Prendi una mamma e aggiungi un po’ di filosofia. Intervista a Vittoria Baruffaldi

Donna, filosofa, madre, insegnante. Quattro identificazioni che offrono le linee guida per iniziare a conoscere Vittoria Baruffaldi. Nella vita, Vittoria insegna filosofia e storia ai ragazzi del liceo e suggerisce a se stessa di fare la mamma con filosofia. Queste ultime le parole che fanno da sottotitolo al suo libro, Esercizi di meraviglia 1, un testo che dimostra il profondo legame che esiste tra quotidianità e filosofia (punto di partenza e al contempo obiettivo del nostro stesso progetto editoriale). La realtà che trapela dalle pagine del libro della Baruffaldi è la realtà quotidiana di una mamma come tutte le altre. Solo, con un pizzico di filosofia in più, la quale fa da insaporitore alle piccole-grandi osservazioni e riflessioni di ogni giorno. In questo modo, nelle pagine scritte dalla Baruffaldi, Socrate insegna alle lettrici a non usare troppo dogmatismo nei confronti dei figli; la lezione del Tractatus Logico-Philosophicus di Wittgenstein offre spunti interessanti per un approccio con le prime paroline proferite dai nostri bambini; le massime eleatiche 2 fungono da interpretazione dell’egocentrismo che i bambini sviluppano attorno ai due anni; e via così dicendo. Se questi accostamenti vi incuriosiscono, vi suggeriamo la lettura del testo, e nel frattempo vi offriamo questa breve intervista all’autrice. Buona lettura!

 

Parliamo del suo libro, Esercizi di meraviglia. In questo testo lei propone una riflessione eminentemente filosofica riguardo i vari momenti che caratterizzano la vita di una donna che sta per diventare, o è diventata, madre: dall’attesa e dalle speranze tipiche della gravidanza alle gioie e alle preoccupazioni proprie dell’infanzia dei figli. Com’è nata, dunque, l’idea di accostare alcune pagine di storia della filosofia alla sua quotidianità di donna e di mamma?

esercizi-di-meraviglia-vittoria-baruffaldi-la-chiave-di-sophiaEsercizi di meraviglia è la storia di una madre e un bambino che si fanno delle domande, e provano a illuminare il senso del loro rapporto, e delle cose che accadono intorno a loro. Il bambino si meraviglia di fronte al mondo, e la madre prova a re-imparare a meravigliarsi insieme a lui, e così dà un nome nuovo alle cose, persino a se stessa. Il tratto d’unione tra la filosofia e l’essere madre è proprio la meraviglia, quel primo passo, verso le domande, i capovolgimenti, le possibilità.

La nostra società è fortemente intrisa, forse più che in passato, di stereotipi e pregiudizi, non sempre valicabili. A questo proposito vorrei chiederle: che significato ha per lei il concetto di maternità? Crede si possa andare oltre alla costruzione prettamente culturale di questo concetto?

Quello che mi interessava era proprio parlare della maternità dal punto di vista del “pensiero”. La filosofia non è un farmaco: fornisce chiavi di lettura, pone domande, sconvolge credenze cristallizzate. È una possibilità per trovare noi stessi, insomma, e abbandonare stereotipi e modelli imposti (che sulle mamme abbondano da ogni fonte). È una possibilità per essere la madre che si è, una madre complessa, fluida, in fieri.

Potremmo dire che il suo percorso di studio e di vita (da studentessa ad insegnante di filosofia) ha condizionato il suo essere madre e la sua personale riflessione riguardo questo suo nuovo “ruolo sociale”. Capovolgendo la prospettiva, ritiene che la maternità abbia altrettanto condizionato il suo modo di guardare la filosofia?

Fare la mamma con filosofia è l’opposto di fare la mamma che “la prende con filosofia”. La prima è colei che si complica la vita, a suon di domande, dubbi e capovolgimenti. Vantaggi? Imparare a sbagliare, capire; diventare la madre che si sceglie di essere. La maternità non ha cambiato il mio modo di guardare la filosofia, forse solo un maggiore interesse per il pensiero femminile, per una filosofia ben piantata dentro l’esistenza. Prediligo le strutture frammentarie, le “piccole illuminazioni”.

Solitamente questa è l’ultima domanda che rivolgiamo ai nostri interlocutori, ma con lei mi permetto di anticiparla. Che cos’è “filosofia”, che cosa ha rappresentato e cosa significa per lei ora?

Una grande passione, sin dai tempi del liceo. Un modo d’illuminare l’esistenza quotidiana, senza alcuna pretesa di riduzione a una qualche verità. Avere il coraggio di pensare – dare voce agli interrogativi che tutti ci poniamo prima o poi –, stare presso di sé e uscire fuori da sé.

Veniamo ora al suo lavoro: lei è professoressa di filosofia e storia al liceo. L’insegnamento è per lei una passione o in passato si prospettava una diversa posizione professionale?

È il mestiere che volevo fare e che mi piace fare: dopo dodici anni entro ancora in classe sorridendo. Le materie che insegno esercitano un grande fascino sugli studenti.

A proposito degli studenti, lei lavora con gli adolescenti, ragazzi al contempo fragili e determinati. Tornando con la mente a quando io stessa ero studentessa della scuola superiore, mi rendo conto che instaurare un dialogo proficuo con i ragazzi di questa fascia d’età non sia affatto semplice. Considerando il fatto che l’insegnante in questione è chiamato a parlare di storia e filosofia, materie che al giorno d’oggi sembrano collocarsi agli antipodi degli interessi dei giovani, la questione si complica. Che osservazioni ci propone a questo proposito?

Io ho una visione molto positiva dei ragazzi d’oggi: li trovo curiosi, intuitivi. Personalmente li vedo coinvolti dalle mie materie, soprattutto dalla filosofia, che dà loro gli strumenti per comprendere l’architettura, la complessità – anche di informazioni – in cui vivono. Per essere buoni insegnanti bisogna aggiornarsi, usare le tecnologie didattiche in maniera sensata, saper facilitare i processi d’apprendimento in maniera attiva. È necessario essere flessibili e creativi anche nell’insegnamento, essere in grado di adattare quest’ultimo a seconda degli studenti (si creano alchimie differenti di classe in classe, da alunno a alunno) e agganciare ciò che si spiega con la loro contemporaneità. Bene, oggi ti spiego la Fenomenologia dello spirito di Hegel, ma ti spiego anche perché è importante, a cosa ti può servire, come si lega col tuo vissuto. Oppure parto da cose relative al senso comune per mostrar loro come si possa fare filosofia anche attraverso la vita.

Facciamo infine un passo indietro al periodo dell’infanzia. Sulla spinta delle influenze provenienti per lo più da altri paesi europei, anche l’Italia, negli ultimi anni, ha iniziato ad abbracciare la causa della filosofia applicata ad attività e laboratori rivolti ai bambini. Alla luce della sua esperienza di “mamma-filosofa”, cosa pensa del binomio filosofia-infanzia? Nel suo piccolo ha provato a giocare con la filosofia assieme alla sua bambina?

Ho avuto dei contatti con ragazzi e ragazze che si occupano di P4C: mi piace l’idea della filosofia come scoperta formativa, e spero che mia figlia possa partecipare a uno di questi laboratori. Per ora mia figlia va all’asilo, impara con naturalezza e gioca. Quando la vado a prendere le chiedo: ti sei divertita? “Sì”, mi risponde, e questo mi basta. A casa mi vede spesso leggere e scrivere, e quindi gioca a leggere e scrivere. Le racconto miti platonici rivisitati e storielle ambientate ai tempi di Napoleone. Le do quello che conosco. “Ti diverti?” le chiedo, e mi risponde: “Sì”. Per ora mi basta questo.

 

Federica Bonisiol

 

NOTE:
1. Vittoria Baruffaldi, Esercizi di meraviglia. Fare la mamma con filosofia, Giulio Einaudi Editore, Torino 2016
2. L’essere è e non può non essere. Il non essere non è e non può essere. (Parmenide, Poema Sulla natura)

 

banner2-pubblicita-rivista2_la-chiave-di-sophia

Intervista a Guido Tonelli: il bosone di Higgs e le radici della nostra storia

Guido Tonelli, Fisico del CERN e Professore dell’Università di Pisa, è stato tra gli scopritori del Bosone di Higgs, occasione per la quale ha poi scritto La nascita imperfetta delle cose. La grande corsa alla particella di Dio e la nuova fisica che cambierà il mondo (Rizzoli, 2016). In questo libro Tonelli racconta cosa vuol dire affacciarsi oltre il limite estremo della conoscenza, fare la scoperta del secolo e capire come tutto è cominciato in quel preciso momento, un centesimo di miliardesimo di secondo dopo il Big Bang in cui si è deciso il nostro destino. In tale opera si spiegano con chiarezza ed in maniera coinvolgente i misteri sull’origine del mondo e la possibile fine dell’universo.

La storia del bosone di Higgs comincia nel 1964 e si articola nei decenni successivi fino al 2011, anno della scoperta, resa possibile solo grazie all’acceleratore Lhc (Large hadron collider) al CERN di Ginevra. Non scenderemo nei dettagli, lasceremo che sia il professore a raccontarcelo. Quello che è interessante sottolineare è che con il Bosone di Higgs è stato riempito l’ultimo tassello che era rimasto vuoto del cosiddetto Modello Standard, ovvero la teoria che descrive il mondo delle particelle elementari e le incasella in una sorta di tavola periodica. Ma il Bosone di Higgs, suggerisce Tonelli, potrebbe spiegare anche molti dei misteri del cosmo. Secondo alcune teorie, infatti, questa particella potrebbe aver giocato un ruolo importante nelle primissime fasi dell’universo, per esempio riguardo la questione dell’asimmetria tra materia e antimateria, che subito dopo il Big Bang erano presenti in quantità uguali (o quasi): può essere stata una leggera “preferenza” del Bosone di Higgs per la materia ad aver consentito a quest’ultima di sopravvivere ai primi millisecondi di vita dell’universo, mentre l’antimateria (disintegrandosi con la materia) è completamente sparita.

Per concludere, ora il Bosone di Higgs non solo lo abbiamo davanti, ma ha anche aperto una nuova fisica. E pure (anche se non ce ne accorgiamo) un nuovo modo di vivere. Queste scoperte, che potrebbero apparirci come puramente accademiche, hanno infatti un’influenza su tutti noi: basti anche semplicemente pensare alla tecnologia e a quanto essa, tramite le scoperte scientifiche, ha cambiato la nostra quotidianità. A questo proposito Tonelli ci dà una grande conferma, ed anche di questo lo ringraziamo: la continuità che esiste tra i cosiddetti saperi “scientifici” ed “umanistici” nel terreno della vita quotidiana dell’uomo.

 

La fisica, come anche le materie umanistiche – soprattutto quando si spingono a un livello molto sperimentale – richiede ingenti risorse: in cambio di questo investimento esse ci restituiscono una maggior consapevolezza. Crede che scoperte come quelle fatte al CERN comportino un cambiamento per la nostra vita quotidiana, in termini di domande fondamentali e quindi di produzione di senso per la nostra esistenza come individui e come specie? L’origine della Filosofia nasce con domande come “chi siamo?” e da “dove veniamo?”; la Fisica, per certi versi, non tenta di offrire risposte simili?

Alla base di queste ricerche, che sono sicuramente complesse e richiedono ingenti investimenti, cosa c’è? C’è una spinta primordiale che è la curiosità!

Noi siamo esseri umani e l’umanità di oggi, nata in Africa milioni di anni fa, come si è evoluta? Grazie a qualche individuo che ha cominciato a spostarsi, ma perché? Io ho il pregiudizio di pensare che non si sia spostato dalla savana verso il territorio vicino per bisogno di cibo ma credo che la spinta più grossa dei nostri antenati ominidi sia la stessa che motiva noi oggi: la curiosità, il cercare oltre le colline qualcosa che ancora non abbiamo visto. È il tratto più fondante dell’umanità.

Per esempio, se uno prende un bambino piccolo e lo mette in un recinto alto un metro, questi magari cammina malamente, ma proverà ad alzarsi e a vedere cosa c’è oltre. Ecco che allora le ricerche si fanno per soddisfare questa curiosità, che è uno dei tratti più caratteristici dell’umanità, e guai a quell’umanità che scoraggiasse la curiosità e inibisse gli individui creativi che immaginano cose che gli altri non hanno ancora visto, in tutti i campi: in quello scientifico, artistico o letterario.

Occorre dire che le ricerche scientifiche cambiano non solo la percezione del mondo, in quanto hanno effetti su di essa, ma cambiano anche la nostra vita materiale. Ogni tanto immagino che se al CERN ci fosse un grande bottone rosso, spingendo il quale si potesse cancellare dalla quotidianità la meccanica quantistica e la relatività per una ventina di minuti, la gente capirebbe di quanto le scoperte scientifiche degli ultimi cento anni siano presenti nella vita di tutti i giorni: la medicina moderna, le comunicazioni, i cellulari, internet. Non c’è niente nella vita quotidiana che non sia debitore di una scoperta scientifica.

Le cose che si sviluppano nei centri di ricerca producono nuove tecnologie che, in maniera molecolare e silenziosa, entrano nella vita di ogni giorno. Per esempio, nessuno poteva immaginare che i primi laser inventati negli anni ’40/’50 furono inventati avrebbero corretto la miopia o letto un’etichetta al supermercato o riprodotto la musica. Lo stesso vale per la risonanza magnetica: gli studi sulle proprietà magnetiche della materia esistono perché abbiamo capito come questa funzioni; quindi prima o poi, qualunque funzionamento della materia che viene compreso (anche quello più astratto) trova delle applicazioni concrete. Prima o poi questo sapere si diffonde nella vita quotidiana.

Sembra che il linguaggio della natura sia distantissimo dai linguaggi degli uomini: cosa possiamo fare per ridurre questo gap? Secondo Immanuel Kant, la mente umana non conosce le cose in sé stesse ma le impressioni dei sensi che rispecchiano solo l’apparenza superficiale delle cose. Mettendo insieme tali impressioni per mezzo delle strutture spazio-temporali, la mente costruisce la sua immagine della realtà in sé stessa, che resterebbe sempre inconoscibile (noumeno). Dobbiamo ammettere che, in fondo, non sappiamo o non potremo mai sapere nulla di certo sul mondo che ci circonda, o crede che in futuro riusciremo ad arrivare ad una spiegazione definitiva? Dobbiamo rassegnarci, come scrive Kant, al fatto che in fondo la realtà è inconoscibile?

L’ipotesi di Kant contiene un’assunzione arbitraria, cioè il fatto che non c’è nessun elemento per dire che c’è una realtà, ma non potendo verificarla o sperimentarla non si può nemmeno ipotizzarla.

Io, invece, ho un atteggiamento diverso che è molto aderente alla maniera in cui noi uomini della scienza lavoriamo.

Non sono d’accordo con chi dice che noi scienziati sveliamo attraverso il metodo scientifico la natura e osservano le leggi della stessa come se fossero lì davanti a noi e avessimo il compito di scoprirle. In realtà noi abbiamo una nostra visione del mondo che è la stessa che può avere anche una scimmia antropomorfa: per esempio lo scimpanzé quando deve aprire una noce ha un progetto, ovvero prendere un sasso, rompere la noce e mangiare il seme, quindi ha progettato il futuro dicendo “utilizzerò un utensile più duro della noce, la aprirò e mi nutrirò”. Questo progetto è la stessa cosa che facciamo noi, è un’immagine del mondo. Ma cosa differenzia la scienza moderna dalle altre immagini del mondo? Che è rigorosa, che si cambia, si plasma, è pragmatica, accetta di sbagliare, non cerca la verità ma tenta di spiegare tutte le osservazioni e, quando troverà un’osservazione che non riuscirà a spiegare, sa già che dovrà trovare un’altra spiegazione.

Questo atteggiamento pragmatico, in cui non ci si pone il problema di cosa sia la realtà, permette di costruire la propria immagine del mondo che deve essere il più precisa e rigorosa possibile, nonché riproducibile, e che funzioni fino a quando non si scopre che c’è un piccolo dettaglio non congruente e bisogna buttare all’aria tutto e ricorrere ad un altro modello. Questo è l’atteggiamento che ha fatto fare i maggiori progressi e che rende un po’ superflua la questione circa l’esistenza o meno di qualcosa di più profondo: una realtà oggettiva che esista a prescindere da quella che noi possiamo costruire.

La scienza non è altro che una nostra costruzione mentale e, proprio essendo da noi costruita, ci dobbiamo preoccupare di renderla il più accurata e precisa possibile.

Il bosone di Higgs, conosciuto anche come particella di Dio: abbiamo letto molte speculazioni a riguardo, ma di cosa stiamo parlando concretamente? Quali sono le implicazioni di questa scoperta e che scenari apre?

Abbiamo scoperto un momento particolare della nascita dell’universo nel suo complesso, così oggi noi possiamo raccontare questa storia con un dettaglio importante che abbiamo collocato temporalmente e che sappiamo descrivere e precisare: c’è un periodo della nascita dell’universo – i primi cento miliardesimi di secondo – in cui sono avvenute cose che ancora non abbiamo capito ma, dal cento miliardesimo di secondo in poi, da quando il bosone di Higgs si è installato nell’universo, noi conosciamo la nostra storia.

È come se avessimo fatto un altro passo per raccontare la nostra nascita: dal cento miliardesimo di secondo in poi questa particella speciale si è congelata perché l’universo, espandendosi, si è raffreddato. Il bosone di Higgs, che era libero e vagava come le altre particelle, si è quindi bloccato nel vuoto, si è congelato nel suo campo scalare, il quale aveva un’importante proprietà: le altre particelle interagirono con lui diventando massicce, alcune hanno preso una massa, altre un’altra, altre ancora sono rimaste prive di massa. Se questo meccanismo non fosse avvenuto, la materia non sarebbe esistita, o meglio ci sarebbe stata ma in una forma diversa, pensiamo ad un intero universo pieno di particelle che viaggiano alla velocità della luce prive di massa: un sistema perfetto ma senza l’imperfezione che siamo noi o le galassie.

La materia infatti, considerata in atomi e molecole, si è organizzata in tale modo proprio per le caratteristiche dell’atomo: c’è un protone intorno ad un elettrone e se l’elettrone non avesse quella massa ben precisa datagli dal bosone, non potrebbe orbitare intorno al protone e non ci sarebbe la materia stabile che da miliardi di anni ci circonda.

Proviamo ad allestire un semplice esperimento mentale, immaginando una conversazione ideale tra un fisico e un filosofo. Il filosofo fa presente al fisico che è impossibile risalire a cosa ci fosse prima del Big Bang, che si può parlare dell’inizio del tutto soltanto per approssimazione: resta impossibile scorgere al di là dell’universo in cui viviamo, poiché esso costituisce un orizzonte intrascendibile. Il fisico dal canto suo sostiene che, attraverso la ricerca, è possibile – o lo sarà in futuro – provare a dire perfino cosa ci fosse prima del Big Bang. Crede che l’osservazione del filosofo sia pertinente o immagina un futuro in cui sarà effettivamente possibile conoscere quanto è accaduto, per così dire, prima dell’Universo? 

Sono sbagliate entrambe perché c’è questo pregiudizio: si pensa che il tempo sia separato dallo spazio, cioè che ci sia stato il big bang, momento in cui lo spazio si espanse e il tempo sia proceduto a prescindere.

Invece no: tempo e spazio sono nati insieme. Non si può dire ‘prima’ – non esiste –, perché lo spazio e il tempo prima che ci fossero spazio e tempo non c’erano. Quindi la risposta del fisico è sbagliata così come l’osservazione del filosofo perché il fatto di essere all’interno di questo universo, quindi di questo fenomeno spazio-temporale, ci permette di capire cosa sia potuto succedere in esso; e a quel punto niente ci impedisce di immaginare altri fenomeni che avvengano in un non-tempo e in un non-spazio (non esistono spazio-tempo al di fuori dell’universo in cui siamo).

Per esempio esistono le teorie dei multiversi che ritengono che il nostro non sia l’unico universo materiale ma uno dei tanti. E come potrebbero essere verificate se non possiamo osservare e vedere da un universo all’altro?

Ci sono delle ricerche in corso sull’esistenza di questi altri universi possibili: alcune osservazioni che si fanno del nostro universo, studiando tutti i suoi angoli, vanno alla ricerca di zone in cui ci potrebbe essere l’evidenza di un altro universo, un’altra bolla che si sia sovrapposta alla nostra. Per esempio le onde gravitazionali, scoperte recentemente, potrebbero servire a tale scopo. Se uno vede una zona in cui lo spazio-tempo è increspato senza motivo e non c’è nulla che lo deforma, quella potrebbe essere una zona in cui il nostro universo si sovrappone ad un altro universo: questa sarebbe la prova sperimentale dell’esistenza di più universi.

Saperi scientifici e saperi umanistici vengono spesso contrapposti, ma non è possibile trovare tra di essi dei punti di tangenza per potersi anche integrare maggiormente? La complessità della Fisica contemporanea è giunta a livelli tanto elevati che la persona non addetta ai lavori tende a non comprendere le questioni o corre il rischio di affidarsi a formule fuorvianti, come quelle utilizzate dai media. In questo non pensa che le materie umanistiche potrebbero aiutare la scienza a costruire una narrazione accessibile a tutti ma nel contempo precisa, perché sorta dal confronto con esperti come lei?

Sì assolutamente. Io faccio fisica perché amo la filosofia. Odiavo la fisica al liceo e amavo la filosofia e mi è rimasto questo amore appassionato per il dibattito filosofico che seguo da amatore.

Il cervello è uno: io mi appassiono per le meraviglie della natura così come mi appassiono per un brano di musica o per un bel libro o per una bella discussione tra un filosofo ed un teologo. La divisione è del tutto artificiale e la considero un residuo ottocentesco: non solo le materie umanistiche arricchiscono il sapere scientifico e viceversa, ma nel momento in cui dobbiamo spingere la nostra conoscenza al di fuori del conosciuto (è questa la ricerca moderna) ci ritroviamo su un confine in cui si corrono inevitabilmente dei rischi ed è lo stesso in cui si muovono i letterati che vogliono produrre qualcosa di nuovo, gli artisti che vogliono raffigurare qualcosa di nuovo, i musicisti che vogliono fare ascoltare qualcosa di nuovo: che differenza c’è? Nessuna. Ogni volta che mi imbatto in uno di loro li sento vicini perché abbiamo tutti le stesse paure, le stesse intuizioni, – a volte giuste a volte sbagliate – ma è lo stesso atteggiamento nei confronti della ricerca del nuovo.

Ci sarebbe tutto da guadagnare ad avere un intreccio maggiore tra le varie discipline, a moltiplicare i momenti di conoscenza. Scienze naturali e scienze umanistiche sono due modi avanzati in cui si sviluppa la conoscenza e vanno conosciute entrambi: solo in questo modo ne ricaveremmo di sicuro dei benefici.

Matteo Montagner

NOTE:
Intervista rilasciataci lo scorso 3 settembre 2016 in occasione del Festival della Mente di Sarzana (La Spezia).

[Immagine tratta da Google Immagini]

Alla scoperta dell’Antico Egitto: intervista ad Emanuele Ciampini

Lo storico greco Erodoto, il padre, assieme a Tucidide, della storiografia occidentale, affermava nel secondo capitolo delle sue Storie che gli egizi, popolo che aveva conosciuto durante i suoi viaggi, furono la prima civiltà a credere nell’immortalità dell’anima; se è così, si tratta del primo caso storico accertato di credenza in quel di più oltre-materiale dell’uomo, che ancora oggi anima focosi dibattiti tra gli esperti e non, tra filosofi e scienziati, senza che si riesca a trovare un comune punto d’accordo. Tra sostenitori e negatori della sua validità, l’idea dell’anima ha percorso tutta la storia del pensiero occidentale, fino dalle sue antiche origini greche, fino al grande Wittgenstein dello scorso secolo, che si interrogava sul senso dell’utilizzo linguistico del termine “anima”, collegandolo ai vicini temi dell’autocoscienza e del pensiero.

Il target di questa piccola indagine è verificare, nei limiti della possibilità dettati dall’estrema lontananza temporale, se vi è correlazione tra l’inizio del pensiero filosofico occidentale dell’anima e la tradizione religiosa egizia che trattava il tema già migliaia di anni prima. Soprattutto, questa ipotesi sembra avvalorata dal fatto che i saggi greci del tempo (come il già citato Erodoto, ma anche il legislatore ateniese Solone, il filosofo matematico Pitagora e molti altri) fossero soliti visitare l’Egitto alla ricerca della conoscenza della sua lunga storia, della sapienza matematica, filosofica ed esoterica che i sacerdoti di questo affascinante popolo potevano offrire. I contatti tra i due popoli non si fermarono qui: i greci furono in Egitto come mercanti e soldati mercenari.

Per sviluppare questi temi mi sono avvalso della grande esperienza del Professor Emanuele Marcello Ciampini, Professore associato e ricercatore presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, docente di Egittologia e socio dell’I.I.C.E. (Istituto Italiano per la Civiltà Egizia), nonché autore di numerose pubblicazioni scientifiche tra le quali: Cercando un altro Egitto. Sopravvivenze di un’antica civiltà nella cultura europea, I canti d’amore dell’antico Egitto e La sepoltura di Henib.

 

Sembra che gli Egizi furono i primi a credere nell’immortalità dell’anima; questa credenza fu poi alla base della loro cultura, incentrata sull’idea della vita dopo la morte. L’Egittologia finora è riuscita a scoprire qualcosa sulla lontana origine di questo pensiero?

Sull’origine del concetto di “anima”, la questione non è delle più semplici; quella che noi chiamiamo “anima”, nella tradizione egiziana è solo una parte dell’individuo, e, quando parliamo di essa, in realtà noi traduciamo un concetto egiziano che solo in parte coincide con l’idea che la cultura occidentale identifica come anima; ciò che noi traduciamo in questo modo è una componente dell’individuo, identificato in egiziano con il termine “ba”, ed è elemento che accomuna sia gli uomini che gli dei, che quindi non è prerogativa esclusiva degli uomini, nella prospettiva di una “sopravvivenza oltremondana”. D’altro canto non va dimenticato che l’idea dell’anima e della sopravvivenza dell’individuo, dipende sia dalla permanenza di questo ba, sia da quella del corpo: quest’ultimo, cioè, non è solamente un supporto temporaneo per l’individuo, ma qualcosa che deve garantire al ba dello stesso individuo di ritrovare una sua presenza fisica; per cui, la mummia, o la statua messa nella tomba, assolvono primariamente a questo scopo. Circa l’idea di sopravvivenza ultraterrena non dimentichiamo, inoltre, che già l’età più antica ci testimonia, dal punto di vista archeologico, delle pratiche di sepoltura: dunque vi era già un’idea di conservazione della memoria, legata ad un elemento incorporeo che può essere definito, in maniera molto generica, “anima”; però, quando gli egiziani cominciano a scrivere, dimostrano chiaramente che l’idea di sopravvivenza è diversificata: il re ha un certo tipo di sopravvivenza, gli uomini ne hanno un’altra; il re sopravvive in cielo, gli uomini sulla terra. Le fonti presentano già questi elementi caratteristici: per esempio il ba, con le caratteristiche che saranno poi proprie della tradizione successiva. Quindi quando si parla di fonti del III millennio, prendiamo in considerazione dei dati che descrivono modi di sopravvivenza che distinguono una spoglia fisica sulla terra, un ba che si muove tra cielo e terra, e anche altri elementi che sono in grado di sopravvivere; ecco che allora in realtà la morte, come è stata definita da Assmann, diventa un momento di disgregazione: i vari elementi dell’individuo si scindono tra di loro, e lo scopo della pratica funeraria diventa quello di mantenere una rete di rapporti tra singoli elementi in modo che l’individuo possa continuare a vivere. La sopravvivenza del ba in quanto tale, quindi, è solo funzionale alla sopravvivenza generale dell’individuo e funziona nel momento in cui questa componente continua a vivere insieme con il corpo, lo spirito e l’ombra.

Spesso i filosofi e gli storici greci visitavano i sacerdoti egizi alla ricerca di sapienza filosofica ed esoterica. Nello stesso periodo, i grandi filosofi come Parmenide, Aristotele e Platone svilupparono il tema dell’anima iniziando la tradizione della filosofia morale, che avrebbe percorso poi tutto il Medioevo influenzando tutta la filosofia posteriore. È credibile l’idea di una derivazione egizia di questo pensiero? L’Egitto fu la culla di questa branca della filosofia occidentale?

Il discorso legato all’ “anima”, intesa come elemento legato alla filosofia morale e all’idea di una corrispondenza tra modelli dell’aldilà e dell’aldiquà in una visione di tipo escatologico, può avere dei collegamenti con l’Egitto.
Ritengo che sia  difficile parlare dell’Egitto come della terra dove per primo si è sviluppato un certo tipo di pensiero occidentale; non dimentichiamo che per lungo tempo la tradizione e gli studi della cultura occidentale hanno bellamente ignorato il Vicino Oriente e l’Egitto; adesso si inizia a cercare dei collegamenti, ma bisogna fare attenzione: se prima c’era quasi un “non-discorso”, ora occorre evitare di trovare per forza un collegamento. Quello che può valere, nella prospettiva di un’idea dell’anima come parte dell’individuo che continua a sopravvivere, è l’attenzione prestata all’Aldilà: l’Egitto si segnala, nel quadro del Vicino Oriente, come la terra dove si è per prima sviluppata un’idea articolata e complessa di un oltre-mondo, nel quale l’individuo continua ad agire e a essere presente. Prestiamo però attenzione al fatto che questo oltre-mondo è legato ad una serie di fattori diversi: c’è una componente rituale ma anche una etica: l’individuo rientra, così, in questo meccanismo “vita terrena – vita post-mortem” solamente se soddisfa alcuni precisi requisiti.
È evidente che, da un lato, sembrerebbe esserci quasi una contraddizione: se l’individuo rispetta tutta una serie di rituali può avere diritto all’Aldilà; ma nel caso in cui avesse tenuto in vita un comportamento non eticamente corretto? In realtà, i due aspetti vanno combinati: il rituale funziona nel momento in cui quell’individuo è espressione di un principio eticamente corretto. Ecco che allora l’idea della sopravvivenza non può essere classificata tout court come uno “strumentario” che viene messo “nelle mani” del defunto per poter accedere all’Aldilà, ma è un qualche cosa di molto più complesso.
Quello che sicuramente può essere interessante notare, nei meccanismi stessi di questo pensiero egizio, è l’idea di uno spazio “ultraterreno”: quando noi cominciamo a vedere, nel Medioevo ad esempio, un’immagine dell’Aldilà come spazio fisico – come quello concepito da Dante, per fare un nome –, dobbiamo pensare che il modello di riferimento è una concezione dell’Aldilà come qualcosa di conoscibile, di esperibile,  una realtà fisica che l’uomo può conoscere. È proprio questo un tema già presente nella cultura egizia: non dimentichiamoci che in Egitto le prime carte geografiche non rappresentano il mondo dei viventi, ma l’Aldilà, e già questo è un fattore abbastanza importante in sé; si può, inoltre, segnalare il fatto che diversi elementi, anche di tradizione iconografica, sono collegati anche attraverso una tradizione che passa dal tardo paganesimo all’epoca cristiana, o comunque sia della bassa antichità: basti pensare alla funzione di tessuto connettivo che assolvono, per esempio, i testi apocrifi dell’Antico, e soprattutto del Nuovo Testamento. Tramite questo passaggio, alcuni elementi sembrano arrivare nella cultura occidentale medievale: l’idea del castigo legato a certe rappresentazioni, trova in Egitto dei modelli perfettamente coerenti, come la distruzione dei dannati col fuoco, e sopratutto le pene infernali, associate proprio a questa “fisicità” dell’Aldilà. La dannazione diventa così espressione di un mancato accesso a questo Aldilà, nel quale la cultura egizia legge il segno di somiglianza con altre immagini, che possono essere attribuite anche ai traditori. È questo, ad esempio, il senso dell’essere appesi a testa in giù, segno di una concezione che in Egitto rappresenta il caos che accompagna la dannazione. Non ultima è l’idea stessa del giudizio: quando noi vediamo gli angeli con la bilancia – pensiamo al Giudizio Universale di Torcello – il modello è quello della Psicostasia del capitolo 125 del Libro dei Morti; si tratta di un modello iconografico che si sviluppa nel Medioevo passando attraverso una serie di elaborazioni della “pesatura dell’anima” che sfociano nella cultura occidentale. Non possiamo credere che vi sia una derivazione diretta, però forse si può pensare che immagini, rappresentazioni o idee siano state ritenute più valide per esprimere alcuni concetti di natura religiosa, e quindi recuperate dalla cultura cristiana d’Egitto.

Il pensiero egizio sull’anima la poneva come composta di 5 parti; che senso aveva questa suddivisione di un unico concetto?

Più che l’ “anima” composta da cinque parti, è l’individuo ad essere composto da diverse parti. Non dimentichiamo che l’idea di “individuo” in Egitto passa sempre attraverso una componente che è quella fisica, quella che noi chiameremmo genericamente “corpo”, e quello che è invece una componente più astratta, l’anima, oppure anche attraverso delle realtà molto personalizzate, come il nome, prive di una loro fisicità. Tuttavia l’importanza dell’associazione del nome con l’immagine è fondamentale per capire tutta una serie di meccanismi culturali che determinano la funzione attiva del nome rispetto a chi lo porta; cancellare il nome di una statua è un’immagine di damnatio memoriae che conosciamo anche presso altre culture; però sicuramente in Egitto è un modo per negare anche l’esistenza di un individuo, come se lo privassimo di una parte essenziale della sua presenza fisica, della sua personalità.
In questo meccanismo composito si inserisce l’anima, o meglio il ba, che contribuisce a determinare la vitalità dell’individuo,  ricomponendosi con il corpo, per arrivare fino ad una concezione che si delinea nel corso del Nuovo Regno, quindi dalla metà del II millennio a.C., e che vede anche l’universo stesso funzionare, nella sua forma ordinata, grazie ad un’unione di due principi diversi: un corpo, che è quello di Osiride, che giace nell’oltretomba, e un sole, che è il ba dello stesso dio. Attraverso l’unione di questi due principi nel corso della notte si determinano i meccanismi di rinnovamento: rinnovamento del sole, ma anche rigenerazione del corpo di Osiride e della funzione del tempo. Si crea così un complesso meccanismo che coinvolge quell’insieme di elementi dinamici che determinano la vita dell’universo – ricordiamo che nella prospettiva egiziana l’ “ordine”, cioè la Maat, non è data da un’equilibro immobile, ma piuttosto da uno in costante movimento. Tutti questi elementi funzionano all’interno di un quadro unitario; nel momento in cui gli elementi non funzionano più c’è l’arresto, l’inerzia che è il segno concreto del caos; quindi, ciò che non si muove è il caos, secondo la prospettiva egiziana, ed è quindi al di fuori di questi meccanismi ordinati. Lo stesso individuo quindi diventa un “segno” di questo ordine; l’anima, intesa come ba, contribuisce  a definire questa positività, questa dinamica, che è segno di vitalità: è qualcosa di unito all’elemento fisico, il corpo, nel momento in cui l’individuo è in vita, ma che poi se ne separa, nel momento della morte, per tornare a unirsi con questo, nel momento in cui sia necessario ricomporre questa unità.

Il pensiero religioso-esoterico egizio sembra essere complicatissimo, sfaccettato e difficilmente accessibile. Anche all’epoca di questa civiltà, i segreti e i misteri del culto erano gelosamente custoditi dalla casta sacerdotale, a sua volta gerarchizzata al suo interno. La comprensione di eventuali tracce culturali è spesso difficile a causa del complesso simbolismo religioso delle tracce scappate alla rovina del tempo. Date queste premesse, l’Egittologia ritiene di aver decifrato completamente il pensiero dell’anima? Se no, ritiene possibile il futuro completamento di questo settore della conoscenza storica? È solo una questione di tempo, o mancano i reperti per una scansione totalmente soddisfacente di questa cultura?

La questione del pensiero egiziano e della sua accessibilità dipende dalla natura stessa di quello che noi chiamiamo “pensiero religioso”. Partiamo da una premessa: in egiziano non c’è nessun termine che noi possiamo tradurre come “religione”, né alcun termine che possiamo tradurre come “scienza”,  “società”, o altro. Piuttosto si parla di “conoscenza”; conoscere qualche cosa significa poter “intervenire” su quella data realtà; quindi, il sacerdote è un qualcuno che “sa” le cose, un sapiente; e qui ci stiamo già addentrando in un aspetto specifico della cultura egizia: il pensiero egiziano è esoterico perché è legato al tempio, che è per sua natura un luogo chiuso. Noi dobbiamo dimenticare l’idea di un tempio accessibile, in cui si presta un culto; molto spesso applichiamo l’idea di “esoterico” ed “essoterico” secondo uno schema che è dettato da forme cultuali di tipo assembleare, svolto in una chiesa, o una moschea o ancora in una sinagoga. Il tempio egiziano non ha lo scopo di ospitare un culto assembleare: è piuttosto la casa del dio. Nel tempio si entra solo per svolgere un servizio nei confronti della divinità, e l’unico ammesso al servizio è il re. È ovvio che il servizio venga poi svolto da sacerdoti delegati della funzione regale nei diversi santuari egiziani: il sacerdozio non ha quindi in origine una funzione sacralizzante della persona, come dimostrano i sacerdoti dell’Antico Regno, funzionari che periodicamente, tra le varie mansioni, hanno quella di garantire il culto. Ma il sacerdote continua ad essere un tecnico che sostituisce  l’unico vero sacerdote, cioè il re. Questo spiega anche perché, in alcuni casi, i sacerdoti, soprattutto nelle fonti  tarde, vengono chiamati “re”: si tratta probabilmente della necessità di vedere nel sovrano l’unico attore legittimato a compiere questi atti.
Questa natura del sacerdozio deriva dalla natura inaccessibile del tempio; gli uomini possono entrare al massimo nelle aree più periferiche del tempio, nella parte quindi più esterna del sistema di ambienti architettonici destinati alla residenza del dio. La parte più interna è invece preclusa, come ci conferma la stessa struttura del tempio: la cella dove è la statua del dio è l’ambiente più piccolo, e ha il solo scopo di ospitare quella presenza fisica. Si tratta di una presenza fisica che possiamo collegare all’idea stessa del corpo: secondo delle concezioni che troviamo ben documentate nel corso del I millennio, la divinità si manifesta in tre forme diverse: nel ba, che è in cielo; in un corpo, che è sottoterra e che può essere identificato con Osiride, e in un’effigie, presente sulla terra: l’effigie può essere o il re, o la statua di culto. Quindi è una delle manifestazioni divine che possiamo trovare nella dottrina egiziana.
Si può così capire perché sia difficile parlare di un’idea di anima paragonabile a quella che troviamo nelle fonti occidentali. L’anima come tale la possiamo riconoscere, secondo questa tripartizione dell’essenza divina, nella forma del Sole, inteso secondo delle concezioni del Nuovo Regno. Ma questa è solo una delle possibilità in questa prospettiva, come segno di qualche cosa che si muove autonomamente indipendentemente dal destino della sua spoglia fisica, che si trova invece in una realtà ed in una regione diversa.
Quanto questo discorso possa essere definibile nel corso del tempo, è difficile a dirsi, prima di tutto per una questione di documentazione, che si viene via via arricchendo, grazie non solo agli scavi, ma soprattutto all’accessibilità di fonti inedite, conservate in raccolte museali. Spesso molti progetti che sono stati promossi, e che vengono tuttora portati avanti, non hanno la funzione di andare a scoprire qualcosa di sepolto sotto la sabbia, ma piuttosto quella di scoprire qualcosa che già abbiamo sotto mano, ma che non è stato ancora studiato. Perché questa è la realtà dei fatti: abbiamo molte raccolte museali spesso parzialmente edite.
La realtà egiziana è molto complessa e articolata, come può esserlo qualsiasi realtà sociale di una civiltà antica, nella quale è presente un pensiero paragonabile a quello che noi chiamiamo religioso; non dimentichiamo però che molto di ciò che noi consideriamo essere un patrimonio di concezioni religiose, in realtà è il frutto di una costruzione (anche culturale) della realtà, così come veniva interpretata in Egitto. Molte rappresentazioni che è possibile trovare nelle tombe, ad esempio, che classifichiamo come letteratura funeraria, sono piuttosto rappresentazioni del reale, secondo un criterio che potremmo definire scientifico: se il re, dopo la morte, andrà a risiedere col Dio Sole che attraverserà lo spazio oltremondano nel corso della notte, andrà a risiedere in una parte di mondo rappresentabile secondo determinati schemi: uno schema  iconografico e testuale, ma anche architettonico, costituito dalla tomba come riproduzione dello spazio oltremondano. Ed è ovvio che in questo senso si comprende come un concetto paragonabile alla nostra “anima” si trovi ad essere in realtà presente in tutte le varie sfaccettature della documentazione; posso avere  testi che descrivono il destino dell’individuo anche nella sua essenza incorporea, come può essere il ba, ma anche una rappresentazione fisica di quello che sarà lo spazio dove il corpo attende di unirsi col suo ba, come dimostrano le tombe regali del Nuovo Regno.
E quando si analizzano sempre più dettagliatamente le fonti egiziane, ci si accorge che il quadro che emerge è estremamente complesso, ma nello stesso tempo coerente, perché cerca di risistemare tradizioni diverse, concezioni diverse, fiorite in varie fasi della storia egiziana, in un unico quadro organico. E questo è un trend caratteristico della cultura egizia: tutto viene quasi risistemato all’interno di un insieme che tende ad essere più sfaccettato e completo possibile.
Si pensi all’idea della figura umana, rappresentata secondo un criterio che a noi sembrerebbe essere quasi impossibile da adattare alla realtà: la testa ed il ventre visti di profilo, l’occhio e le spalle frontali; in realtà questo tipo di rappresentazione risponde alla necessità di assommare tutti i diversi elementi in un solo quadro unitario.

Nella sua esperienza di lavoro nel campo dell’egittologia, ha avuto spesso a che fare col tema dell’anima?

Io mi occupo prevalentemente di fonti religiose e funerarie, quindi mi è capitato più volte di misurarmi con un materiale che parla, più che di anima, di individuo e delle sue parti. Anche durante i corsi universitari può essere facile leggere con gli studenti testi che offrono spunti di riflessione circa i modi di manifestazione del divino in terra, come ad esempio la piena del Nilo. La stessa realtà fisica che caratterizza l’Egitto, diventa un segno di queste forme di sopravvivenza oltremondana. Se noi volessimo applicare l’idea di questa sopravvivenza all’anima dovremmo dire che effettivamente Osiride sopravvive alla sua morte, e la sua sopravvivenza è legata al fatto che c’è un fenomeno fisico come la piena diventa segno della sua vitalità e della sua individualità. Vorrei però far notare anche che, a fronte di tutta questa ortodossia del pensiero tradizionale, ci sono anche espressioni di quello che possiamo considerare un vero e proprio scetticismo nei confronti della sopravvivenza ultraterrena; abbiamo testi dove viene messa chiaramente in dubbio l’idea stessa di sopravvivenza dopo la morte. È un filone che si sviluppa come una vera tradizione letteraria, con composizioni che venivano in genere cantate da arpisti, rappresentati nelle scene di banchetto mentre cantano o recitano, accompagnati da musica, composizioni in cui si invitavano i partecipanti al banchetto a festeggiare e a godere del momento di letizia, perché del domani non si sa; “del doman non v’è certezza” dice qualcuno, un po’ più vicino a noi. Abbiamo anche un testo letterario molto singolare, il Dialogo del Disperato con il suo ba, conosciuto da un unico manoscritto, e improntato a un forte scetticismo, e costruito come un dialogo tra un uomo, che vede nella morte l’unica soluzione per angustie, pene e sofferenze, e il suo ba, l’interlocutore che nega con forza la sua posizione, perché l’unica certezza sarebbe quella del poter godere della vita terrena. Il testo è tanto più importante e singolare se pensiamo che queste affermazioni vengono fatte proprio dal ba, la sua anima, che non ha alcuna fiducia nell’idea di una sopravvivenza. Si tratta  di un testo particolare anche dal punto di vista formale perché è un dialogo, modello compositivo non frequente nella letteratura che si fonda piuttosto sull’esperienza del singolo.

Può essere importante oggi avvalersi degli studi sulla civiltà egizia: vi può essere un nesso e contributo importante legato alle questioni più contemporanee?

È difficile trovare una risposta sensata a una domanda del genere, nel senso che “quali sono le questioni più contemporanee? E quali sono le questioni importanti per una civiltà lontana come quella egizia?”. In alcuni casi possiamo vedere una forte affinità di pensiero, che si lega magari a dati molto concreti, tra una certa prospettiva egizia del mondo e il nostro modo di vedere; in genere si dice che l’Egitto del Nuovo Regno è quello  più moderno, cioè quello più vicino ad alcune forme del nostro sentire, anche quotidiano: ci sono esigenze concrete, materiali, che possono essere lontane dal modello ufficiale, come l’umorismo.
Credo sia difficile dare una risposta a una domanda del genere; non dimentichiamo che molto spesso l’atteggiamento mantenuto dalla cultura occidentale nei confronti di questo mondo egizio, come in genere del Vicino Oriente, è quello di una realtà nella quale, ad esempio, non si parla di “religio”, ma piuttosto di “magia”; intendo dire che c’è stata un’accezione quasi negativa nell’approccio a queste esperienze culturali esotiche, estranee all’Occidente. Ora, bisognerebbe evitare di passare all’opposto, ossia farle diventare un qualcosa di funzionale alla nostra interpretazione del mondo, alle nostre istanze più concrete; alcuni aspetti possono essere corrispondenti, ci può essere un’attinenza, ci può essere un legame: ma non bisogna superare un certo confine: non dimentichiamo che la civiltà egizia in quanto tale non è legata direttamente alla nostra esperienza di civiltà, alla nostra esperienza di cultura (qualsiasi cosa i termini “cultura” e “civiltà” possano intendere); se c’è stato un legame, questo è arrivato a noi per via indiretta. Non dimentichiamo che la cultura egizia a un certo punto scompare, e non c’è una continuità di tradizione paragonabile a quella della cultura classica, di cui il Medioevo è impregnato; ma c’è in ogni caso un collegamento. Ciò che può essere arrivato fino a noi, del mondo orientale come del mondo egizio, è quello che è passato attraverso un filtro, già esterno, che è quello, per esempio, degli autori classici, del testo biblico, o del Cristianesimo, che comunque si sono misurati con questa civiltà, dandone valutazioni diverse. Non dobbiamo adottare dei clichés nei confronti della presunta omogeneità di questo confronto tra civiltà, né possiamo pensare che il Cristianesimo automaticamente si scagli contro la civiltà faraonica, perché se è vero che molti dei danneggiamenti dei monumenti antichi sono stati fatti dopo l’affermazione del Cristianesimo, è anche vero che un autore come Clemente Alessandrino ha un atteggiamento di tutto rispetto verso la civiltà egizia. Ci sono state sicuramente delle ambivalenze nella valutazione; la stessa cosa fanno le fonti classiche: si va da un Erodoto che insiste sempre sull’aver avuto una fonte egizia autentica per le notizie che fornisce, a fonti latine che guardano al mondo egizio come ad un mondo di folli che adorano animali. È ovvio che c’è stata una molteplicità di approcci; ed è però singolare notare che sia proprio la “molteplicità degli approcci” a caratterizzare la cultura egizia stessa, secondo una definizione data da uno storico olandese, Henry Frankfort, che parla di questo sistema complesso di percezione del reale come di una caratteristica della cultura egizia e in genere di quelle vicino-orientali: un sistema in cui un singolo dato reale viene interpretato e misurato dell’esperienza dell’individuo attraverso diverse angolazioni.

Cosa pensa della filosofia?

Penso che la filosofia, intesa come amore per la conoscenza, sia un atteggiamento che muove qualsiasi persona: la filosofia non è poi altro che la curiosità; se non si è curiosi non ci si misura col mondo, al di là del fatto che si possa essere curiosi della civiltà egizia o di qualsiasi altra cosa: la curiosità è ciò che ti spinge a cercare spiegazioni, interpretazioni, valutazioni; e la curiosità deve essere sempre la molla che ci spinge a ripensare a quelle che sono le tue conclusioni precedenti. Forse la cosa che potrebbe essere più utile in una prospettiva filosofica è l’essere sempre pronti a mettere in discussione quelle che sono le certezze che ciascuno di noi ha maturato grazie alla curiosità pregressa. Non so se questa possa essere una definizione di filosofia, ma se non c’è curiosità probabilmente il discorso filosofico potrebbe essere più povero.
Da questa prospettiva, alcune culture antiche erano molto più filosofiche di quanto non sembrino. In genere la filosofia viene intesa come approccio astratto nei confronti dell’esistenza; quando leggiamo un testo filosofico, lo immaginiamo come qualche cosa che non ha un “vestito”; se si legge invece uno testo storico, come anche un testo letterario, si riesce ad ambientare la situazione in un determinato periodo; sembrerebbe quasi che la filosofia voglia staccarsi dalla realtà del mondo. Se leggo Antigone, immagino la realtà di una città che può essere la Tebe greca – che sia quella effettiva o meno poco importa, importa piuttosto che corrisponda a un modello di ambiente. Se invece penso al “discorso delle metà”, o al mondo delle idee di Platone, mi appare un mondo molto più neutro, più asettico. Penso che in questa prospettiva la filosofia corra il rischio di diventare un fenomeno parziale, perché la filosofia non può essere solo quello. Pensare solo in modo astratto porterebbe forse a una situazione prossima a quella di certe classi sacerdotali egiziane degli ultimi secoli, che discutevano a lungo su quale forma dei segni fosse più adatta per esprimere il concetto del dio, in una realtà in cui gli antichi modelli sono ormai destinati a estinguersi. Il rischio è di perdere di vista quello che è poi il discorso generale che alla filosofia appartiene, perché la filosofia è interpretazione del mondo, non solamente legata a temi dell’Essere.
Non dimentichiamo inoltre che quelli che vengono definiti in genere, anche con un atteggiamento un po’ sprezzante, “i presocratici”, sono quelli che più facilmente parlano un linguaggio vicino-orientale. Si pensi al discorso dello pneuma, o dell’acqua,  elementi che in qualche modo si ricollegano a forme di pensiero dell’Oriente preclassico, che cercano di definire un principio astratto, avvalendosi però di una realtà molto concreta, fisica. Il discorso legato, per esempio alla vitalità connessa con l’acqua si riferisce comunque alla ricerca di un elemento comune che possa valere indipendentemente dal caso specifico. Questa è la molla che fa scattare un ragionamento che porta poi alla filosofia, analizzando però il reale, partendo da un dato reale.
Se si pensa poi a Cartesio ed il suo “cogito ergo sum”, “esisto perché penso”: ma io penso perché sono curioso. Se non sono curioso, non ha molto senso pensare. Ritengo che certe cose vadano sperimentate nella loro concretezza, mi sembra difficile pensare che i filosofi siano stati necessariamente così astratti; arrivare all’astrazione significa comunque partire da un dato concreto. È difficile pensare che padri del pensiero filosofico quali Platone o Aristotele abbiano elaborato modelli che siano privi di rapporti con la loro storicità. È inoltre significativo che il pensiero filosofico occidentale antico giunga a piena maturazione nello stesso momento in cui Alessandro Magno proclama di aver avuto tre padri, uno umano, uno egiziano, e uno divino: due modi sicuramente diversi di elaborazione, ma frutto di uno stesso momento. Però sono probabilmente le facce di una stessa medaglia, di un mondo molto più complesso, molto più interessante, di quanto poi possiamo ricostruirlo volendo fare solo gli storici, o solo i filosofi o gli antichisti.

 

Concludendo, che dire? Tirate le somme di ciò che sappiamo – o piuttosto che “possiamo sapere” – di quei tempi lontani e misteriosi, dobbiamo dare una risposta ambivalente alla questione della derivazione prima di quella ancestrale idea dell’anima; se i primi fondamenti filosofici, artistici e civici della nostra odierna società derivano senza ombra di dubbio dalla società greca, non è dato sapere se precisamente il concetto di “anima” era stato a sua volta ereditato dagli egizi; un contatto c’era stato, ma non possiamo risalire a dati più specifici. Sembra comunque assurdo rifiutare del tutto l’idea di una seppur minima diffusione di una parte della cultura egizia, comunque sia imperniata sull’idea della vita oltremondana, mediata attraverso i già citati canali della cultura classica e medievale. D’altronde ogni traccia della storia reca quasi necessariamente dei segni in ciò che le sussegue, in un mondo dove le culture popolari umane si contaminano vicendevolmente fin dalla loro nascita, valicando i limiti geografici e i confini temporali.

Ringraziamo il professore Ciampini per questo interessante viaggio alla scoperta dell’antico Egitto.

Alessio Maguolo

Rafail Georgiev e la curiosità nell’ate

Rafail Georgiev è un giovane scultore bulgaro. Ha iniziato molto presto a essere un «piccolo homo faber», come si è definito lui stesso. A solo 4-5 anni suo padre, artista, gli dava dei pezzi di argilla e Rafail passava ore e ore a modellarla, alcuni di questi lavori suo padre ancora li conserva nel suo studio… Quest’anno questo piccolo genio dell’Arte ha esposto alla Biennale de Sologne in Francia, oltre a partecipare a vari festival e mostre internazionali in Italia, Germania, Bolgaria, Israele.

12027655_951391111570336_1273239598699282706_n

La passione per la manualità artistica l’ha portato, da ragazzo, a frequentare prima l’Accademia di Sofia, dove ha studiato per cinque anni, e poi all’Accademia delle Arti di Roma per altri tre anni. Durante la sua specializzazione a Roma Rafail ha iniziato a lavorare con la pietra, materiale che ora preferisce insieme al legno, al ferro e al bronzo. Materiali che molto lo accomunano con l’Arte Povera italiana, con la quale condivide anche l’uso degli archetipi, argomento che approfondirò più avanti.

Nato da una famiglia di artisti, Rafail Georgiev è una persona curiosa ed è proprio questa curiosità alla base della sua Arte: il suo desiderio è quello di scoprire ed esprimere i fenomeni attraverso essa. Quando lavora si lascia ispirare dalla vita stessa cercando di capire la contemporaneità attraverso gli archetipi dell’umanità, ad esempio l’origine degli esseri umani, i fenomeni religiosi, il mistero della creazione. Le sue sono opere molto interessanti, concettuali, a grandezza monumentale e composte da forme architettoniche che l’artista ha iniziato a sviluppare in questi ultimi anni. Rafail stesso afferma che «l’architettura archetipica è una delle cose a cui mi ispiro per questi lavori concettuali».

12240286_10206527062188996_683264515858882264_o

Il giovane artista non segue la moda dell’arte contemporanea ma spiega che le sue opere sono modellate, scavate dalla pietra e in un certo senso hanno la tradizione all’interno di sé; prima della realizzazione, però, hanno una spinta verso il concettuale perché Rafail parte sempre da un’idea o da un mito che lo porta al compimento dell’oggetto attraverso un processo scultoreo. Secondo lui, e io concordo, non esistono delle regole su come fare arte e la curiosità dell’artista e importante quanto il talento.

I suoi sono lavori decisamente da vedere, non da raccontare.

«Sinceramente credo di essere ancora all’inizio del mio percorso artistico e sono molto curioso per il futuro dell’Arte e certamente per il futuro nel mio piccolo».

Ilaria Berto

[Immagini concesse da Rafail Georgiev, informazioni e citazioni ottenute dall’artista stesso]