La soggettiva oggettività della bellezza

Quando ci sorprendiamo catturati dallo spettacolo della natura o dai capolavori dell’arte e ci ritroviamo a fissare con uno scatto fotografico la sensazione di piacere che stiamo provando, siamo ben consapevoli di aver preso parte all’esperienza della bellezza. Eppure, se ci chiediamo: che cos’è la bellezza? ci ritroviamo prigionieri di uno strano paradosso; ci rendiamo conto che la bellezza sappiamo riconoscerla, ma non siamo in grado di darne una definizione precisa.
E come ad un bivio, ci si presentano una serie di ulteriori domande nelle quali il pensiero si incaglia: è bello è ciò che è bello oppure bello è ciò che piace? Ovvero, la bellezza è qualcosa di assoluto e oggettivo, che tutti riconosciamo allo tesso modo, oppure è relativa ai gusti personali di ognuno? E ancora: la bellezza risiede nell’oggetto che ci ha riempito gli occhi di stupore, oppure in noi stessi che siamo in grado di percepirla?

Cerchiamo di dipanare questi aut-aut, provando a descrivere cosa succede quando siamo partecipi dell’esperienza della bellezza.

Il filosofo Immanuel Kant, nella sua Critica del giudizio (1790), afferma che «chiamiamo bella una cosa per la sua proprietà di accordarsi col nostro modo di percepirla». In altre parole, diciamo bello quell’oggetto che avvertiamo in perfetta sintonia con il nostro gusto e i nostri canoni estetici.

Tante volte formuliamo giudizi estetici in linea con i nostri gusti personali, come quando, anche conformemente alla moda del momento, consideriamo bello e da noi preferibile, per esempio, un pantalone taglio sigaretta piuttosto che a zampa di elefante, il colore blu piuttosto che il rosso. Questa discrezionalità di scelta ci dimostra che la bellezza ha qualcosa di soggettivo in quanto è vincolata a noi, è condizionata dal nostro modo privato di percepirla e di viverla.
È possibile, però, percepire la bellezza anche in un modo “condiviso” e intersoggettivo, e questo può succedere nel momento in cui si verificano le condizioni per le quali la bellezza ci si mostra come qualcosa di oggettivo e assoluto, ovvero quando «la soddisfazione che determina il giudizio di gusto è disinteressata» (Kant, Critica del giudizio, 1997). In definitiva, quando l’alchimia che si sprigiona tra noi e l’oggetto contemplato non è condizionata dall’interesse materiale nei confronti di quell’oggetto.

Fruiamo della bellezza pura e assoluta quando il piacere estetico non scaturisce da alcuna previsione di utilità, né tanto meno da un principio morale o etico oppure da un’attrattiva o desiderio personali. E ciò si verifica quando, ad esempio, godendo della bellezza di un campo di biondeggianti spighe di grano, non penso al guadagno che ne posso ricavare, oppure quando, giudicando bello il dipinto La libertà che guida il popolo di Delacroix, prescindo dall’ideale etico e morale a cui mi esorta e ne ammiro semplicemente l’armonia, il perfetto e interiore accordo tra tutti gli elementi che lo costituiscono e il mio spirito.
Non è poi raro che, quando estasiata esclamo: “Che bello!” al cospetto della vista de La nascita di Venere di Botticelli, del Colosseo o ancora delle splendide spiagge della costiera amalfitana, mi aspetto di condividere la mia soddisfazione estetica anche con chi mi sta accanto, «pretendo il consenso d’ognuno, come se il piacere fosse oggettivo» (Kant, Critica del giudizio, 1997), come se l’esperienza della bellezza che sto vivendo, sia appunto qualcosa di assoluto, che valga allo stesso modo per tutti.

Allora, se la bellezza ha la capacità di suscitare, allo stesso tempo, uno stato di piacere che è sì privato, ma anche universalmente condivisibile, non si potrebbe definire la contemplazione della bellezza come un’esperienza intersoggettiva o “soggettivamente oggettiva”?
Non è forse vero che, quando ci troviamo in coda con tanti altri, al Louvre, per godere della bellezza del quadro più famoso del mondo, la Gioconda di Leonardo da Vinci, o quando a un concerto veniamo piacevolmente rapiti dall’ascolto del Chiaro di luna di Debussy, proviamo un’affinità con chiunque partecipi con noi al medesimo spettacolo della bellezza?

Il miracolo della bellezza ci fa riscoprire accomunati dal medesimo sentimento estetico e dalla medesima capacità di giudicare la bellezza. E questo succede perché, in realtà, la bellezza che pensiamo di ritrovare nella natura o dell’arte, non è altro che la bellezza che portiamo dentro di noi.
Nulla sarebbe bello se alcun uomo o donna non lo recepisse come tale, non solo perché nessuno si accorgerebbe della bellezza racchiusa, ad esempio, in un bocciolo di rosa che si schiude, ma anche perché quel bocciolo di rosa può essere giudicato bello solo dalla comunità umana, costituita da individui capaci del medesimo sentire e il cui animo è strutturato esattamente come il mio.

 

Maria Buonadonna

 

[Photo credit Léonard Cotte via Unsplash]

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L’individuo e la grandezza della natura: echi di sublime

È una delle opere più note del mondo, il Viandante su un mare di nebbia dell’artista tedesco Caspar David Friedrich realizzata nel 1818. Un uomo distinto colto di spalle sull’orlo di un precipizio; di fronte al soggetto si dipana il mare di nebbia, da cui emergono cime aguzze e si stagliano altri profili montuosi all’orizzonte. Una persona che si perde con lo sguardo e la mente nell’infinito, piccolo contro la vastità della creazione di natura. Non a caso questa è diventata l’opera emblematica del Romanticismo, periodo letterario e artistico che ha attraversato l’Europa ottocentesca portando, tra le altre cose, l’idea del sublime come nuova chiave di definizione del bello.

Di sublime in realtà si comincia già a parlare nel I secolo d.C a cui si data il cosiddetto Trattato sul sublime, di autore ignoto che però già sintetizza un legame tra ciò che è meraviglioso e un senso di smarrimento. Non dimentichiamo del resto come Aristotele definisse thauma, tradotto spesso come meraviglia, un sentimento sì di grande scoperta, di curiosità e stupore, ma con un’accezione angosciosa. Non a caso, quando il letterato britannico Edmund Burke recupera il tema del sublime nel 1757 lo definisce come delightful horror, letteralmente “l’orrendo che affascina”. Ecco allora che questo sublime è un tipo del tutto particolare di bellezza, è un’emozione forte che ci colpisce e che, secondo Burke ma successivamente anche Immanuel Kant, è generata dalla natura. La sua forza (cascate, tempeste marine) e la sua grandezza (oceani, deserti, alte vette) generano nell’individuo la consapevolezza della propria piccolezza, limitatezza e caducità. Lo si evince chiaramente anche dalle opere di un altro grande maestro, William Turner, da molti considerato precursore del Romanticismo proprio per le vorticose tempeste, bufere di neve o di pioggia, incendi roventi rappresentati nei suoi quadri, in cui l’umano è piccolo o scompare.

Nella Critica del giudizio (1790) Kant spiega come la bellezza sia una caratteristica intrinseca degli oggetti (natura compresa) mentre il sublime è il sentimento che alcuni di essi (e la natura appunto) possono generare. Tale sentimento oltretutto nasce dopo una battuta d’arresto delle energie vitali, un momento di smarrimento in cui l’individuo si trova sopraffatto, prima di riuscire ad agire e di (in un certo senso) tornare alla vita. Schopenhauer ne Il mondo come volontà e rappresentazione (1819) si colloca sulla stessa scia e chiarisce che se l’individuo nello stato di contemplazione di quegli oggetti (naturali) avverte il loro pericolo e la possibilità che lo possano sopraffare, ma nonostante tutto persiste nella contemplazione, allora quello è il sentimento del sublime.

È ancora questo per l’individuo contemporaneo il sentimento del sublime? Immaginiamoci come il viandante di Friedrich – cosa forse non difficile visto il boom di turismo che stanno registrando le località montane in questi ultimi anni. Immaginiamoci sulla cima di una vetta o su una nave in mezzo all’oceano: qual è il nostro sentimento nei confronti della natura che stiamo osservando? Proviamo a rifletterci davvero. Ne riconosciamo la grandezza, la superiorità? Riusciamo ancora a sentirci piccoli? E se siamo ancora in grado di provarlo, questo sublime, riusciamo a portarcelo con noi? La natura è minacciata costantemente dall’azione umana e le nostre mani sono perennemente sporche e sanguinanti in quanto mandanti, con la nostra esagerata eppure inconsapevole domanda sul mercato, di gravi torti nei confronti del mondo naturale e animale. La natura è immensa e immensamente forte, ma la nostra crescita (la popolazione umana dovrebbe raggiungere i dieci miliardi di abitanti nel 2050) soffoca tutta questa energia. Un’energia tale che trova sfogo in violenti ma sempre più frequenti episodi di distruzione. A ognuno dei naufragi di Turner l’umano risponde con maggiore cattiveria, senza riuscire a distinguervi (o senza volerlo fare) una propria responsabilità. Allora pensiamoci ancora un po’ di più, quando scendiamo dalle vette o riemergiamo dai mari, a quella sensazione che abbiamo provato dentro e cerchiamo di tenerla lì, di custodirla. Nella speranza che poi riesca a guidare ogni nostro gesto quotidiano… o almeno un altro in più.

 

Giorgia Favero

 

[Photo credit unsplash.com]

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Riflessioni sulla relatività del bello

Quando si pensa al concetto di bello, la prima domanda che viene da porsi è quella sulla diversità dei gusti e se esista o meno quello che i greci definivano to kalón, il bello assoluto.
Le esperienze estetiche provengono non solo dall’arte, ma anche dalla quotidianità – come tutte le volte che esprimiamo giudizi osservando semplicemente una persona, un oggetto o un fenomeno naturale – facendo sì che l’apprezzamento o la delusione diventino l’unico strumento di misura dell’esperienza appena fruita.

Ma quale parametro viene utilizzato affinché un giudizio di gusto possa ambire a divenire universalmente condiviso? E soprattutto, esiste davvero un modello perfetto di bellezza? Un’idea di bello platonico?
Se si pensa all’essere umano e al suo modo di giudicare i fenomeni, comprendiamo come egli si basi su un determinato modello di bellezza, che viene posto come ideale, per poi categorizzare oggetti e persone in base ad esso, fermo restando che tale idealizzazione sia inevitabilmente condizionata dalla cultura e dalla società. Esempi interessanti ci vengono dal mondo artistico, che per eccellenza risulta essere la culla delle esperienze estetiche: quando, ad esempio, a Parigi nel 1874 si tenne la prima esposizione delle nuove opere impressioniste, i fruitori la considerarono un’azione eversiva che poco aveva a che fare con le loro abitudini artistiche.
Come sappiamo, la pittura impressionista prendeva le distanze dal classicismo – e da quelle forme ideali e canoniche di bellezza – traendo spunto dal romanticismo e dal realismo che propendevano verso l’assoluta libertà dell’artista di esprimere le proprie emozioni.

L’arte rimanda a sua volta ad un altro tema concernente il giudizio estetico: il cambiamento nel corso dei secoli dei canoni di bellezza. Basti pensare a come si sia modificata nel tempo la visione del corpo di donna, che nelle rappresentazioni antiche veniva esaltato nella rotondità e generosità delle forme. Se oggi si pensa ad una donna “perfetta” non la si identificherà certo con la Venere del Botticelli o con la Maya desnuda di Goya, e questo perché sono visibilmente mutati i gusti della società e collettività. Il che porta a pensare alla labilità dei modelli che oggi i più inseguono per potersi omologare a ciò che viene ritenuto appunto “bello”.

Si pensi alle tendenze del momento dettate dai social network, in particolare da Instagram, e a quanto queste influenzino il gusto a livello universale, muovendo verso l’uniformazione delle personalità. Lo stesso accade anche per parte della musica di oggi, che tenta di cavalcare l’onda delle tendenze del momento. Tali brani musicali vengono chiaramente considerati “belli”, non perché lo siano realmente, ma per ciò che rappresentano all’interno della società, facendo appunto sentire i giovani più omologati. Lo stesso accade nel mondo dell’arte, in particolare quando si parla di mostre d’arte contemporanea o performativa, che espongono il più delle volte opere non propriamente belle ma ricche di concettualità; ed è proprio in favore di questa che molti considerano “belle” opere che di fatto non posseggono tale caratteristica.

Riflettendo su quanto detto, si è portati a pensare che il giudizio estetico collettivo si formi a partire da idealizzazioni primariamente soggettive, in quanto è necessario riconoscere la soggettività del gusto e dunque la sua relatività, cosa che ci potrebbe portare ad affermare che in qualche modo esista una sorta di “idea del bello” – che a differenza di quella platonica non si troverebbe in una dimensione iperuranica ma sarebbe frutto del gusto umano basato su esperienze fenomeniche. Contemporaneamente, ci si rende conto di quanto tali posizioni particolari, essendo solitamente influenzate da fattori esterni, vadano a formare un tipo di giudizio che potremmo definire universale.
Tuttavia, potremmo chiederci se tale universalizzazione di un determinato giudizio estetico conduca ad una definizione univoca e realistica di ciò che è bello. Secondo la famosa prospettiva di Kant ne La critica del giudizio (1790), i giudizi, per essere condivisi intersoggettivamente, non devono essere fondati su concetti ma devono svincolarsene.

Possiamo quindi affermare che il concetto di “bello” (ugualmente a quello di “brutto”) sia essenzialmente ambiguo, relativo e assolutamente mutevole nel tempo; ciò porta a concludere che tali concetti, non essendo liberi da condizionamenti esterni, rientrino nel campo del gusto personale, e che, come qualsiasi opinione, non stiano nella verità assoluta. Per questo, anche laddove venissero espressi giudizi di gusto negativi rispetto ad un qualsiasi fenomeno, persona, oggetto, opera d’arte è necessario ricordare che molto probabilmente un giorno ciò che attualmente viene considerato in un determinato modo potrebbe venir considerato nel modo opposto, a dimostrazione del fatto che non esistano il bello e il brutto assoluti.

 

Federica Parisi

 

[Photo credit Erol Ahmed via Unsplash]

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Che cosa fa di un oggetto, “un’opera d’arte”?

 Di tutte le cose, oggetti o prodotti con cui entriamo in contatto ogni giorno, ne notiamo alcuni per la loro bellezza, altri per la loro bruttezza, altri ancora ci rimangono indifferenti. Solamente di alcuni, però, possiamo dire essere delle “opere d’arte”. A chi non è capitato di entrare in un museo o in una galleria d’arte e dinanzi ad una tela squarciata o di fronte ad un’istallazione di semplici sedie da tavolo, chiedersi: perché tale realizzazione viene considerata opera d’arte? Le opere d’arte si possono riconoscere per qualche proprietà specifica? Sono tali in modo indipendente o perché deciso da esperti? E ancora, sono tali in ogni epoca storica o sono frutto del loro tempo storico?

Domande che diventano ancora più rilevanti se consideriamo opere quali la famosa Fountain firmata R.Mutt, di Marcel Duchamp, del 1917, un semplice orinatoio, o ancora 100 Brillo Boxes di Andy Warhol, costituita da una serie di scatole contenenti spugnette abrasive utilizzate per pulire le pentole, o più in generale tutti i ready-made che pian piano si sono insediati in diversi musei del mondo.

È chiaro che si tratta di oggetti qualsiasi, selezionati dalla realtà quotidiana, opere puramente concettuali, che aboliscono qualsiasi valore alla manualità e tecnica dell’artista. La bellezza in questione non è più, dunque, qualcosa di percepito tramite i nostri sensi, ma è qualcosa che va oltre le nostre proprietà sensibili e percettive.

Ciò che alla fine fa la differenza tra una scatola Brillo e un’opera d’arte che consiste in una scatola Brillo è una certa teoria dell’arte 

scrive Arthur Coleman Danto, filosofo analitico e artista;

è la teoria che la assume nel mondo dell’arte, e la preserva dal ridursi all’oggetto reale che è.

Quello che Danto intende dirci è che, l’oggetto, una volta “trasfigurato” in un’opera d’arte, assume precise proprietà relazionali, che sono strettamente connesse con ciò che Danto chiama “Mondo dell’Arte”, costituito da istituzioni, storia e teorie. L’opera d’arte è definibile solo in rapporto a quelle determinate teorie e istituzioni, e a coloro che hanno acquisito competenze di rilievo in quella particolare epoca storica.

È proprio nell’individuazione delle proprietà relazionali che si rende possibile l’interpretazione che ha strettamente a che fare con la nostra capacità di porre giudizio.

Il giudizio del bello, cui tutti noi facciamo largo uso nella nostra vita, per esempio di fronte ad una foto, ad un quadro, quando guardiamo un film o un’opera teatrale, o semplicemente di fronte ad un oggetto naturale, è suscitato dallo “stato d’animo del libero gioco della fantasia e dell’intelletto” che si genera “dall’accordo della libertà dell’immaginazione con la legalità dell’intelletto” scrive Immanuel Kant nella Critica del Giudizio. Il bello non è una proprietà oggettiva ma scaturisce dall’incontro tra il nostro spirito che contempla la “forma” dell’oggetto e l’oggetto stesso. Il bello è qualcosa di puro, un piacere universale, libero da ogni interesse e condizionamento.

La domanda da cui siamo partiti, potrebbe ora essere sostituita più correttamente con la seguente: può un nostro giudizio individuale definire un’opera d’arte?
Certamente no, a meno che non siamo parte di quel Mondo dell’arte fatto di istituzioni e teorie cui Danto fa rifermento.

Ciò non toglie la grande capacità che un’opera possiede di suscitare emozioni, sensazioni, ricordi, positivi o negativi che siano, propri per ciascuno di noi, indifferentemente dal fatto di essere critici d’arte o professionisti, definendo quello che è il nostro mondo dell’arte.

Elena Casagrande

[immagini tratte da Google Immagini: opere di Duchamp e di Piero Manzoni]