Arte e fenomenologia delle emozioni: la prospettiva di Andrea Bruciati

In occasione della doppia mostra trevigiana Lost in Arcadia, allestita al Museo Bailo e da TRA – Treviso Ricerca Arte, intervistiamo Andrea Bruciati, curatore, storico dell’arte e nuovo direttore di Villa Adriana e Villa D’Este a Tivoli. Riferimento della scena artistica italiana, Bruciati ci racconta la sua idea di arte come fondamentale strumento di lettura della realtà e macchina di pensiero, ed invita il pubblico a sviluppare un dialogo più soggettivo ed intimo con le opere.

 

Nella sua professione di storico dell’arte e di curatore deve essere capace di trovare i giusti riferimenti nel passato, ma anche di rielaborare e presentare questi stessi stimoli in un’ottica attuale. Come si può dunque costruire il dialogo tra storia e contemporaneità?

L’artista è sempre un pioniere, deve essere in grado di sperimentare e fare ricerca, spingendosi aldilà delle conoscenze prestabilite, mettendosi in discussione e cambiando i canoni del nostro immaginario. Ma questo lavoro sono in grado di compierlo solo i grandi maestri che sanno da dove vengono e chi sono. La storia e la memoria sono i punti di partenza fondamentali perché solo con profonde radici si possono costruire grandi architetture di pensiero. L’importante è che il passato non rimanga un riferimento passivo ma che si faccia vivo ed edificante. L’artista infatti deve compiere una rielaborazione personale della storia, per rispondere ad inquietudini del presente e cercare risposte per il futuro.

Spesso i giovani artisti scelgono la strada del facile consenso, ovvero percorrono istanze già sperimentate per inserirsi nella moda del momento. In questo caso possiamo parlare di contemporaneità derivativa perché manca la parte di ricerca e rielaborazione personale. E non è il tipo di lavoro che personalmente mi interessa.

L’hanno spesso definita difensore e promotore di un fare dell’arte tutto italiano, ma in un mondo globalizzato come quello attuale, può esistere una realtà italiana in grado di confrontarsi come corpus unitario con modelli esteri? D’altronde i grandi movimenti storici che si sono generati in Italia con risonanza internazionale, come l’arte povera o la transavanguardia, fanno ormai parte del passato.

Oggi l’artista ha un linguaggio trasversale e internazionale, poiché viviamo in un mondo dove ovunque possono arrivare le informazioni e nuovi stimoli. Però, riprendendo anche il precedente discorso sull’importanza dei riferimenti storici, dobbiamo sempre sapere chi siamo. Se un artista ha successo all’estero è perché trae in maniera vivificante dei semi, una koinè (lingua comune, n.d.e), dalla sua storia. Prendiamo ad esempio Maurizio Cattelan, Francesco Vezzoli, o Vanessa Beecroft. Sono tutti artisti italiani che hanno rielaborato delle specificità attraverso la nostra cultura: tramite l’ironia, nel caso di Cattelan, che si presenta come una specie di Pinocchio del Ventunesimo secolo, o parlando della donna attraverso la moda, come nel caso della Beecroft; o ancora, affrontando un discorso legato ad un vintage del nostro immaginario, ad un passato perduto, come con Vezzoli.

Poi da curatore posso anche fare un altro tipo di discorso. Ci troviamo in un sistema internazionale in cui tutti difendono i loro artisti, quindi è naturale per me cercare di portare avanti i nostri. In questo caso è puramente una questione di politiche culturali: certamente artisti anglosassoni e tedeschi in un panorama internazionale si trovano spesso più avvantaggiati. Poi, aldilà di tutto, credo che la qualità della ricerca sia sempre la cosa più importante, ed è un valore che non ha bandiera.

In una precedente intervista ha affermato che la cultura è il valore etico su cui una comunità sana si costruisce. In che modo si crea un dialogo con il pubblico senza scendere a troppi compromessi con scelte commerciali?

Secondo me la responsabilità è degli organi di formazione della collettività, a partire proprio dalle basi, quindi dalle scuole. Oggi il linguaggio visivo è la nuova forma di analfabetismo. Non riusciamo spesso a distinguere lo stimolo che ci proviene da una bella immagine pubblicitaria da quello di un’espressione artistica, perché non abbiamo dei parametri valutativi. L’educazione è quindi la risposta per conferire all’individuo gli strumenti per capire quando un’espressione è ricerca, che va aldilà di quello che noi vediamo, e quando invece è massificazione dell’immagine. Un’immagine che in questo caso ci deve piacere e sedurre per vendere. L’arte deve essere invece uno strumento che ci aiuti a interpretare la realtà che ci circonda e non estetica fine a se stessa.

Se l’arte deve essere in grado di dirci qualcosa, quali sono i valori che rendono un’opera costruttiva in una prospettiva sociale? Dal suo personale punto di vista, vale di più la partecipazione collettiva, forse oggi la scelta più diffusa o comunque con più risonanza mediatica, o la riflessione autonoma?

Credo che l’arte debba sempre rivolgersi alla fruizione in modo attivo, invitando il pubblico a riflettere. Ma nelle mie scelte come curatore prediligo un pensiero suggerito, a partire dal singolo artista, dalla sua soggettività e intimità. È una forma di comunicazione fortemente diversa da quella del manifesto d’avanguardia, per esempio, ma non per questo meno efficace, penso che il fruitore debba avere la libertà di interpretare ciò che vede. Quando organizzo una mostra mi piace considerarla una piattaforma di pensiero propedeutica alla cittadinanza, quindi funzionale alla riflessione, ma dove ognuno è libero di intraprendere il percorso di ricerca che preferisce e più consono al suo essere.

Che cosa consiglierebbe a quei pochi giovani coraggiosi che scommettono ancora sulle carriere umanistiche e che desiderano inserirsi nel settore dell’arte in qualità di storici, teorici o curatori?

Bisogna avere molto coraggio, tracciare delle nuove strade. È un po’ lo stesso discorso fatto con gli artisti: o ti adegui a quello che il sistema dominante ti impone, oppure sviluppi delle ipotesi di pensiero personali.  Direi di non aver paura di indagare diversi campi di studio e di avere una certa versatilità, il settore va preso da tanti punti di vista.

In una realtà come quella italiana in cui le istituzioni sono le prime che sembrano non credere nel valore e nel potenziale della cultura, c’è ancora spazio per questa sperimentazione di cui parla?

È vero che in Italia la situazione è difficile, il sistema del Paese non aiuta. Andarsene però è una sconfitta, per quanto mi riguarda ho una forma mentis un po’  “Don Chisciottesca”, e credo che anche tra le difficoltà basti un piccolo passo per offrire un po’ di linfa vitale. Noi, che lavoriamo in questo settore, in fondo trattiamo di elaborati culturali ed estetici, oltre che certo dati scientifici e storici, ma dobbiamo soprattutto imparare a muoverci con altri strumenti, forse più legati alla nostra soggettività. Da una parte penso sia sempre arricchente fare un’esperienza di studio o professione all’estero, dall’altra se l’arte contemporanea necessita di problematicità, forse questo è il Paese ideale dove l’arte può svilupparsi. I limiti possono rappresentare uno stimolo.

Oltre ad una ricerca estetica personale che è l’essenza stessa della sua professione, come si relaziona nel quotidiano il suo lavoro con un’indagine di tipo filosofico?

L’arte è conoscenza emotiva e inintelligibile, la mia è una ricerca rivolta alla fenomenologia delle emozioni. Non mi interessa la logica fine a se stessa, ma piuttosto se funzionale al miglioramento della condizione dell’uomo.

 

Claudia Carbonari

[Immagine tratta da Artribune.com]

 

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Attimi di fotografia di strada: intervista a Umberto Verdoliva

Spesso si dice che uno sguardo vale più di mille parole. Nonostante io gareggi nel team delle parole, finisco col convincermi della verità di questa massima mentre osservo in anteprima le fotografie in allestimento alla mostra che presto inaugurerà presso Ca’ dei Carraresi a Treviso, 100 attimi. Fotografia di strada. Certo, bisogna che questo sguardo sia sapiente, riflessivo, incessantemente indagatore – come quello di un bravo fotografo. Incontro allora Umberto Verdoliva, fotografo e curatore della mostra (visitabile dal 2 al 13 settembre 2016 nel capoluogo veneto), e cerco di scoprire da lui che cosa si celi dietro quello sguardo così prodigioso, ma anche qualche prospettiva su quello che gli sta davanti: l’umana realtà quotidiana.

100 attimi poster - La chiave di Sophia

1) La fotografia è nata nella prima metà dell’Ottocento quando si ricercava una più rapida e più fedele riproduzione della realtà, apparentemente possibile soltanto attraverso la scienza e la tecnica; solo in un secondo momento è diventata un’arte. Con la tecnologia di cui ciascuno dispone oggi, chiunque può scattare una foto, mentre naturalmente cala il numero di persone che può progettare e realizzare un’architettura oppure una composizione musicale. Che cosa dunque contraddistingue la fotografia “da album delle vacanze” da un oggetto d’arte?

La fotografia oggi è alla portata di tutti e ciò comporta una continua produzione d’immagini al punto tale che potremmo parlare di un vero e proprio spreco di fotografie. Il processo in atto è talmente ampio e complesso che è difficile per me immaginarne il futuro. La massificazione della fotografia ha trasformato quest’ultima in continui appunti visivi da utilizzare nei social, dei veri e propri “post it” che vengono in breve tempo accantonati e dimenticati negli hard disk e nelle diverse memorie di smartphone e pc; invece, se la fotografia è supportata da un’idea, da una visione personale, da un progetto, continua ad essere quella che era un tempo cioè uno strumento di documentazione, racconto, mezzo di espressione, testimonianza, memoria storica, occasione di aggregazione e socializzazione. In questo senso la fotocamera è uno strumento che potrebbe dar vita a dei veri e propri “oggetti d’arte”; di conseguenza ha molta importanza il pensiero di chi si approccia alla fotografia e il senso che vuole attribuire ad essa.

2) L’immagine del fotografo è spesso quella di una persona sola e attenta dietro al suo obiettivo mentre è a caccia… di cosa è a caccia? Perché si diventa fotografi e perché lei è diventato fotografo?

Ogni fotografo ha un suo percorso personale. Ho scoperto la fotografia per caso, in età matura e con una professione diversa già avviata e consolidata. E’ iniziato un percorso che mi ha portato a scoprire non solo la bellezza del quotidiano e a collezionare momenti che assumono un significato particolare, ma a partecipare alle vicende umane restandone inevitabilmente contaminato. E’ questa la bellezza della fotografia di strada: l’incontro con l’umanità; un incontro che non si riduce a un catturare un istante ma è un entrare in contatto con la dimensione esistenziale più profonda, quella nascosta nei piccoli gesti e/o nelle espressioni di un volto o di una situazione particolare.
Non mi sento un fotografo ma un uomo che utilizza la fotografia per mostrare agli altri oltre alla quotidianità anche se stesso; è un modo per comunicare la mia visione delle cose, del mondo e la mia sensibilità.

3) A parte in alcuni casi (quasi ovvi) o per specifiche “serie”,  le sue foto sono in bianco e nero: che cosa offre in più la mancanza dei colori?

La maggior parte delle mie foto sono in BN, ma non perché ci sia una chiusura verso il colore, anzi, ho serie nate e pensate a colori ed amo moltissimi fotografi che lo sanno utilizzare al meglio.
L’uso del BN deriva essenzialmente dal fatto che sono portato più a “celebrare” la vita e ad enfatizzare il lato emotivo della memoria e il BN mi sembra più adatto rispetto a quello della cruda realtà che attribuisco maggiormente al colore. Il BN, come del resto anche il colore, fanno parte entrambi della mia visione della realtà e li scelgo ogni qualvolta li reputo più adatti a rappresentarla; fotografare in BN o a colori non ha molta importanza, dipende cosa meglio si adatta a ciò che voglio mostrare.

Intervista Verdoliva colori - La chiave di Sophia

 

4) Il suo lavoro come fotografo si ascrive a quel genere denominato “street photography”, mentre quotidianamente veste i panni dell’architetto-urbanista. Quanto i suoi studi e il suo lavoro hanno influito sul suo sguardo da fotografo? E come può descrivere, a me neofita, la street photography?

Molti attribuiscono la pulizia compositiva e le geometrie spesso presenti nelle mie fotografie al fatto che abbia studiato materie come disegno tecnico o progettazione architettonica. Probabilmente ha influito, ma avere cura della composizione fotografica è stato assolutamente naturale. Compongo l’inquadratura velocemente e quasi sempre in maniera pulita e lineare.
Descrivere adeguatamente la street photography è molto difficile, ogni definizione ha i suoi limiti. I confini sono talmente labili da confondere spesso anche chi la pratica da anni. Una definizione di Luciano Marino descrive bene che cosa rappresenta  per me: «La street photography è la fotografia che fa dell’inquietudine il motore per la ricerca dell’umano e delle sue rappresentazioni. E’ quindi un intenso atto di scoperta, di avvicinamento, di contaminazione. Diventa il mezzo per partecipare alla vicenda umana, cogliendone la raffigurazione quotidiana, la sua messa in scena».
La parola “street photography” è solo un termine che identifica una certa attività, come esiste il fotografo di moda o il fotografo di matrimoni o il fotografo paesaggista e così via, essa identifica l’attività di un fotografo che sceglie di raccontare il quotidiano e le infinite interazioni tra genti in spazi di condivisione comune seguendo determinati approcci essenzialmente personali, pertanto molto variabili. Le diatribe infinite e le tante polemiche orientate a una ricerca di regole o definizioni le trovo inutili e destabilizzano la considerazione di chi ha scelto questa attività con consapevolezza.

5) Quando penso alla strada ed alla sua vitalità mi appare sempre alla mente una delle prime scene de Il favoloso mondo di Amelie, quando la protagonista aiuta il vecchio signore cieco ad attraversare la strada e gli racconta ciò che vede, gli descrive gli odori che sente, raffigura ciò che succede. La strada è un microcosmo di attività e di sensazioni di cui facciamo esperienza più o meno tutti i giorni, ma ad una tale velocità e con tanti pensieri nella testa che ci impediscono di vedere veramente qualcosa. Si può dire che la street photography aiuta noi, nuovi ciechi distratti, a notare tutto quello che ci perdiamo?

Nella domanda credo ci sia implicitamente anche la risposta. Infatti, è la dimostrazione di quante possibili descrizioni/definizioni può avere la street photography. Attraverso l’occhio di chi fotografa si possono vedere cose che non vedi o a cui non fai caso; camminando per le strade puoi sentire, spesso distrattamente, senza esserne consapevole, gli odori e le atmosfere di una città, ma la fotografia, se praticata consapevolmente, ti porta all’incontro con l’altro. Un incontro a volte sfuggevole, altre volte vissuto e condiviso, ma che quasi sempre lascia un segno: sia nell’osservatore, che può restare colpito, affascinato, sconcertato e sorpreso da come mostri il quotidiano e dalla tua idea, sia in chi fotografa. Più l’osservatore ne resta coinvolto e più hai raggiunto il tuo scopo e tutto questo diventa linfa continua per il tuo cercare.

6) Parliamo ancora un po’ di questo specialissimo set. Lei vive a Treviso, che oltretutto è molto vicina ad una città completamente sui generis come Venezia, ma ha avuto modo di visitare e vivere anche altre città italiane, nonché all’estero. Come cambia la vita della strada e la visione che si può avere di essa di Paese in Paese? Che cosa si cerca nelle strade di New York che è diverso (o magari che è uguale) rispetto a ciò che si ricerca a Treviso o a Praga? C’è poi un’altra città, che esiste e che non esiste, che lei definisce “Mental City”: cos’è e che cosa ha di così peculiare?

Mental city è un progetto fotografico che rappresenta una mia visione di Treviso. Ci vivevo da poco e la prima impressione è stata quella di una città elegante, discreta, che ti permette di isolarti e di perderti tra i portici e per le sue strade silenziose. Era una città che non conoscevo ancora e quella è una sintesi mentale dell’idea che avevo di essa e la realtà conosciuta nel tempo; ne sono rimasto molto colpito ed è stato naturale per me rappresentarla fotograficamente così.

Intervista Verdoliva Città mentale - La chiave di Sophia

Da “Mental city”

Un buon fotografo di strada è un attento osservatore e le sue ricerche e riflessioni spesso dipendono anche dal luogo in cui vive, pertanto quello che cerchi e trovi può variare da città a città e condiziona inevitabilmente la fotografia. Una foto scattata a New York è molto diversa da una foto scattata a Firenze, e non solo per il differente impianto urbanistico, ma soprattutto perché entrambe esprimono una propria essenza totalmente diversa e caratterizzante. Una delle sfide di chi fotografa è riuscire a cogliere questa essenza e saper raccontare attraverso le immagini uno dei tanti volti di una città.
Così descrivere una città come Napoli, partendo dalla stessa idea che mi ha spinto a fotografare, ad esempio Treviso, porta ad un risultato diverso, perché l’anima della città è diversa; ma allo stesso tempo fotografare la stessa città da un’altra prospettiva e con un’idea differente, la stessa risulta originale e nuova. L’idea dell’autore e quello che vuole mostrare è sempre determinante. La fotografia di strada è versatile e se devo parlare di una regola importante, dico che, in spazi pubblici e d’interazione tra le persone, la spontaneità del momento e la non costruzione della scena sono degli elementi fondamentali per cogliere aspetti peculiari di un vivere quotidiano; anche lì però possono esserci delle deroghe, per me è importante il cammino che nel tempo fa l’autore con la sua fotografia al di là di regole e consuetudini.

7) Ogni giorno e ad ogni ora, decine, centinaia, migliaia di persone brulicano nelle strade, di tutti i tipi i colori e gli scopi; le sue fotografie ne hanno colto aspetti intensi, casuali, divertenti – basti pensare alla sua serie Sex and the City o Prisoner of the Privacy. Pensa di aver imparato qualcosa di più sul genere umano guardandolo attraverso il suo obiettivo?

Sicuramente sì. La cosa più importante è stata quella di vedere me stesso nelle persone che incontro: ho imparato a capire e prevedere le reazioni, a essere discreto e allo stesso tempo furtivo per cogliere espressioni oggettivamente difficili da prendere in posa; cerco di mostrare le persone come se fotografassi la mia famiglia, con amore e rispetto, pertanto non ho timore di loro. Inoltre, con la fotografia mi diverto tantissimo e il mio senso ironico emerge spesso. Chi guarda le mie immagini percepisce immediatamente la grande passione che mi anima e quanto mi diverto per strada: la passione è contagiosa e la trasferisco con piacere.

Intervista Verdoliva sexandthecity - La chiave di Sophia

Da “Sex and the city”

Intervista Verdoliva Privacy - La chiave di Sophia

Da “Prisoner of the privacy”

8) Non posso fare a meno di cogliere alcuni aspetti di irrealtà nelle sue foto: in alcune di esse infatti, attraverso sovraesposizioni, riflessi fortuiti e fortunate casualità, riesce in qualche modo a cristallizzare una realtà parallela, spesso ironica oppure onirica. Quale significato ha dunque per lei il concetto di “realtà”?

Quando per anni sei in strada a fotografare l’umanità, l’ambiente e le relazioni, sviluppi delle visioni sempre più complesse, vai oltre il semplice sguardo su ciò che c’è intorno a te. Approfondisci, entri nella realtà a tal punto che puoi riuscire anche a stravolgerla. La fotografia dà questa possibilità e personalmente questo mi attira particolarmente; la complessità degli sguardi, la reinterpretazione della realtà attraverso punti di vista o prospettive inusuali, far soffermare l’osservatore rendendolo instabile nelle sue certezze, mostrare cose non intuibili a prima vista ma che sono davanti ai nostri occhi è il mio principale obiettivo. La realtà la puoi immortalare e la puoi ricreare, non è per me una dimensione stabile e univoca.

9) Il 2 settembre presso Ca’ dei Carraresi a Treviso verrà inaugurata la mostra 100 attimi. Fotografia di strada, di cui lei è il curatore e che resterà allestita fino al 13 settembre. Essa raccoglie cento fotografie, da qui al titolo il passo pare breve. Che cosa rende questi attimi così speciali? Perché questa mostra?

Se sono attimi effettivamente speciali lo lascerei dire ai visitatori, la mia speranza è attirare interesse, incuriosire e avvicinare il pubblico al tipo di fotografia, dare una risposta esclusivamente con le immagini a chi cerca di capire cosa è la street photography. Sono cento istantanee che rappresentano, per me, il buon livello raggiunto oggi dalla fotografia di strada italiana. È un confronto e una presa di coscienza anche rispetto alla street photography internazionale che fino ad oggi ha dettato i tempi, le mode e le tendenze. Ho scelto le fotografie attingendo dai lavori di autori che fanno parte di collettivi fotografici tra i più stimolanti in Italia, focalizzando l’attenzione verso questa forma di aggregazione inusuale per il genere, anche se non nuovo nella storia della fotografia: dal gruppo Mignon, collettivo storico padovano, a Spontanea, InQuadra e EyeGoBananas, collettivi giovani e con autori interessanti che si mettono in gioco continuamente per migliorarsi, formatisi in questi ultimi anni sull’interesse di massa verso il genere. Insieme a loro esporranno sei autori veneti di cui apprezzo il talento e la passione per questo tipo di fotografia.
Una mostra che ha il compito di presentare, a chi non conosce ancora la street photography, quanti possibili approcci e visioni possono esserci nel praticarla, quanto sia difficile e non banale cogliere attimi significativi, di quanto lavoro in termini di tempo e di confronto ci sia alle spalle ma soprattutto del legame sempre presente con la Fotografia e i grandi maestri di un tempo. Il mio intento è che essa riveli non solo qualità – molte delle foto presentate sono state selezionate e riconosciute valide in numerose manifestazioni internazionali importanti – ma, lontano da termini e definizioni, i tanti possibili volti della fotografia di strada. Un piccolo tributo a quanti la praticano con passione e una occasione per stabilire un punto d’incontro fisico e non virtuale tra noi.
Vorrei inoltre lasciare un consiglio a chi vuole avvicinarsi alla street photography o la pratica da poco, di farlo con grande umiltà evitando quei processi autoreferenziali che mistificano qualsiasi riconoscimento che credo debba arrivare da più parti nel tempo e in maniera assolutamente naturale. Viceversa, non si aiuta la fotografia di strada ad essere presa seriamente in considerazione.

10) Per noi la filosofia descrive il mondo in cui viviamo ogni giorno. Che cos’è invece per lei la filosofia?

Se la filosofia descrive il mondo in cui viviamo ogni giorno, allora ci sono tanti punti in comune con la fotografia, che attraverso gli occhi di qualcuno continuamente indaga sul senso dell’essere e dell’esistenza umana. La realtà e la verità sono due parole chiave della filosofia, così come anche della fotografia, poiché entrambe le ricercano incessantemente.

 

Osservazione della realtà e ricerca della verità (o di una verità) sono dunque due punti di contatto tra fotografia e filosofia, entrambe sono degli strumenti che ci aiutano a trovare delle risposte – la prima tramite l’estetica e l’immagine, la seconda attraverso la sfera razionale e la parola. Entrambe indagano l’uomo e ne fanno anche la storia. Sono personalmente molto affascinata da queste fotografie, forse proprio perché me ne vado per il mondo il più delle volte distratta dalla mia interiorità e dalle mie domande, senza accorgermi dei dettagli visivi in cui si trovano alcune risposte. Per esempio, che la vita va presa anche con una buona dose d’ironia, o semplicemente con più leggerezza. Penso ai versi immortali di Shakespeare, “Il mondo è un palcoscenico, / e tutti gli uomini e le donne sono soltanto attori”; in queste foto però non ci sono quasi mai attori. E’ un po’ come il Gengè Moscarda di Pirandello che vuole vedersi vivere, perché appena si vede riflesso non riconosce più se stesso, si scopre inevitabilmente a recitare. In un certo senso in queste fotografie vediamo noi stessi, come siamo quando pensiamo che nessuno ci stia guardando o giudicando – forse allora solo la fotografia, l’occhio di qualcun altro, è capace di mostrarci come siamo. Nonché di mostrare nero (o colori) su bianco le nostre invariabili incomprensibilità e le nostre innate contraddizioni, il nostro voler stare insieme pur richiudendoci a volte in noi stessi, dentro e fuori, definiti o evanescenti. Delle realtà multiformi che si cristallizzano nel momento dello scatto, e che così diventano memoria di noi per i posteri, ma anche per noi stessi. «La cosa più importante è stata quella di vedere me stesso nelle persone che incontro», ha detto Umberto; ciò che trovo incredibilmente sorprendente è proprio che anche io, io del tutto ignorante in materia di fotografia, osservando queste immagini, all’improvviso mi scopro a capire qualcosa di più di me stessa.

Giorgia Favero

Per approfondire il lavoro di Umberto Verdoliva: sito ufficiale, flickr, Facebook.

Qui tutte le informazioni relative alla mostra.

Tutte le immagini sono di proprietà di Umberto Verdoliva.

Intervista ad Alberto Corradi: l’arte come atto catartico

Classe 1971, autore di fumetti, illustratore, visual artist e curatore: Alberto Corradi ci accompagna nella scoperta del suo percorso artistico esplorando quelle che sono le maglie complesse e intricate dell’illustrazione e del mondo dell’arte.

A partire dal 1993 le storie e le immagini di Alberto Corradi sono apparse in Italia e all’estero in riviste, antologie, graphic novel, mostre e progetti collettivi. Popolare per il suo stile unico, estremamente pop, ricco di personaggi e creature coloratissime, abbraccia lettori di tutte le età, collaborando con numerose e prestigiose testate come La Repubblica XL, dove ha realizzato dal 2006 i temibili personaggi di Mostro&Morto, e altre come Linus, Smemoranda e GBaby.

Ha esposto in diverse città italiane da Bolzano a Napoli spostandosi poi all’estero a Stoccolma, Parigi, Los Angeles, Seul e Belgrado sia in personali sia all’interno di collettive.

Negli ultimi anni ha collaborato con alcune band italiane tra cui Marco Notari, Facciascura e Yellow Moor, il nuovo progetto di Silvia Alfei & Andrea Viti (Afterhours, Karma, Juan Mordecai). I suoi graphic design coprono l’houseware con piatti (Stikka) e tazze (Les Éditions Mugs-design), l’interior design con wallpapers, carte da parati e orologi da parete (Stikka). Dal 2014 collabora con la società francese Extraverso alla realizzazione di una serie di cover / case per smartphone di nuova concezione

Alberto Corradi fa parte del supergruppo QU4TTRO, fondato nel 2013 insieme a David “Diavù” Vecchiato, Massimo Giacon e Ale Giorgini. Dal 2011 è il direttore artistico delle mostre internazionali del TCBF Treviso Comic Book Festival (Svezia -2011-, Nuova Zelanda -2012-, Danimarca -2013-, Portogallo -2014-).

Pinocchio

Ha realizzato inoltre il romanzo autobiografico Smilodonte, edito da Black Velvet Editrice e l’antologia senza parole Regno di Silenzio; attualmente sta lavorando su un graphic novel ambientato nel Seicento giapponese e sulla serie a fumetti per bambini “Il mostro nella tazzina” per il GBaby, mensile prescolare delle Edizioni San Paolo.

In che modo l’illustrazione è entrata a far parte della tua vita? Come si è sviluppata la tua tecnica nel tempo?

Nasco come autore di fumetti e solitamente ho due modi di costruire una storia: partendo da una visione/immagine che visualizzo nella mia mente, o da un testo che ho scritto in precedenza. Una illustrazione viene concepita più o meno nello stesso modo, mi ancoro a un sentimento profondo e cerco di portarlo a galla, qualcosa di indesiderato e sepolto, un sentimento che mantenga un leggero senso di disagio, che mi spinga all’urgenza di arrivare a una fine. All’illustrazione non ci pensavo all’inizio della mia carriera, ci sono arrivato tardi per la natura stessa del mio lavoro. Lavoro sull’immateriale il più delle volte, non uso / usavo figure o esseri umani per cui illustrare qualcosa connesso a un testo mi appariva un concetto piuttosto distante. Però è un qualcosa che mi è stato richiesto da subito da editori e committenti che di certo vedevano in me potenzialità maggiori di quelle che io stesso volevo immaginare. Per arrivare a delle illustrazioni che mi appagassero appieno sono dovuto tornare a dipingere: reimplodendo sulla materia surreale delle mie creature e delle mie simbologie ho trovato accesso a una nuova sorgente di motivazioni per creare delle illustrazioni, commerciali o puramente artistiche che fossero. La mia tecnica ancora adesso è per il 90% lavoro manuale, matite, pennelli e qualche rapido, poi implementato con photoshop o illustrator. Il mio mondo è sempre stato bidimensionale per cui un “eccesso di zelo” causato dai supporti digitali disponibili oggigiorno forse romperebbe un equilibrio così a lungo ricercato anche se, lo confesso, sono tentato da oggetti lucenti come le Cintiq.

Come definiresti il tuo stile? Hai avuto qualche maestro di riferimento o qualcuno a cui ispirarti?

Il mio stile è estremamente pop specie sul fronte illustrazione / graphic design, ma più di ogni altra cosa è Alberto Corradi.

Di certo hanno avuto un grande influsso su di me Massimo Mattioli (Pinky, e ancora di più Joe Galaxy) e Luciano Bottaro (Redipicche, Il Paese dell’Alfabeto e non ultime le sue saghe dedicate a Paperino), ma più per alcune tematiche e certo sentimento insito nell’opera di entrambi. Mi sono sempre sentito molto vicino a Mirò per il suo senso della composizione. Il mio stile deriva da una riflessione stilistica operata sul segno che già contraddistingueva i lavori dei primi anni della mia formazione, portata costantemente in avanti nel corso del tempo. Non ho mai copiato da nessuno, solo a 12 anni ho riprodotto una decina di disegni di John Hart da Wizard of Id e BC e un paio di alieni di Mattioli, su carta millimetrata, per poi pentirmene e distruggere tutto o quasi.

Come nasce e si sviluppa un tuo disegno?

Prima creo una bozzaccia per dare forma alla “visione” a cui accennavo in precedenza, comprensibile solo a me in pratica, per capire dove collocare ogni elemento, poi realizzo delle matite piuttosto dettagliate e ripasso il tutto. La composizione deve essere il più equilibrata possibile, è una cosa per cui mi danno ogni santa volta, ogni elemento deve essere motivato e trovarsi in quel punto per una valida ragione, anche se lascio al caso sempre un 10% della realizzazione. Quando sono libero da committenti o lavoro al progetto di qualche amico/collega mi capita di andare direttamente di pennello, agendo a mano libera sul foglio bianco. Passo molto tempo a soffrire sul concetto, mentre l’azione sul foglio è immediata, una blitzkrieg che si esaurisce in qualche ora e tutto deve essere chiuso prima di andare a dormire.Drago Apocalisse

Quale definizione attribuiresti all’ARTE? Che cos’è per te arte?

Riuscire a focalizzare le emozioni e il dolore in un atto catartico e fantastico in grado di elevare la persona a un altro livello della percezione.

Molti teorici dell’arte ritengono che non tutto ciò che è frutto di creatività può considerarsi un’ Opera d’arte. Athur Coleman Danto filosofo analitico e artista afferma che ciò che determina la differenza tra un semplice oggetto e un’opera d’arte è quel mondo dell’arte fatto di istituzioni, teorie e regole. Concordi con questa considerazione nel definire che cos’è un’opera d’arte?

Venendo dal fumetto e operando nel neo-pop / pop surrealism, strettamente apparentato proprio con i comics (tanto quando la Lowbrow), ragiono sempre sulla necessaria dose di astrazione che separa due media correlati ma per certi versi così distanti come fumetto e pittura / illustrazione. Ma questo vale per me: non ritengo esista una regola, sono convinto che l’unica regola che definisca l’Arte sia l’artista stesso nel momento in cui la pratica, un atto magico, un atto su cui baso gran parte della mia ricerca, tutto il mio lavoro cela simbologie e tematiche ricorrenti. Uno dei livelli di lettura del mio romanzo (autobio)grafico Smilodonte (Black Velvet Editrice, 2007) tratta proprio l’importanza delle valenza magica di immagini e parole negli anni della mia formazione. Ma il problema è la veridicità dell’atto magico, dell’applicazione dell’Arte all’opera.

Maurizio Ferraris afferma che “avere rappresentazioni è la condizione dell’agire e del pensare, che sono le caratteristiche generalmente attribuite ai soggetti. […] così pure il desiderio o il timore, l’amore o l’odio, e insomma tutta la gamma dei sentimenti hanno bisogno di immagini. “sei d’accordo con questa affermazione? Qual’è per te il ruolo dell’immagine oggi?

L’immagine deve colpire, inquietare, emozionare ed estraniare lo spettatore dal contesto del reale che lo circonda proprio per poterlo ricondurre al reale e al contesto a cui l’immagine è collegata se si tratta di una illustrazione, o perderlo definitivamente se si tratta di un’opera pura e semplice (guardate un’opera di Charlie Immer, poi provate a tornare indietro). Dare immagini ai sentimenti è solo il primo passo, ma ormai la pittura e l’illustrazione assolvono un nuovo compito che bypassa il committente, un confine sempre più labile dove lo stile cela ragioni più profonde, e assistiamo alla necessità da parte del creativo di definire nuovi sentimenti con nuove immagini. Edward Gorey, David Lynch, Mark Ryden, Gary Baseman sono riusciti da tempo a portare nuovi semi dalle zone di confine dell’immaginario, non voglio fare elenchi, ma ritengo che l’illustrazione stia andando in questa direzione da tempo, cito Shout tra gli italiani, ma non riesco a togliermi dalla testa che un quadro di Ale Giorgini in scala di grigio potrebbe stare tranquillamente appeso nella camera d’albergo dell’agente Cooper nell’annunciata nuova stagione di Twin Peaks.

Aristotele diceva che “l’anima non pensa mai senza immagini, e che pensare è come disegnare una figura”, cioè registrare e iscrivere, non si tratta solo del pensare per immagini, bensì di adoperare consapevolmente immagini e schemi per facilitare il pensiero. A tuo parere perché è così efficace la comunicazione visiva? Le immagini/illustrazioni possono essere informazioni visive tanto quanto un testo scritto o un documento?

Concordo con Aristotele. La comunicazione visiva è efficace non solo perché quello dei segni è un linguaggio universale, per cui soggetto a codifiche, ma perché prima di essere codifica nasce come opera d’arte, quindi parte da quella capacità di instillare emozioni che è caratteristica principale dell’Arte. Penso ai geroglifici egizi o all’alfabeto alle sue origini: la nostra lettera A non è altro che una testa di bue capovolta, l’Aleph degli antichi fenici, un bue che prima di essere trasformato in convenzione molto probabilmente era un’opera d’arte primitiva, evoluta in segno nel corso del tempo. L’immagine e insiemi di immagini sono sempre stati impiegati nel corso dei secoli per raccontare e informare le persone capaci e incapaci di leggere, gli affreschi su palazzi e interni alle chiese (che illustravano parti dell’Antico e del Nuovo Testamento) ad esempio o la pittura d’infamia in epoca comunale, dove il condannato (anche se ancora vivente e spesso esule) veniva ritratto nell’ora del suo supplizio appeso per lo più per un piede, con artisti del livello di Andrea del Castagno o Andrea del Sarto a realizzare l’opera. L’illustrazione / opera d’arte assolveva quindi funzione di servizio pubblico. Certo, si tratta di diverse frequenze su cui viaggiano le informazioni, per cui non possiamo attestarci su un categorico “tanto quanto”, ma una illustrazione può informare e andare oltre, descrivendo e ispirando sentimenti ed emozioni, come un testo.QUESTA E' L'ORA

L’illustrazione veniva definita come “l’immagine che accompagna un testo”. L’illustrazione oggi è qualcosa di molto di più, ha superato il suo significato originale. L’illustratore non è più soltanto un “figurinaio” ovvero un artista che descrive un testo con un’immagine, ma è un autore egli stesso: costruisce immagini. Che cosa puoi dire degli illustratori d’oggi? L’illustrazione ha forse nuove finalità?

Ancora adesso viene richiesto a molti professionisti di accompagnare il testo, ma appunto, chi si limita a questo oggi più che mai sta al di qua del confine dell’immaginario di cui ho fatto menzione in precedenza. L’illustratore oggi vive in un contesto nuovo, l’uomo è imploso, collassato su se stesso, la società stessa è implosa, gli illustratori del passato erano testimoni dell’“esplosione” della società, del boom economico, del divenire della vita nella società industrializzata. Adesso sono testimoni della sopravvivenza di questa società, la carne è messa a nudo, le cartilagini esposte. Bisogna vedere e saper prendere la mira: per citare il dizionario anglosassone “to see” è sia vedere che sapere, al contempo. Prima l’illustrazione commentava, ora è testimone.

A tuo parere l’illustrazione con l’avvento della tecnologia, del computer e delle immagini digitali è cambiata?

Tutto si evolve, anche se a volte le cose più cambiano più restano le stesse: abbiamo programmi che “mimano” tutte le tecniche di colorazione, dai pastelli agli acrilici o che permettono il 3D modeling, ma la cosa che più mi impressiona è il pensiero di quanto fossimo lenti negli anni Ottanta senza computer (per non parlare del margine di errore su misure e scale cromatiche) e di quanto mi pare di essere lento ancora adesso seppur munito di tecnologia. E nonostante tutto ci siamo paurosamente velocizzati! Il pensiero è sempre più veloce della mano. Sì ci sono stati logicamente dei cambiamenti, anche se alla fine il “limite” resterà sempre l’estensione umana della macchina, cioè noi, quello splendido “limite” che definisce la biodiversità di ogni singolo artista.Eye Cherubium

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Sono all’opera su tre nuovi romanzi grafici e presto ripartirò a lavorare sulla mia nuova serie di quadri, Pink Darkness, inaugurata a inizio anno con la personale Pop Alone presso l’Hangar Tattoo

Studio & Art Gallery in Via dei Marsi, a San Lorenzo a Roma. Ho una nuova personale in programma, mentre sul fronte del graphic design stanno per arrivare un paio di novità, una è un progetto collettivo in compagnia di vari illustri colleghi, mentre nell’altro caso mi dedicherò al mondo degli skaters, un ambito che mi ha sempre affascinato.

Ultima domanda dedicata ai nostri lettori, che cosa pensi della Filosofia?

Della Filosofia? Panta Rei.Il Congresso dei Corvi

“L’osso è metafora suprema della verità, mentre il corpo è metafora della menzogna del vivere ogni giorno senza sapere perché”.

Così Alberto Corradi introduce il suo blog intitolato Ossario e delinea uno dei suoi topoi grafici che ricopre una parte fondamentale del suo percorso artistico da molti anni.

Quello che percepiamo chiaramente quando ci confrontiamo con una delle illustrazioni di Corradi è questa continua tensione tra il corpo, inteso come carne, che viene investito da molteplici ambiguità, differentemente dall’osso e della struttura scheletrica del corpo che invece ne annienta le ambiguità.

L’abilità di Corradi, a mio parere, si cela proprio nella sfida continua di voler comunicare un arcobaleno di emozioni e sentimenti tramite l’espressività statica e la nudità dello scheletro umano.

Se da un lato alcuni dei suoi lavori possono inquietarci, colpirci ed estraniarci dal reale, in un secondo momento questi ci riconducono alla nudità del reale, invitandoci a riflettere, e a cogliere la vita nelle sue più diverse sfumature.

L’arte come grande metafora della vita, così potremmo intendere il lavoro di Alberto Corradi, un’arte permeata di simbologia, intesa come un profondo atto catartico, non solo dalla parte dell’artista ma dallo stesso fruitore, il quale può, attraverso di essa, rileggersi, rileggere ciò che lo circonda e reinterpretare le esperienze del proprio vissuto.

Elena Casagrande

Blog: www.ossario.blogspot.it

FB: www.facebook.com/pages/Alberto-Corradi

[immagini concesse da Alberto Corradi ]