiva inizialmente all’essere umano. La scelta perfetta, insomma, quella che potremmo prendere se avessimo tutto il tempo necessario, analizzando pro e contro e potendo sostituire il nostro cervello con un computer impeccabile. Possibile? Per ora no, non del tutto almeno: ci dobbiamo accontentare di una razionalità limitata.

Prima di cedere alle pressioni di un qualsivoglia bodyguard incattivito, che ci accompagna con autorità all’unica e incontrovertibile possibilità di scelta, dovremmo quindi fare i conti con le nostre peculiarità: scarsità di risorse, quantità di tempo ridotta, capacità computazionali limitate.

Ecco messo a nudo l’essere umano, un essere che vive di un sistema emotivo di cui fatichiamo spesso a riconoscere confini e manifestazioni quotidiane, ma che si frappone sempre tra quello che pensiamo (o speriamo) dovrebbe accadere e quello che invece accade.

Tra premesse e conseguenze ci troviamo immersi in una nuvola di preoccupazione e stress, che mettono ancor più in crisi le nostre già ridotte capacità di problem solving; respiriamo continuamente nubi tossiche che entrano a far parte di noi, delusioni e aspettative tradite che incrementano la nostra immobile indecisione.

La teoria dell’utilità attesa, molto cara ad ogni studio sul decision making, ci spiega come prendiamo decisioni in condizioni di incertezza. Ma qui non si tratta di una “semplice” indecisione tra due possibilità; non possiamo massimizzare nessun risultato, scegliendo la pillola migliore, che di fatto non esiste. È il contesto a fare la differenza: l’ansia da prestazione provoca uno stato di stress a cui il cervello risponde con due uniche possibilità: lotta o fuga.

Pillola rossa o pillola blu? Non lo so, e non lo posso sapere finché l’amigdala (sede cerebrale delle emozioni) rimane in uno stato di iperattività e tensione. Il sistema limbico continua a procedere secondo un sistema binario 0-1. Non ci sono altre possibilità e sotto stress veniamo stravolti, non riuscendo più a gestire emozioni, scelte, umore, comportamenti e impressioni, se non con l’unica risposta vitale che in quel momento il cervello riesce a produrre: NO!

“No” inteso come “non scegliere”, “non farlo adesso”, “non ne hai le capacità in questo momento”: qualunque scelta tu faccia ora, sarà comunque sbagliata, perché contraria all’inappellabile suggerimento del tuo apparato emozionale.

Come fare? Accettare il diktat cerebrale, innanzitutto, e assecondare quell’immobilità. Il cervello e il resto del corpo non sbagliano mai; i nostri pensieri, invece, spesso e malvolentieri.

Ma se le conseguenze del nostro silenzio dovessero essere ancor più tragiche di quanto non lo sia una scelta dettata dalla tensione, allora dovremmo premunirci di una consapevolezza generale ben più radicata su tutto ciò che ci riguarda. A partire da passioni, desideri, aspettative, capacità, competenze, abilità, conoscenze, contesto sociale: tutto andrà ben ponderato giorno dopo giorno, alla ricerca di un obiettivo finale che si va definendo in fieri.

Non ci sarà dubbio che tenga, allora, saremo sempre in grado di gestire l’emozione di ogni scelta e ingoiare la pillola rossa con piena responsabilità di ciò che ne deriverà.

Benvenuti su Matrix.

Giacomo Dall’Ava

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Ti illudi di vivere

Freud scrive che l’esistenza umana, di ognuno di noi,è semplificabile in due pulsioni fondamentali: pulsione alla vita e pulsione alla morte. Eros e Thanathos. Anche l’Universo di cui sappiamo così poco sarebbe forse riconducibile a queste due pulsioni fondamentali, l’Universo appare come qualcosa di privo di vita, alieno, invivibile e dominato dall’entropia a cui solo la vita sembra costituire una tutto sommato effimera eccezione. E’ Schopenhauer però a sollevare senza pietà il velo di omertà che si cela dietro a quella che noi chiamiamo vita, ai nostri slanci di ottimismo, alla nostra voglia di credere, di sperare. La vita cela la certezza della morte, ci illude che tutto abbia un senso per nasconderci maternamente che in fondo alla strada, proprio lì, c’è ad attenderci il momento in cui imploderà ogni senso. Per vivere dobbiamo rimuovere la certezza della morte, la rimozione della morte ci porta a convincerci che le cose che ci circondano abbiano un senso ed è così che nasce l’illusione di vivere: la vita come qualcosa di transitorio, effimero, momentaneo in un mondo dominato dall’inorganico, la vita come eccezione. Ed in questa prospettiva l’Eros viene visto come illusione, l’Eros come menzogna, illudiamo noi stessi per vivere. Anche quello che Spinoza chiama conatus sese conservandi, l’istinto di conservazione, non sarebbe altro per Schopenhauer che un tratto negativo di una vita che non si armonizza col tutto, in fondo ogni individuo mira a sopravvivere. In realtà a tutti sarebbe noto fin dall’inizio che la vita non è nulla più che una illusione, data la nostra destinazione nel nulla, ma la vita per “ingannarci” avrebbe immesso in noi un dispositivo atto a disinnescare la verità, l’amor proprio è quel miserabile barlume che sradica il destino quando lo crediamo irreversibile. Si palesa quatto, infimo, decisivo. La vita non sarebbe altro che sofferenza rispetto al perfetto silenzio del mondo inorganico, la perfezione dell’oribita di un pianeta, una goccia che scivola su una foglia, tutto “pulito”, perfetto, meccanico. Frida Khalo prima di morire disse “Spero che l’uscita sia gioiosa e spero di non tornare mai più”, soffermatevi a fissare un suo autoritratto, guardatela trafitta da frecce e vivisezionata sulla colonna vertebrale, frutto delle fratture che l’avevano costretta all’immobilità, un fisico di donna martoriato e consapevole si portava addosso tutta la forza della rivoluzione. La fine è nota. Tutto quello che inizia finisce. Esplosione, espansione, stasi, contrazione, involuzione e poi più niente. Tutto torna al grande nulla originale da cui è nato. Le stelle sono destinate a spegnersi, l’universo a sparire. Da questa prospettiva la fine della specie umana è irrilevante dato che persino l’eco della nostra battaglia contro l’entropia è destinato a spegnersi nel nulla. Niente di ciò che siamo stati e di quello che abbiamo fatto, niente di quello che faremo, è destinato a sopravvivere. Schopenhauer ci rivela che il passato è ininfluente e il futuro è condannato. Ma a fargli seguito ecco Nietzsche rispondergli “resta l’adesso”, il momento presente. “Svegliati ogni mattina e immagina il tuo corpo trafitto da mille lance”, così recita uno dei precetti filosofici dei samurai. Significa che dobbiamo immaginare la nostra morte per amare e dare un senso alla nostra vita, per vivere davvero ogni giorno della nostra esistenza. Leggendo la fine della “Coscienza di Zeno” il protagonista rievoca un’immagine: l’Esplosione, una detonazione data dall’incremento esponenziale della nostra capacità distruttiva come genere umano al punto da far detonare tutti noi, nessuno escluso. Nella distruzione si riabbraccerebbero tutti, finalmente l’umanità scoprirebbe l’unità dinnanzi alla sua fine, non ci sarebbero più differenze di genere, di colore della pelle, di lingua, sarebbero uniti i belli con i brutti, gli intelligenti e gli stolti, i savi con i folli. Oggi l’umanità cammina verso l’Olocausto perseguendo la promessa irrealizzabile di uno sviluppo all’infinito che ormai fa acqua da tutte le parti, eppure non ci arrendiamo, non smettiamo di combattere contro l’assenza di senso e scopo delle nostre vite, continuiamo a dare un senso a ogni nostro gesto e azione, non accettiamo di gettare al vento tutti gli sforzi fatti fino a questo momento. L’arte, la filosofia, le conquiste scientifiche, tutto è già perduto in un annunciato fall out esistenziale, prima ancora che fisico. Nietzsche ci invita ad accettare il non senso, la follia, per imporre la nostra volontà sulle cose e imporre loro il nostro destino. Se non ci arrendiamo all’illusione di vivere, ma accettiamo il “male di vivere” forgiando la strada sulla quale camminiamo e continuiamo a lottare, ignorando quell’inevitabile orizzonte degli eventi, allora il nostro presente si dilaterà attraverso il tempo e lo spazio, donandoci una vita eterna fatta di momenti infiniti. Perché la fine è nota e non trattabile. Ma se non possiamo decidere il quando, possiamo e dobbiamo determinare il come.

Riempiamo le nostre vite di mobili da montare comprati da IKEA, cellulari spesso più intelligenti di molti esseri umani, lavatrici, vestiti firmati, matrimoni, baci, carezze, promesse, bugie, tutto per non pensare che iniziamo a morire il giorno stesso in cui veniamo al mondo e il tempo che ci tocca in sorte che sia una condanna o un dono non tornerà. Quanto tempo sprechiamo? Davanti alla televisione a guardare programmi spazzatura, a parlare della vita degli altri, a invidiare, a desiderare, a sognare cose che non abbiamo il coraggio di fare. Stiamo tutti morendo leggendo anche queste righe….sicuri che non vorreste essere altrove?
Matteo Montagner

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Un angelo che ha voluto essere libero

Occhi grandi, scuri, da cerbiatto. Capelli lisci, tagliati in un caschetto, fini e sollevati dal vento. Un sorriso radioso, illuminato ancor di più dal sole e da quei fasci di luce che rivelano delicatamente tutti i colori dell’arcobaleno. Un arcobaleno di riflessi, della stessa sostanza dell’ energia che una ragazza di diciannove anni dovrebbe sprigionare.

È questa l’immagine che mi lascia legata a lei e che, inspiegabilmente, resta nel mio cuore.

È questa l’immagine che voglio tenere con me, lontano da quel sonno profondo che per più di dieci anni l’ha incatenata a sé per poi portarsela via.

A diciannove anni, si è soliti dire di avere tutta la vita davanti. Talvolta è così. Talvolta è la vita a essere rifiutata, negata. Altre volte ancora, è lei ad allontanarsi da noi.

A diciannove anni, si ha tutta la vita davanti. Eppure, degli incidenti di percorso possono interromperla.

Ed è così che, un giorno come tanti altri, la sua vita si è inceppata, impedendole di rincorrere i suoi sogni e di vivere l’amore. E da quel giorno, un sonno profondo l’ha stretta a sé, svuotando quegli occhi che brillavano al sole, lasciandola imprigionata in quel suo corpo fragile disteso su un letto irrimediabilmente legato a delle macchine che avevano in pugno la sua vita.

Le macerie di un corpo esausto, forse? Segni esteriori di qualcosa che ha in fondo ancora un po’ di vita? La speranza di un risveglio? E quelle lacrime che talvolta scendevano dai suoi occhi, che cosa significavano? Volontà di vita oppure di abbandono di sé?

Durante un intervento al quale doveva sottoporsi, il coma l’ha inghiottita a sé, e le ha impedito di risvegliarsi per sempre. È così entrata in un incubo dal quale è quasi impossibile, se non raro, uscire.

Eppure, quella speranza, quell’incapacità di dire no a una vita che, forse, non ha più lo stesso senso di essere vissuta, permane e, in un certo qual modo, costituisce per i cari che le sono vicino il solo appiglio cui tenersi aggrappati, come se mantenerla in vita potesse aiutarli a sentirla fisicamente più presente a loro.

Eppure, la persona, non è solo corpo. Eppure ciò che la rende tale, è anche altro.

Una vita psichica, una dimensione emotiva, i molteplici fili relazionali di cui la sua esistenza è intessuta.

Quando Kant nella Metafisica dei costumi[1], parlava della differenza tra le cose e le persone, la dignità era l’elemento centrale di questa distinzione.

E qualora mancasse questo, che valore potrebbe assumere il corpo inerte, bloccato a un letto di ospedale? Chi ha tuttavia il diritto di decidere della vita di qualcun altro? E decidere per essa significa decidere unicamente per la sua interruzione, oppure al contrario, talvolta, un vero “attentato” alla vita e alla dignità può ritenersi quello di mantenere in vita “artificialmente” un corpo che ormai è svuotato del suo senso e valore profondo?

 Per tutto ciò che riguarda le questioni di etica medica, l’Occidente è progressivamente passato da un modello paternalista, secondo il quale tutte le decisioni dovevano essere prese dal medico e da tutto il servizio sanitario che si prendeva cura del paziente, ad un modello autonomista, secondo il quale il paziente avrebbe il diritto di scegliere il suo destino ed esprimere la propria volontà[2]. Il primo modello sembrerebbe guidato da quello che in francese è definito con il termine di principe de bienfaisance (ovvero, “principio di benevolenza”): secondo tale criterio, solo il medico può agire secondo il bene e del paziente e per la sua salute; sarebbe soltanto costui, l’unico quindi a decidere a-priori ciò che è bene e ciò che invece potrebbe essere fonte di malessere.

Il secondo, invece, farebbe risiedere la capacità decisionale unicamente nel paziente, in quanto soggetto completamente libero di prendere delle scelte riguardanti l’interruzione o meno di un trattamento terapeutico. A tale scopo nel 2002 in Francia, la legge n° 2002-303 del 4 marzo[3]avrebbe lo scopo di definire, all’interno del quadro dei diritti del malato e della qualità del sistema sanitario, il riconoscimento giuridico dell’autonomia del paziente, anche qualora questi manifestasse il rifiuto di un trattamento.

 Aucun acte médical ni aucun traitement ne peut être pratiqué sans le consentement libre et éclairé de la personne, et ce consentement peut être retiré à tout moment[4]».

( Trad. : « Nessun atto medico, né alcun trattamento può essere praticato senza il consenso libero e informato della persona, e questo consenso può essere ritirato in ogni momento».)

 Come prendere una decisione se è la coscienza del paziente a venire meno, nel momento in cui la sua capacità di intendere e volere scompare? Come può costui capire ciò che è bene o male per sé, se la sua situazione psichica è già parzialmente compromessa? Può davvero ritenersi autonomo nella scelta? C’è qualcun altro che, in caso contrario, può davvero decidere per la sua vita?

Uno dei tratti della condizione umana, lo sappiamo bene, è la finitudine. La vita ci viene tolta, proprio come ci viene data.

Ciò che inoltre distingue l’essere umano dalle cose, lo abbiamo detto, è la dignità, considerata come quella qualità che valorizza ciascun essere umano in quanto insostituibile ed unico nella sua specificità.

Sono pertanto queste due caratteristiche, finitudine da un lato e dignità dall’altro, a entrare in gioco nel momento in cui trattiamo la dibattuta questione etica dell’eutanasia.

Una cosa, infatti, è mantenere artificialmente un corpo in vita e volere a tutti i costi che il suo cuore batta grazie all’uso delle macchine, nonostante l’assenza evidente di una vita psichica, un’altra cosa è comprendere che, talvolta, è giusto lasciare andare la persona cara, poiché la morte potrebbe divenire una sorta di liberazione de quel peso che schiaccia non più una vita, ma solo un corpo inerte.

L’eutanasia è vietata in nome della legge. Nessuno dunque può porre fine alla vita di una persona, nemmeno quando è quest’ultima a domandarlo.

Oggi anche quella ragazza dagli occhi grandi se n’è andata.

Un altro angelo è lassù che mi protegge oramai.

Tuttavia, a volersene andare, è stata proprio lei.

Ha smesso di respirare e ha lasciato quel letto in punta di piedi, alzando al cielo quelle ali che, finalmente, potevano respirare il profumo della libertà.

 

[1] I. KANT, Fondements de la métaphysique des moeurs, Le Livre de Poche, Paris, 2014.

[2] M. MARZANO, Je consens, donc je suis, PUF, Paris, 2006.

[3] Ibidem, p. 77.

[4] Ibidem, p. 76, rif. alla legge n° 2002-303 del 4 marzo 2002, art. L. 1111-4.

 

Sara Roggi

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