Autenticità e libertà. Artemide e il mito della caverna

Si sente molto parlare, oggi, di “autenticità”: un vero e proprio tormentone del mondo social, dove spesso l’autenticità diventa, nella pratica, raccontare i dettagli della nostra vita, anche quelli più intimi e privati, ai nostri followers.
Ma è davvero questo il significato e il valore dell’essere autentico?

Qualche tempo fa mi sono imbattuta in Artemide, uno dei saggi più interessanti, a mio avviso, della psichiatra, psicoterapeuta e analista junghiana Jean Bolen. All’interno della più ampia riflessione che la Bolen dispiega sulla divinità greca e sui tratti della donna che rispecchia l’archetipo di Artemide (una donna che incarna le qualità di indomita, tenace e riflessiva, intuitiva e passionale), nelle pagine finali del libro l’analista junghiana si sofferma sul concetto di autenticità e lo affianca a quello di libertà. Per la Bolen, infatti, non c’è autenticità senza libertà, e la libertà di cui parla è una libertà di essere, di scegliere e di seguire il cuore:

«Essere capaci di fare scelte basate sull’anima e sul cuore ci fa sentire una passione per la vita, dandoci l’opportunità e la libertà di vivere un’esistenza significativa a livello personale.
Ciò è possibile solo quando si è liberi di essere tu e io, e si ha la libertà e l’opportunità di scegliere un sentiero dell’anima» (J.S. Bolen, Artemide, 2015).

A quanto pare l’autenticità, collegata alla libertà di essere, è anche la strada per sentirsi appassionati della vita, per non cadere nel “torpore emotivo” di chi si lascia vivere, e la Bolen lo ribadisce anche in un altro punto del libro:

«Entusiasmo e vitalità sono segni del fatto che stiamo vivendo la vita che fa per noi e ci sentiamo realizzati. Quando non è così può esserci torpore emotivo, una tristezza diffusa, ansia e vari dolori fisici derivanti da tensione e stress» (ivi).

 Ma come si può fare a trovare la nostra autenticità, il nostro vero essere? Sempre la Bolen scrive:

«Diventare reali ha a che fare con l’anima, con il lavoro e le connessioni dell’anima, termini che uso in modo intercambiabile con lavoro e connessione del cuore.» (ivi).

Quindi una profonda connessione col cuore è la chiave, secondo la psicoterapeuta, per l’autenticità, per comprendere chi siamo davvero e vivere la vita con pienezza ed entusiasmo.

Della scoperta del nostro vero sé, del diventare reali, autentici, consapevoli, ne aveva parlato anche Platone, molto prima della Bolen, in uno dei suoi miti più affascinanti, quello della caverna, forse il più noto del filosofo greco, che apre il VII libro della Repubblica.
L’inizio del mito è già di grande impatto: Platone ci presenta delle persone che vivono fin dall’infanzia rinchiuse in una caverna, incatenate così strettamente da non poter neanche girare la testa. Una di loro però riesce a liberarsi, a uscire fuori e vedere, per la prima volta, la luce del sole.

Analizzando profondamente il mito, emerge chiaramente il suo collegamento con l’autenticità: esso è di fatto anche il simbolo di un processo educativo che consente all’essere umano di procedere verso la conquista della sua più autentica natura. Con il mito della caverna Platone racconta un percorso di evoluzione di se stessi che consente il saldo possesso della verità, che ci conduce all’impegno civile nel mondo, al dono di sé alla comunità, che dà il senso più nobile alla propria esistenza nel mondo. E che conduce anche alla libertà e all’autenticità di cui parla pure la Bolen, che diversamente da Platone – il quale vede nella filosofia la chiave di svolta per uscire dalla caverna – pone il cuore e l’anima come “strumenti” centrali di verità.

In tempi in cui “libertà” e “autenticità” sono sulla bocca di tutti, spesso anche a sproposito, forse sarebbe bene ricordarci di quanto essere autentici sia il senso profondo di tutta la nostra esistenza. Non è in fondo quello che cerchiamo tutti quando ci chiediamo: “chi sono io”?

 

Martina Notari

 

[Photo credit Brett Jordan via Unsplash]

la chiave di sophia

Pascal e il Kundalini Yoga: due filosofie a confronto

«Noi conosciamo la verità, non solamente con la ragione, ma anche con il cuore; è in quest’ultimo modo che noi conosciamo i primi principi ed è invano che il ragionamento, che non vi ha parte, cerca di impugnarli». 
Pascal, Pensieri, edizione Bompiani, anno 2000, pensiero 479

In questo famoso brano dei suoi Pensieri, Blaise Pascal (1623-1662) ridimensiona il ruolo della ragione come unica facoltà conoscitiva, aggiungendo un’altra facoltà, il cuore.
Come sarebbe un mondo in cui cuore e pensiero razionale lavorano in sinergia? In cui conoscere possa significare anche sentire, capire, comprendere col cuore e forse avere una prospettiva più ampia e completa della realtà che ci circonda?

Per Pascal l’uomo non è solo cervello e non conosce solo con esso: è ragione e cuore, pensa con entrambi. Cuore e intelligenza sono dunque in sinergia: la razionalità dimostra di essere un’ottima chiave per conoscere l’universo fisico, ma una chiave limitata per aprire il mondo ben più ricco e complesso della realtà intesa in senso più ampio, in primis della realtà intima dell’uomo. Quando parla di cuore, o meglio di intelligenza del cuore, Pascal si riferisce all’idea delle Sacre Scritture, nelle quali il cuore rappresenta il baricentro intellettuale e morale della persona e il luogo di incontro con DioNe deriva che il pensiero, che costituisce per Pascal il proprium dell’uomo, è un pensiero del cuore che sente, che intuisce, che ha una sua finezza– e della ragione insieme.

Ma Pascal non è il solo a parlare dell’importanza di conoscere col cuore e centrarsi sul cuore.

La riscoperta del “potere” del cuore è il fulcro del Kundalini Yoga, di cui maestro e fondatore è stato Yogi Bhajan, che dall’India ha portato le conoscenze e la filosofia del Kundalini in occidente nel 1969.

«L’amore è il flusso costante e consistente della vita. È il veicolo del Prana. È il Divino che si manifesta nella radiosità. È, è sempre stato e sempre sarà».
Yogi Bhajan, 6 gennaio 1986

Ho avuto la fortuna di avvicinarmi a questi insegnamenti e precetti durante il periodo di “permanenza” forzata a casa a causa del Covid. Il Kundalini Yoga non si limita a insegnare l’esercizio fisico, la meditazione e le tecniche di respirazione yoga in quanto tali, ma insegna alle persone come vivere, come relazionarsi tra loro, e come relazionarsi a Dio riscoprendo la centralità del cuore, senza tralasciare però l’importanza di una mente lucida e di un pensiero razionale chiaro.

Guru Rattana Kaur, allieva storica di Yogi Bhajan, spiega molto accuratamente le tecniche, ma soprattutto la filosofia racchiusa nel Kundalini Yoga. Nel manuale L’evoluzione a un mondo centrato sul cuore con il Kundalini Yoga e la meditazione (edizioni Macro 2016) scrive:

«Yogi Bhajan ha proposto un percorso spirituale in cui l’elevazione non implica di trascendere il corpo. Ci ha offerto una tecnologia spirituale adatta alla gente comune, che ha famiglia, che vive in ambienti urbani, si sposa, ha dei figli e si guadagna da vivere. In definitiva, ci ha insegnato a onorare la nostra umanità, a rendere sacra la sessualità, incoraggiandoci a essere prosperi».

Il centro energetico del cuore, insegna il Kundalini, ha un impatto che è 108 milioni di volte più efficace di quello della testa.

Due filosofie molto diverse, quella di Pascal e quella indiana del Kundalini, ci conducono alla stessa riflessione: l’uomo non è solo cervello, è anche e soprattutto cuore. Nel cuore trova il suo baricentro, la sua intimità, la sua scintilla divina. Che mondo sarebbe se riuscissimo davvero a farli “lavorare” in sinergia, senza prevaricazioni?

 

Martina Notari

 

[Photo credit Nicola Fioravanti su unsplash.com]

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Intrudere ed estrudere: l’inaccettabile opposizione di Jean-Luc Nancy

Nel 1992 il filosofo francese contemporaneo Jean-Luc Nancy ha subito un trapianto di cuore.

Ha raccontato questa estenuante esperienza nel libro L’intruso, edito da Cronopio e uscito nel 2000. Nancy basa la sua riflessione, breve ma densa, sulla coppia di sostantivi intrusione/estrusione, due termini che si oppongono ma che al contempo si richiamano cercandosi, abbinandosi, dandosi reciprocamente un senso. Non potrebbe esserci estrusione senza intrusione: quando, infatti, scegliamo di estrudere qualcosa – ossia di eliminarla, allontanarla – è perché essa viene percepita da noi come un intruso da scacciare, come un estraneo che ci crea problemi, ci invade o richiede troppo da noi; magari un impossibile che non possiamo o non vogliamo dare.

Il cuore di Nancy, quello con il quale è venuto al mondo, diventa l’organo da estrudere: appare come un intruso all’interno del suo stesso sistema corporeo, un intruso che non è più in grado di svolgere il suo compito e che mette a rischio la salute del filosofo. Si rende quindi necessario un trapianto: un altro cuore, un cuore che si attende come un libro fuori catalogo ordinato in libreria. Il cuore di un altro, capace di salvare la vita di Nancy, ma solo dopo un’intrusione violenta, fantascientifica, quasi impossibile da immaginare.

Scrive Nancy: «Dal momento in cui mi fu detto che era necessario un trapianto, tutti i segni parvero vacillare, tutti i riferimenti capovolgersi» (J.L. Nancy, L’intruso, 2000). Il suo cuore, che gli «saliva alla gola come un cibo indigerito», lo stava abbandonando. Per sopravvivere, avrebbe dovuto ospitare in sé qualcosa di estraneo.

Ma come si fa ad accogliere un intruso, che per sua stessa definizione giunge imperioso e si introduce in un ambiente familiare con aggressività e potenza, con scaltrezza e imprevedibilità? L’intruso arriva «senza permesso e senza essere invitato. Bisogna che vi sia un che di intruso nello straniero che, altrimenti, perderebbe la sua estraneità» (ivi). Bisogna accettare un’inaccettabile.

I medici devono estrudere per poi includere.

Di fronte a questa scomoda e temibile realtà, Nancy si sdoppia, così come doppio si fa il senso della sua stessa esistenza. La sua vita sarà la morte di un altro essere umano. Ciò che sente è «di essere caduto in mare pur restando ancora sul ponte» (ivi). Egli è in due luoghi contemporaneamente: in balia della morte che incombe, della quale il suo cuore malandato si fa messaggero; in balìa della vita che ancora lo trattiene a sé con la promessa di una speranza, di una soluzione. Nancy è al di qua e al di là, così come sarà e resterà se stesso con in petto l’organo di un altro.

Il filosofo capisce anche che se si vuole sopravvivere bisogna prima diventare estranei a se stessi. Prima dell’arrivo dell’intruso il suo sistema immunitario viene preventivamente preparato a essere neutro, ossia inutile, per facilitare la sua venuta. Esso viene quasi cancellato, per minimizzare il rischio di un rigetto. «L’intruso è in me e io divento estraneo a me stesso» (ivi), spiega Nancy. L’estraneità si moltiplica e i farmaci anti-rigetto gli causano un abbassamento delle difese immunitarie che sfocia in cancro. Questa nuova malattia lo costringe a ulteriori sofferenze che paiono infinite e che sbalzano ancora e ancora la bussola della sua identità.

Ma egli sopravvive. E lo fa perché l’uomo ha imparato a superare se stesso divenendo «colui che snatura e rifà la natura, colui che ricrea la creazione» (ivi).

Per sopravvivere dobbiamo continuamente estrudere qualcosa e includere qualcos’altro di nuovo. Lo facciamo con il nostro organismo – le unghie troppo lunghe o i capelli, che vanno tagliati ma che poi ricrescono. Lo facciamo con persone e situazioni che, come il vecchio cuore di Nancy, ci divengono indigeste. Il ciclo della vita esclude per accogliere, e accoglie sapendo a priori che quella venuta resterà, come dice Nancy, scomoda e dal sapore straniero fino a che seguiterà a venire, fino a che non sarà divenuta qualcosa di familiare – ma quella familiarità durerà sempre e soltanto per un tempo determinato, sfociando poi in una nuova estrusione che sa di auto-defezione.

«L’intruso non è nessun altro se non me stesso e l’uomo stesso. Non è nessun altro se non lo stesso che non smette di alterarsi […] intruso nel mondo come in se stesso» (ivi).

Un paradosso che va accettato, compreso, abbracciato.

 

Francesca Plesnizer 

[Photo credit Ali Hajiluyi via Unsplash]

la chiave di sophia 2022

Una parola per voi: scuola. Settembre 2019

Negli azzurri mattini
le file svelte e nere
dei collegiali. Chini
su libri poi. Bandiere
di nostalgia campestre
gli alberi alle finestre.
 
 
Sandro Penna, Scuola
 
 
Settembre, nella memoria collettiva, riporta alla mente la scuola. Non importa quanti anni abbiamo, se a scuola ci andiamo ancora o se invece manchiamo dai banchi da decenni. Quando agosto se ne va, anche se la temperatura è ancora calda e qualcuno seguita a frequentare le spiaggie finché è possibile, all’arrivo del primo settembre tutti pensiamo alla scuola. A quella sensazione di “nuovo inizio”, agli acquisti in cartoleria – quaderni con le pagine bianche tutti da scrivere, penne e matite colorate, il diario di scuola, da riempire non solo di compiti per casa ma soprattutto di dediche e pensieri. Sandro Penna ci fa viaggiare verso un’idea di scuola un po’ retrò: gli scolari con i grembiuli neri che rapidi entrano nell’edificio scolastico per poi stare chini sui libri, nostalgici, a rimirare dalla finestra gli alberi simbolo dell’estate che sa di campestre e che anche quest’anno è finita.
Quali sono i libri, i film, le canzoni e le opere d’arte che riflettono sull’idea di scuola? Dell’impatto (positivo o negativo) che essa ha o ha avuto su di noi, di come ci ha formati e di quanto, ancora, la porteremo sempre dentro, assieme a quella sensazione d’inizio settembre, fatta “di azzurri mattini” e di grembiuli neri?
La parola per voi di questo mese scelta da noi de La Chiave di Sophia è “scuola”.
 
 
UN LIBRO

cuore-la-chiave-di-sophiaCuore – Edmondo De Amicis

È nella Torino post-unitaria che si snodano le narrazioni racchiuse in Cuore. È l’ottobre del 1881 e la scuola ricomincia per la classe di Enrico Bottini: con essa riprendono i compiti, i litigi tra scolari e le successive riappacificazioni. Un microcosmo, che si sviluppa lungo un anno scolastico, intrecciato alle vicende macroscopiche della malattia, della lotta alla povertà, del processo di alfabetizzazione e, infine, della morte. Ecco che i racconti di Bottini si mescolano alle lettere della famiglia e alle storie mensili proposte alla classe dal maestro Perboni. Dalla piccola vedetta lombarda al tamburino sardo l’anno scolastico risplende di fanciulli la cui umanità e il cui patriottismo diventano il fil rouge dell’intera narrazione.

 

UN FILM

la-scuola-chiave-di-sophiaLa scuola – Daniele Lucchetti

La classe 4A, protagonista di questo film, affronta il momento più importante dell’anno, il giorno atteso fin dal primo giorno dell’anno scolastico: l’ultimo giorno di scuola! Giorno di ultime interrogazioni e scrutini, durante il quale professori e studenti arrancano tra asperità presenti e ricordi di un anno scolastico ormai terminato. Lo sguardo è rivolto al futuro, tutto da guadagnare, con la speranza che possa essere il più incoraggiante e affrontabile possibile. Perché la fine della scuola è il preambolo di un nuovo inizio, di un nuovo ciclo e una nuova vita: è l’occasione di spezzare in qualche modo il circolo vizioso. Non importa come, basta avere un’altra occasione. Chi si ferma è perduto!

 

UNA CANZONE

olympia-chiave-sophiaOlympia – Hole

Appartenente all’album Live through this (1994) e nota anche con il titolo di Rock Star ‒ essendo la copertina dell’album già stampata quando si scelse di scartare l’ultimo motivo per via del testo, con allusione al Nirvana all’indomani della morte di Kurt Cobain ‒ Olympia è una canzone di contestazione («What do you do with a revolution?»), un invito alla ribellione e all’anticonformismo («Come on make me real»), un grido contro le istituzioni – in particolare la scuola – omologanti («When I went to school in Olympia everyones the same…we look the same, we talk the same»). E come non ricordarla nella colonna sonora di Io ballo da sola (1996) di Bernardo Bertolucci?

 

UN’OPERA D’ARTE

la-scuola-del-villaggio chiave sophiaLa scuola del villaggio – Giuseppe Costantini

Una vecchia cucina improvvisatasi aula, con una lavagna e un planetario a segnarne il nuovo status; scugnizzi con vestiti consumati, sporchi e strappati, scalzi o con scarpe consunte, impegnati chi a leggere, chi a scrivere su un tavolo troppo alto, chi a risolvere un’operazione alla lavagna, chi ad ascoltare il maestro, chi ancora a tentare inutilmente di attirare l’attenzione, punito col cappello da asino. È La scuola del villaggio di Giuseppe Costantini, un’opera verista che l’autore nolano tratteggia con affettuosa partecipazione. Insegnante anch’esso, Costantini nobilita la scena di povertà e miseria, ma di grande forza vitale, accostandola a iconografie religiose, col maestro-Cristo, i bambini-apostoli, l’asino-Giuda, in un cenacolo familiare tenerissimo e coinvolgente. Uno spaccato di storia napoletana e italiana, una dichiarazione d’amore personalissima a quel microcosmo che è la scuola.

 

Francesca Plesnizer, Sonia Cominassi, Matteo Astolfi, Rossella Farnese, Giacomo Mininni

 

[Photo credits unsplash.com]

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Amore e morte: don Claude Frollo in Notre-Dame de Paris

L’amore può uccidere: è questo il giudizio che si va formulando percorrendo le pagine di Notre-Dame de Paris (1831) di Victor Hugo, questo il giudizio come impresso a lettere di fuoco nella mente non appena si è voltata l’ultima pagina. L’amore può ottenebrare l’intelletto e avvelenare il cuore, infrangendo quell’equilibrio armonico nella sua disarmonia, di razionalità ed emotività che ogni persona è, conducendo quest’ultima, come una candela, ad una lenta consunzione: proprio ciò che accade al personaggio di Claude Frollo, del quale in questo articolo si ripercorrerà l’amara vicissitudine, il ruolo di vittima e carnefice che Hugo gli assegna nella storia che racconta.

Claude Frollo è, innanzitutto, un religioso, un diacono – più precisamente un arcidiacono. Le cui mansioni, tuttavia, egli non svolge a Josas (oggi Jouy-en-Josas, un piccolo comune dell’Ilê-de-France), perché risiede nella cattedrale di Notre-Dame, nella quale, però, l’arcidiacono si dedica anche e senza sosta ad un particolare compito, nel suo piccolo studio: la ricerca intellettuale. Lo scrittore francese lo descrive per l’appunto come una mente avida di conoscenze, la quale ha divorato tutte le nozioni che il sapere del tempo – il romanzo è ambientato nel 1482 – poteva offrirgli, pervenendo infine alle discipline occulte, all’alchimia. Proprio ai misteri alchemici egli si dedica nel suo studiolo, dotato com’è quest’ultimo di fornelletto, di ampolle e di alambicchi per tutti i suoi esperimenti con le sostanze chimiche. E proprio dalle sommità di Notre-Dame, infine, egli scorge una zingara danzare al ritmo di un cembalo, nei pressi di un grande falò allestito nella piazza antistante la cattedrale, uno spettacolo che, sebbene gli fosse familiare in quanto spesso ripetuto, un giorno apparentemente come ogni altro sparge le sementi dell’amore in lui.

In un climax ascendente, nel quale la ragione del religioso, e appunto quella stessa ragione disciplinata da lunghi anni di intensi studi, manifesta progressivamente la sua incapacità a circoscrivere l’esplosione emotiva in lui, un’esplosione emotiva dalla quale si dipartono schegge di amore e sensualità, ma anche di odio, di frustrazione e di molto, moltissimo, tormento, in un climax ascendente appunto l’arcidiacono tenta dapprima di far pedinare e rapire dal proprio figlio adottivo e campanaro di Notre-Dame Quasimodo la zingara, Esmeralda; poi di incastrarla come colpevole di stregoneria e di tentato omicidio in un processo farsa – l’arcidiacono, per ottenere questo scopo, giunge, sotto mentite spoglie, perfino a macchiare le sue mani di sangue, pugnalando alle spalle l’uomo d’armi Phœbus de Châteaupers, amato dalla zingara e quindi ritenuto suo rivale in amore dal religioso; infine, dopo una rocambolesca fuga, dopo averle confessato un’ultima, disperata, volta il suo amore miserevole, di consegnarla nelle mani degli emissari del re di Francia Luigi XI perché la issino sulla forca.

Ma qual è l’epilogo della vicenda di Frollo? In merito, l’adattamento cinematografico targato Disney segue Hugo: l’arcidiacono muore cadendo dalle sommità della cattedrale di Notre-Dame.

L’amore può uccidere, quindi. L’amore può arrivare ad intossicare perfino una mente acuta come quella di Frollo, la cui vastità di conoscenze è oggetto di ammirazione da parte degli altri uomini di scienza che appaiono nel romanzo. E può inquinarla al punto da condurre l’arcidiacono alla scelta deliberata non solo di reificare colei che afferma di amare – reificata perché solamente desiderata per la sua corporeità – ma di servirsi di ogni mezzo, anche non moralmente giustificabile, per il proprio scopo, ossia, appunto, possedere Esmeralda. Così come l’amore può giungere, d’altro canto, a corrompere il cuore, che nel religioso diventa il ricettacolo delle più oscure passioni: acre invidia, grande tormento, nero odio. Ecco, in altre parole, in che modo l’amore uccide Frollo: infrangendo quella disarmonica armonia che ogni essere umano, di carta o di carne che sia, è, rendendolo altro da se stesso al punto da provare il desiderio di vedere impiccata la zingara che rifiuta il suo amore, al punto di scegliere di consegnarla in mano ai suoi carnefici. In breve, l’amore uccide Frollo distruggendo la sua identità ed umanità.

Ma l’amore autentico non ferisce, lenisce; l’amore autentico non condanna, redime.

 

Riccardo Coppola

 

[Credits: @bethanybeck via Unsplash.com]

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Comunque andare

<p>grungy heart beat</p>

Ero vicino a te. Sì, proprio vicino a te, seduta su quella poltroncina azzurra con  lo schienale e i braccioli consumati dal tempo. Stanza 23. Armadietto 04. Proprio come il giorno della mia nascita.
Sapevo che non ti saresti dimenticato quei numeri.
Il 23 aprile di molti anni prima mi tenevi tra le tue braccia, e il tuo cuore batteva con il mio. Ce l’hai scritta nella tua agendina di pelle nera quella data; quell’agendina che tieni custodita nel cassetto del comodino al lato sinistro del letto e che ripesco, per caso, 25 anni dopo.

Ero vicino a te. Reparto di cardiochirurgia dell’ospedale Ca’ Foncello di Treviso.
Ormai lo conoscevo a memoria, sai? Malgrado il mio pessimo senso dell’orientamento, sapevo bene che percorso fare per raggiungerti. Quello più corto, dall’ingresso laterale. No, nonno, non lo facevo di corsa. Cioè, sì. Talvolta mi è capitato di correre per arrivare prima da te. Correvo, sfiorando chiunque mi capitasse di fianco. Correvo, anche se sapevo che da lì non ti saresti mosso. Ad ogni passo percorso, ero più vicina al tuo cuore.
Lo prometto nonno, non lo rifarò più.

Ero vicino a te. Ma tu non mi sentivi. Mi avvicinavo con delicatezza al tuo corpo così fragile. Sentivo il debole battito del tuo cuore. Gli occhi chiusi e stanchi. Ma eri sempre tu. Tu che mi leggevi Pinocchio. Tu che ti facevi pettinare i capelli. Tu che giocavi a carte e facevi finta di niente quando volevo vincere a tutti i costi. Tu che mi portavi con il motorino fino a scuola. Tu che ascoltavi il mio cuoricino battere e ripetevi sottovoce quel “tu-tu”.

Ora sono io a chinarmi per ascoltare quella musica. Ed ho paura. Paura che possa fermarsi, inghiottendo tutti i ricordi e le parole, le carezze e la tua presenza.

Tu-tu. Tu-tu. Il mio cuore con il tuo. Sempre.

Non è facile capire per quali ragioni l’organo cardiaco sia stato associato, nel corso della storia, al profondo universo delle emozioni.
Luogo della memoria e dei ricordi, il cuore è comunemente considerato all’origine dei nostri sentimenti e organo-fondatore della nostra identità.
È necessario tuttavia specificare che questo ruolo centrale fu assegnato al cuore battente solo dopo alcuni secoli. Lungi dall’essere considerato il vivo della vita biologica, psichica, e pulsionale, Sumeri, Assiri e Babilonesi fondarono lo studio del corpo umano su un sistema di tipo ematocentrico.
Inoltre, durante lo stesso fiorire delle civiltà mesopotamiche, in Grecia, Alcmeone di Crotone realizzò i suoi studi di medicina appoggiandosi sul modello egemonico dell’encefalocentrismo, in seno al quale, grazie alle ricerche pratiche condotte dal filosofo e medico greco, il cervello incominciò a rappresentare la sede della congiunzione delle diverse forme di sensazione.
Solo all’interno del Corpus hippocraticum, e più precisamente nel suo Perì Kardies, Ippocrate fornirà le prime osservazioni scientifiche circa la composizione dell’organo cardiaco, attribuendogli un valore centrale in quanto “fuoco innato” che permette al sangue di realizzare, attraverso il calore, il suo circolo.
Gli stessi studi ippocratici furono successivamente rivisitati da Galeno il quale, affermando che la centralità della vita consisteva nel pneuma, cioè nell’aria, o meglio nello spirito, fece del cuore l’organo per eccellenza in quanto sede al contempo della vita fisico-biologica e di quella psichica.

Situato al centro della cavità toracica, fra i due polmoni, dietro lo sterno e appoggiato sul diaframma che lo divide dalle viscere sottostanti, il cuore non è unicamente l’ammasso di cellule del miocardio, necessarie, d’altro canto, per la sua stessa contrazione.

Ciò ci viene suggerito dalla sua stessa origine etimologica. Infatti, il termine “cuore” deriva da un lato, dal latino cor-cordis, richiamante la radice indoeuropea kor avente, nel caso specifico, il significato di “vibrare”, “battere”, e dall’altro, dal greco cardia che proverrebbe dall’antico accadico karsu con il significato di “organo interno”, “viscere come sede delle passioni”, “animo”, “intelligenza”.
L’origine della parola ci permette perciò di riflettere sul significato culturale e psicologico del cuore.

Batticuore. A malincuore. Strappacuore.
Par coeur. By heart.

Sono precise le circostanze nel corso delle quali utilizziamo spontaneamente queste parole.
Ben lontano dall’essere considerato unicamente un organo-pompa per l’attivazione dell’organismo-macchina, il cuore richiama, per così dire naturalmente, il mondo delle emozioni. È forse questa solo una costruzione socio-culturale impastata di luoghi comuni oppure l’organo cardiaco può rivelarsi effettivamente custode della nostra identità emotiva?
Il filosofo Jean Luc Nancy, dopo aver ricevuto un “cuore nuovo” disse:

«Dall’avventura si esce perduti. Non ci si riconosce più: ma “riconoscere” non ha più senso. Si diventa, rapidamente, solo un ondeggiamento, una sospensione di estraneità fra stati non ben identificati, fra dolori, impotenze, cedimenti. Riferirsi a se stessi è diventato un problema, una difficoltà, un’opacità”.  Un cuore “altro”. Un intruso. Un estraneo. Un perdersi senza mai ritrovarsi. Un’identità in frantumi. Una nuova vita. Un racconto di sé che continua. Un nuovo giorno. Un battito nuovo. Diverso»1.

Ero vicino a te. Sentivo il tuo cuore battere. Era sempre lo stesso. Eri sempre tu. Anche se lì dentro qualcosa era cambiato. Il mio cuore batteva con il tuo. E in fondo, credo, questa musica non ce la toglierà mai nessuno.

Il mio cuore con il tuo.

 

Sara Roggi

 

NOTE:
J.L. NANCY, L’intruso, Edizione Cronopio, 2006, 46 p.

 

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Il coraggio di seguire se stessi: “Va’ dove ti porta il cuore”

«Ogni volta in cui, crescendo, avrai  voglia di cambiare le cose sbagliate in cose giuste, ricordati che la prima rivoluzione da fare è quella dentro se stessi, la prima e la più importante. […] E quando poi davanti a te si apriranno tante strade e non saprai quale prendere, non imboccarne una a caso, ma siediti e aspetta. […] Stai ferma, in silenzio e ascolta il tuo cuore, quando poi ti parla, alzati e va’ dove lui ti porta»1.

Così l’anziana signora, protagonista del romanzo di Susanna Tamaro, scrive a conclusione della lunga lettera dedicata alla nipote lontana, una lettera che si fa portavoce di tutto il “non-detto” tra le due protagoniste, scritta con la profondità di chi ha vissuto intensamente, sopportando i pregiudizi e le convenzioni di un’epoca che mostra la propria rigida limitatezza. La nonna, a cui l’autrice dà voce, rende il lungo monologo una sorta di autobiografica descrizione, nella quale si mostra per quello che è, aprendo il proprio cuore alla giovane, rimanendo inerte agli occhi di chi ama, con il coraggio di chi si difende con la sola forza della sincerità del sentimento. Discussioni, litigi, rimorsi lasciano spazio alla più autentica confessione, dove le barriere tra due generazioni vengono superate dall’ immortalità del legame d’amore.

Il romanzo ruota dunque attorno al conflitto tra ragione e cuore, quel cuore tanto disprezzato e relegato a sinonimo di debolezza, deriso dai più perché invocato solo dagli uomini fragili e che la nonna erge invece ad ultimo baluardo di una vita vera. «Il cuore fa ormai pensare a qualcosa di ingenuo, dozzinale. […] è un termine che non usa più nessuno. […] Chi bada al cuore è uno stolto. E se le cose invece non fossero così, se fosse vero proprio il contrario?»2.

Il dubbio viene insinuato dall’anziana ormai al termine della propria esistenza, suscitando una serie di riflessioni correlate che portano a leggere i diversi personaggi, così come le diverse situazioni secondo il binomio ragione-sentimento.

Tale duplicità, caratterizzante l’uomo fin dalle sue più ancestrali origini, a ben vedere ha segnato la storia della letteratura e della filosofia: Catullo cercava di frenare i propri sentimenti non corrisposti sopportando con razionalità e «tenendo duro»3, Jane Austen parlava di “Sense and Sensibility”, Freud dell’eterna contesa tra pulsioni inconsce e la necessità di razionalizzarle, Nietzche di apollineo e dionisiaco, i due principi opposti: quello regolatore e quello caotico.

Si tratta dunque di due aspetti in eterno contrasto tra loro, talvolta integrati quali due facce della stessa medaglia, che in fondo costituiscono l’essenza di ognuno di noi. Quanto ci ascoltiamo in profondità e quanto invece ci lasciamo frenare dalla ragione dominatrice? Quanto riusciamo ad essere in intimo contatto con noi stessi e con i nostri sentimenti? Quanto accettiamo le nostre profonde esigenze e quanto ci lasciamo condizionare dal prossimo?

Oggi, in una realtà che non lascia il tempo di pensare, che ci avvolge e travolge nella necessità del “fare”, abbiamo perso il tempo di ascoltare e ascoltarci, di seguire davvero quello che vogliamo, senza paura di suscitare riprovazione.

Oggi più che in altre epoche storiche abbiamo in un certo senso dimenticato che tutto ciò che serve è dentro di noi e, soltanto con l’umile accettazione della nostra persona possiamo davvero scegliere secondo le nostre propensioni.

«La rinuncia di sé conduce al disprezzo, dal disprezzo alla rabbia il passo è breve»4 dice la protagonista, osservando come rifiutare sé per compiacere chi ci sta di fronte, così come dimenticare la propria intimità, produce un effetto devastante, portando al disagio esistenziale, all’odio e alla rabbia verso se stessi e verso chi imputiamo come responsabile della nostra infelicità. Rifugiandoci tra le alte mura del razionale dimentichiamo spesso di guardare oltre le finestre di queste mura, di apprezzare i diversificati colori che si presentano ai nostri occhi, per abbracciare quelli che più si conformano a noi.

Il coraggio, in controtendenza all’idea comune, sta nell’accettarsi, questo lascia trapelare la protagonista, non nel dimostrare “carattere”, laddove quest’ultimo diventa sinonimo di rigidità, di un pensiero totalitario che offusca la comprensione per seguire idee incontestabili e indiscutibili.

Un invito a non aver paura di se stessi, ad aver coraggio, un coraggio che si misura tutto in una intimità ritrovata, messaggio che dovrebbe essere accolto da tutti, nell’ordine di un’esistenza di comunione con il proprio io.

Anna Tieppo

NOTE
1. Susanna Tamaro, Va’ dove ti porta il cuore, Milano, Mondadori, 1994, p. 165.
2. Ivi, pp. 72-73
3. Catullo in Aa. Vv., Opera. L’età di Cesare, Varese, Paravia, 2003,  tomo 1b, p. 160.
4. Susanna Tamaro, Va’ dove ti porta il cuore, cit., p. 34.

[L’immagine, tratta da Google Immagini, raffigura un murales del popolare street artist Bansky]

 

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I sentieri del corpo: storie oltre il sintomo

#15marzo2017 #fiocchettolilla
Oggi, 15 marzo 2017, è la giornata nazionale contro i disturbi alimentari. Simbolo nazionale di una lotta che molti di noi vivono tutti i giorni, il 15 marzo non vuole unicamente dare voce alla battaglia contro un sintomo. Il fiocchettolilla, infatti, è espressione di una sofferenza abbandonata nel silenzio, un dolore che si manifesta attraverso l’uso del nostro corpo.
Ho voluto ricordarlo attraverso un racconto poiché credo che la penna sia un mezzo efficace per sentirci accanto al nostro prossimo. Per accarezzare quelle solitudini che non trovano le parole per dare voce al loro malessere. Ma, soprattutto, per accarezzare quella solitudine che vive dentro di noi. Perché, in fondo, è solo cominciando da noi stessi che possiamo raggiungere l’altro.

“Niente torna. Quando inizio a scrivere, perdo il filo. Il pensiero si disfa e si sbriciola. E insieme al pensiero, anche quella parola cercata e che avrei voluto proferire. Rimango con la bocca asciutta, come se stessi rincorrendo qualcosa contro vento.
Forse qualcuno.
Lo sai, vero, che ti rincorrerò per sempre? Lo sai che ti cerco?

Non so esattamente come sia successo. Eri sempre con me, al mio fianco. Non ci siamo mai lasciate. Quando gli altri voltavano lo sguardo altrove, tu eri lì. E mi stringevi la mano.
E allora, cos’è accaduto? Perché ti ho perso? Perché te ne sei andata via?

Era una mattina grigia. Un foglio di nebbia copriva ogni cosa.
Nuotavo, una bracciata dopo l’altra. Tu dov’eri? Perché sei sparita? Mi avevi promesso che saresti rimasta lì, per sempre.
Eppure, mentre tutto si dissolveva, è iniziato il tuo silenzio. E quando piangevo, non c’era più nessuno dentro di me che mi sussurrava di essere forte.
Da quando te ne sei andata, io mi sento sola. Triste. Alcuni dicono che sono una ragazza depressa. Ma perché per gli altri è tutto così facile? Che gusto ci provano ad appiccicarti addosso delle etichette?
Depressa. Rimango in silenzio. Mentre sento quella parola rimbombare nella mia mente. Respingendo il mondo che sta fuori.
Dove sei finita piccolina? Dove ti posso ritrovare?
Ho iniziato a fare degli incubi. Spesso, ci sei tu. Accarezzi la mia guancia pallida. Baci la mia fronte gelida. Mentre mi lasci andare, distesa sul letto di una palude. Un po’ come Ophelia. Te la ricordi Ophelia, vero? E quel quadro di Millais che ti piaceva tanto? Te lo ricordi, vero?
Non mi hai mai spiegato perché lo adorassi..
Ma io, io perché non mi risveglio da questo incubo? Sono anch’io Ophelia?
Lei è così bella… io, invece, ho solo tanto freddo.

La sai una cosa? Attraversare quest’incubo mi ha permesso di ritrovarti.
Se ti scrivo è perché ho imparato ad ascoltarti. A fermarmi quando non riesco più a nuotare perché sono esausta. A scrivere seguendo la voce del desiderio e non quella del dovere. A mangiare, quando sento i crampi allo stomaco e una mela non è più sufficiente. Ad amare. Sì, lo so, è incredibile. Sto imparando ad amare senza l’angoscia di perderlo ogni giorno e senza la paura di non poter sopravvivere senza di lui.

Lo ricordo bene quell’inverno gelido. Un inverno freddo come tanti altri, dopotutto.
Io, però, sentivo quel clima rigido con più intensità.
Sentivo il gelo dentro.

A volte, lo percepisco di nuovo. Insieme ai ricordi e alla paura di precipitare nel vuoto.
Non è tutto finito. Anzi. Ho capito che l’unica cosa che posso fare è conviverci.
Una convivenza difficile. Spesso ancora conflittuale.
Oggi, però, ci sono delle pause di pace. Questo, grazie alla persona che mi ha aperto il cuore.
Un cuore che allora credevo fosse di ghiaccio.

Non sentivo più nulla. Solo la voce di un controllo che mi rassicurava e che mi sussurrava di dover resistere. Da sola. In completa autonomia. Senza di te.
Per questo te ne sei andata, non è vero?
L’altro era diventato il pericolo. Ci apriva davanti la paura dell’imprevedibile. Il disordine. L’incontrollabile. Preferivamo non sentire, non mangiare, non baciare. Non amare.

**********

Ci sono giorni in cui, malgrado l’amore che ho vicino, l’imprevedibile bussa alla porta e sento di nuovo la paura. E allora vado a scuola, poi a nuoto, un’ora di scrittura, incontri di lavoro. Ma ce la faccio a finire tutto in tempo, vero? Ritorno a scuola, tengo una lezione a casa, ricomincio a scrivere, invio un paio di mail, rispondo a quelle ricevute. Apro le lettere dalla Francia. Vivo in sospeso tra i due mondi per un attimo. Mi rimetto a scrivere. Ma perdo il filo. Il pensiero si è inceppato.
A differenza di un “prima”, però, in cui tutto mi sembrava possibile, il mio “ora” è tracciato dai confini del limite. Cercando di accettarmi e di rispettarmi anche quando le cose non vanno bene. Quando sbaglio. Oppure quando fallisco.
Anche se, quando fallisco, l’incubo ritorna…
Perché lo stai rifacendo? Perché ti senti così vuota? È così bello vederti sorridere…
Ora sono io che ti parlo. Ero sparita, ma sei riuscita a riacciuffarmi. Non mi perderai di nuovo, te lo prometto. Abbiamo lavorato così tanto insieme. Non sprechiamo tutta questa fatica!
Sento che hai paura. E la sai una cosa? Anche io ne ho. Tanta. Ogni giorno. Ma questa volta, sarà diverso. Se cadi tu, ti rialzo io.
Ci devi credere però. La primavera arriva. Arriva da dentro. La potrai respirare e assaporare. Il suo arrivo sarà imprevedibile.
Percepirai un cambiamento dal cuore.

Sara Roggi

[Immagini tratte da Google Images]

Lettera alla sig.na Regine Olsen: anche i filosofi hanno un’anima

[Poche volte, nella vita, capitano fortune come questa. Questa lettera, da me trovata (chiusa in un cassetto di uno scrittoio, comprato per puro diletto in Nørregade, in quel di København) e tradotta dall’originale danese, è la minuta della famosa, e tragica, “Lettera del 1849” a Regine, da Kierkegaard spedita, ma alla quale non ricevette mai risposta.]

Allo stimatissimo signor X:
la lettera acclusa è mia per la Vs. compagna di vita.
Decidete Voi se consegnargliela o meno.
Io non cerco, in modo alcuno, di potarVela via: intendo solo narrarle ciò che fummo, perché lei si senta libera di ricordare il bene, e il male, di quello che fu la nostra storia.
Ho l’onore di professarmi Vostro devotissimo
S.A.K.

 
Mia Regine,

il cuore, è come una casa subacquea ove vi sono molte stanze: giù nel fondo, poi, vi sono camere piccole, ma accoglienti, dove si può stare tranquillamente seduti, mentre fuori il mare tempestoso; in alcune di esse possiamo udire in lontananza il rumore del mondo (non angosciosamente assordante, ma sempre più fievole e quieto… sai perché? Perché gli abitanti di queste stanze sono coloro che s’amano).
Ma da lungo tempo oramai, cara amica, non abiti più queste segrete magioni: io e te siamo separati, lontani nello spazio infinito del tempo, nella piccola circoscrizione dello spazio: non è poi così immensa Copenaghen!

Ti scrivo ora, perché finalmente voglio che ti sia chiaro perché la nostra storia è finita.
Da quando ti conobbi, ho sempre cercato di vivere artisticamente: volli farmi simile a te, cercando di ritrovare una sensibilità prontissima a cogliere ogni cosa fosse interessante nella tua vita: avevi il dono, cara amica, di saper presentare come arte (non la chiamerò poesia, perché tu con le parole non eri brava come con i suoni e con le immagini: eri erotica in ogni tuo gesto, come solo una ragazza della tua età può essere) qualsiasi cosa tu vivessi: era questo che mi aveva fatto innamorare di te, era questo che mi allontanava terribilmente da te.
La tua arte, amica mia era il ‘di più’ che solo tu potevi donarmi, perché tutta la tua esistenza (bisogna dirlo!) era impostata sul godimento artistico: e un po’ di quel piacere eri riuscita a passarlo a me… il punto è che io non potevo vivere così in eterno, perché io non sono così, e pur di piacere a te, violentavo me stesso. Dolce tortura, ma pur sempre tortura!
Da quando ti ho conosciuta, ho cercato per settimane, ovunque, la tua figura: sapevo che, attorno a te, girava un uomo di grande valore, e io di lui avevo paura perché egli ti era vicino, come uno spettro in una città morta: cosa avesse lui più di me, l’arguzia, l’aspetto… io non l’ho mai capito. Eppure, piccola Regine, ho avuto la fortuna di conquistarti, perché l’amore che io potevo offrirti (e lo sai) era perfetto e totale; il suo, era solo desiderio (anche tu lo desideravi? Immagino di sì, perché è difficile convivere col desiderio!) mentre la mia, era devozione.

Forse tu non eri pronta a cotanto sentimento? La storia parlerà per noi.

Regine… non ti chiamo ‘mia’ perché non lo sei mai stata (e io ho pagato duramente la felicità che l’idea di possederti mi dava un tempo)… e tuttavia, come posso non dire ‘mia’, dato che tu fosti per me ‘mia’ seduttrice, ‘mia’ assassina, origine della ‘mia’ sventura, ‘mia’ tomba… già. Ti chiamo ‘mia’, e parlando di me, mi chiamo ‘tuo’; tuo tormento vorrei essere, ricordarti con la mia oscura presenza, quello che fummo assieme come in un eterno incubo di morte… ma perché perseguitarti, quando – se mai in vita fui felice, fu quando tu m’ingannavi?
Ma davvero poi il tuo corpo poteva così manifestamente mentire? E la tua mente, il luccichio dei tuoi occhi, erano davvero falsi come io ora credo?

Regine mia, non c’è proprio nessuna speranza, davvero nessuna? Il tuo amore non si ridesterà mai più? Io lo so che, nonostante tutto e tutti, tu mi hai amato, benché non sappia dire donde mi venga questa certezza.
Sono pronto ad aspettare a lungo; aspetterò, aspetterò fino a che non sarai sazia degli altri uomini, e quando il tuo amore per me risorgerà dalla tomba: allora, e solo allora, riuscirò ad amarti come sempre, e ti renderò grazie come un tempo, Regine, quando, poggiato al tuo seno, ascoltavo il dolce e regolare moto del tuo respiro, e ti ringraziavo per esser con me.
Non potrai essere così crudele e spietata verso di me in eterno, mia Regine: giungerà il giorno del tuo perdono o del tuo ravvedimento… non ricordo neppure chi dei due distrusse la nostra storia.
No Regine, chi abbia lasciato chi ora non conta.

Sei stata crudele con me, al pari di come io lo fu con te, è vero.
In realtà, tu non lo sai, io ho taciuto il mio dolore e le poche cattiverie dette su di te non hanno che la consistenza dell’aria: solo Dio sa cosa ho sofferto (e voglia il Signore che nemmeno ora io te le racconti)! Mia Regine io ti devo molto… e ora che non sei più mia, ti offro una seconda volta ciò che posso e oso e conviene che ti offra: me stesso.
Sì, ti dono questo cuore che già in passato fu tuo, e lo faccio per iscritto, per non stupirti e non sconvolgerti. Forse la mia personalità ha fatto su di te un’impressione troppo forte, in passato: ciò non deve accadere una seconda volta, e se tu dovessi accettare la mia mano tesa, dovrebbe essere per vero amore, non per impressione.
Mia Regine, prima di dirmi di no!, ti prego, rifletti seriamente (per amore di Dio nei cieli) se puoi, o meno, parlarne con me con serenità, e in tal caso se preferisci farlo per lettera o direttamente a voce. Se invece tu, dopo accurata riflessione, decidessi comunque di non darmi più alcuna risposta, se la tua risposta al mio amore fosse ‘no’, ricorda almeno – per amor del cielo – che per te, e solo per te, ho fatto, e rifarei mill’altre volte, questo passo.

In ogni caso resto,
quale sono stato dall’inizio fino a questo momento,
sinceramente il tuo devotissimo
S.A.K.

David Casagrande

[Immagine tratta da Google Immagini]

L’amore ai tempi del cervello

M’ama o non m’ama? A furia di strappare petali di margherita, servirà un referendum anche per limitare questa taumaturgica pratica di ispezione di sentimenti.

Ognuno di noi avrà sicuramente vissuto un dramma d’amore, che ci avrà poi fatto rovinosamente cercare risposte tra superstizione, tarocchi e oroscopi: come se astrologia e scaramanzia potessero darci un aiuto concreto a scrutare il cuore dell’altro.

Evitando invece malizia e ambiguità, avremmo potuto armarci di stetoscopio e andare a curiosare sul petto del partner (o presunto tale), per sentirne il battito: perderci nel ritmo calmo della sua circolazione e nell’andamento del suo respiro. Un po’ macchinoso, di certo scomodo, ma avremmo avuto un accesso diretto al suo coinvolgimento emotivo nei nostri confronti.

Non è un’indagine del cuore, del sentimento. È piuttosto un’indagine cardiologica, perché, dai risultati di una ricerca condotta da Emilio Ferrer nell’università della California, si è notato che il battito del cuore e la respirazione di due persone innamorate si attestano sulle stesse frequenze. Se infatti l’ultimo petalo dovesse recitare “m’ama”, sentiremmo un battito cardiaco che suona all’unisono con il nostro; così come il ritmo dell’aria, che entra ed esce, cadenzata dalla nostra stessa andatura.

Non si tratta quindi di farfalle nello stomaco né dell’aumento delle palpitazioni del cuore: siamo invece immersi in una sinergia sentimentale che ha sede nel corpo, che vive di corpo e di ogni organo di cui siamo composti.

Anche l’amore platonico, tanto osannato come amore ideale, parte da un’imprescindibile corporeità che ci accompagna lungo la scalata verso la contemplazione dell’Eros. Non si possono evitare i primi gradini della fisicità, che costituisce un fondamento indispensabile anche per i più romantici idealisti. Il corpo è chiamato in causa in ogni relazione d’amore, in ogni sentimento che troppo spesso si è visto relegato simbolicamente soltanto al cuore, finendo per tralasciare il resto della persona.

Il cervello pretende la sua parte, non accetta più di essere trattato come un freddo calcolatore di petali pari o dispari. Eppure si pensa ancora che la componente cognitiva sia così slegata da quella affettiva, come se emozioni e sentimenti fossero opposti e contrari all’apparato cerebrale, che invece si ritrova coinvolto in ogni nostra relazione e compartecipazione emozionale.

Il coronamento di una tensione d’amore induce il cervello a spremere ingenti quantità di ossitocina, il cosiddetto “amore dell’amore”, grazie all’attività della neuroipofisi. E per capire se anche la nostra metà mancante sta vivendo lo stesso stato di grazie, potremmo quindi calcolare il suo livello di questo neurotrasmettitore e osservarne alcuni effetti concreti, quali l’attenuazione dello stress, l’accrescimento della fiducia e dell’empatia con il prossimo. Tutte conseguenze inevitabili di quando si è innamorati…

Non si limita a questo il coinvolgimento  del cervello. L’insula e il corpo striato si attivano quando il desiderio sessuale prende finalmente forma, iniziano a scambiare informazioni e si comportano come se la persona fosse immersa in uno stato di dipendenza da sostanze. Come spiega il professor Pfaus, docente di psicologia alla Concordia University: «L’amore è un “abitudine” che si sviluppa dal desiderio sessuale e come tale chiede appagamento. A livello cerebrale funziona come quando le persone diventano dipendenti da droghe.»

In questo stato di avvolgente dipendenza, possiamo quindi ritenere sincera la drammaticità dei “non posso più vivere senza di te” di chi strappa l’ultimo petalo recitando un disperato “non m’ama”.

Giacomo Dall’Ava

[Immagine tratta da Google immagini]