The Sound of Silence

Potrà sembrare strano parlare di silenzio alla fine della stagione più rumorosa e festaiola dell’anno, in un’epoca in cui, specie in una grande città, l’unica occasione possibile in cui riposare un po’ le orecchie è un blackout che metta a tacere condizionatori, televisori, elettrodomestici e tutto ciò che da decenni ormai compone un (quasi) inevitabile e costante rumore di fondo.

Il silenzio, però, non rappresenta solo un momento di pace per orecchie stressate e abusate, né deve essere visto come un vuoto imbarazzante (o addirittura spaventoso) da riempire a tutti i costi. Al contrario, in un’era di dispersione dell’identità personale, di avatar e di discrepanza tra profili pubblici e sé privati, il silenzio rimane tra le ultime possibilità che ci rimangono per gettare uno sguardo nella parte più profonda di noi stessi e secondo le maggiori tradizioni religiose, perfino per entrare in contatto con Dio.

Affascinante in questo senso è la narrazione biblica della storia di Elia, profeta di rilevanza centrale per ebraismo, cristianesimo e islam. Nel Primo libro dei Re, un Elia in fuga attende l’arrivo di Dio che gli ha dato appuntamento sull’Oreb, ma sta a lui discernere la Sua presenza. L’autore del libro racconta dell’arrivo di una tempesta di vento, di un terremoto, di un incendio e commenta ogni volta: «Ma Dio non era nel vento/nel terremoto/nel fuoco» (1Re 19,11-12). Dove il profeta riconosce la presenza di Dio è nel ‘mormorio di un vento leggero’, una presenza discreta e gentile, lontana dalle manifestazioni di potere precedenti, inudibile se non nel completo silenzio.

“Dio è umile”, diceva un sacerdote, “parla solo quando tutti gli altri tacciono”. Non è un caso, quindi, che nell’ebraismo la preghiera più importante della liturgia cominci col comando Shemà!, “Ascolta!” (Dt 6,4), o che la sura, L’aderenza, comandi Iqraa!, “Leggi!” (Corano 96,1), entrambe azioni che richiedono silenzio, apertura a quanto viene suggerito dall’esterno, sforzo di comprensione. Non è possibile, pare, riuscire a raggiungere una dimensione di vera spiritualità a meno di non mettere a tacere ogni voce, interiore o esteriore, che possa distogliere la nostra attenzione dalla ricerca di Assoluto, elemento che ricorre anche negli insegnamenti attribuiti al Buddha Siddhārta Gautama: “Se apriamo le mani, possiamo ricevere ogni cosa. Se siamo vuoti, possiamo contenere l’Universo”.

Rimane l’ingombrante interrogativo, però, del perché dovremmo approcciarci al silenzio per recuperare una dimensione di spiritualità che, oggi, si sta ripresentando prepotentemente e violentemente sulla scena mondiale. Tra terroristi che indicono “guerre sante” in umano appalto dell’ira di Dio, politici occidentali che rispondono rimanendo sul pezzo e invocando nuove crociate, leader religiosi che usano il proprio potere per obiettivi fin troppo mondani e fanatici di qualunque culto pronti a uccidere seguendo una sorta di moderno ‘luddismo morale’, abbiamo bisogno di tutto, sembra, tranne che di ‘più Dio’ o ‘più spiritualità’ sul panorama globale.

Forse, però, è proprio per questo che creare silenzio, rientrare in sé e riscoprire una comunicazione con l’io più profondo e con l’Altro è oggi più che mai necessario. In un mondo pieno di gente impegnata a parlare (a gridare) di Dio, ritrovare il modo di parlare con Dio sarebbe tutto sommato una piacevole e insperata novità.

 

Giacomo Mininni

 

[Immagine: Silent Music (Suspension), di Kara Smith, 2014]

 

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Gastrite filosofica e capitalismo

«L’inganno più grande che io abbia mai fatto è stato di farti credere di essere te».

Da Revolver, film di Guy Ritchie del 2005

 

Quale migliore citazione per la vittoria definitiva del Capitalismo tanto temuto dal buon Karl Marx? Alla fine il più grande inganno della società contemporanea è essere riuscita a instillare in tutti noi l’unica e ferma convinzione che in fondo le cose non possano stare che così e in nessun altro modo. Va dato al mondo contemporaneo e ognuno di noi quindi il merito di aver piegato ogni dissenso e ogni voce critica fino a soffocare il grido di un recente passato di conquiste sociali all’ovatta del tempo.

La società occidentale, così immune alle patologie devastanti che hanno flagellato i secoli passati, vede un crescente aumento di malattie croniche di poco conto: vedasi gastriti, sindromi del colon irritabile e disturbi vari. Ovviamente esse non sono niente se paragonate a una epidemia di vaiolo, eppure questi piccoli e fastidiosi disturbi si insinuano sempre più violentemente nel vivere quotidiano di milioni di persone ogni giorno, inesorabilmente. Solitamente esse vengono derubricate alla voce stress, un termine ormai abusato e quasi dato per scontato, ma filosoficamente indagato pochissimo − in fondo siamo tutti (chi più chi meno) stressati, perché occuparcene quindi? Ma che matrice intima ha questo stress?

La società capitalista che ha una forte matrice cartesiana sorvola grandiosamente l’interazione tra fisico e mente e viceversa. Del resto niente vi fu di più grande dell’idea che in qualche modo l’esistenza fosse slegata dal tanto disprezzato corpo che con la sua caducità metteva a nudo la deflagrazione di quelle idee e derivanti ideologie che si volevano incorruttibili. Cartesio imparò bene dal cristianesimo.

Tutti noi siamo stati educati, cresciuti e abituati (ma sarebbe meglio dire addestrati) a gestire come normali certi sfoghi o reazioni del nostro corpo, perché in fondo ritenute parte dell’esistere contemporaneo come l’inquinamento ambientale, l’uso di conservanti nell’alimentazione, seppur nocivo, o lo smog perché, in fondo, si è normalizzata l’anomalia dello stare male.

Non solo Karl Marx ha fallito come ha fallito il materialismo, ma siamo ben oltre: noi stessi rifiutiamo costantemente ciò che il nostro corpo, che poi è la nostra parte più vera, prova disperatamente a dirci, e cioè che le cose così come sono non vanno bene. Nella vostra vita avete trovate o troverete un’orda di motivatori, coach improvvisati, melliflui chiacchieroni sempre pronti a dirvi che in fondo bisogna andare avanti, bisogna pensare positivo, che se hai la gastrite buttaci giù due pastiglie che passa e via. Avanti tutta verso la meta.

Che meta poi?

Una esistenza consistente, autentica?

No, in questo mondo esisti solo nella misura in cui produci un reddito, lo sanno bene le orde di stagisti e poveracci sottopagati che si ammassano alla ricerca di un lavoro “perché tanto bisogna fare curriculum”, lo sanno bene i poveri, gli storpi, gli esclusi dalla società che come la vostra gastrite vi ostinate a non voler ascoltare, anche se, in fondo, è parte di voi. Forse quella dannata gastrite è la parte più vera di voi.

Scrive bene Karl Marx nella prefazione a Per la critica dell’economia politica (1859):

«Non è la coscienza degli uomini che determina la loro vita, ma le condizioni della loro vita che ne determinano la coscienza».

Allo stesso modo tutti noi siamo stati educati che in fondo un po’ di gastrite può andar bene, che bisogna lavorare anche se ti pagano poco, che anche se stai male bisogna produrre e in fondo che stare male è una condizione strutturale dell’essere umano salvo tu non abbia la fortuna di essere un milionario, un vincitore del Superenalotto o in generale qualcuno che può vivere di rendita o ergersi sopra gli altri.

Quella dannata gastrite che prende il sopravvento è invece forse la parte più autentica di ognuno di noi, è quel mutus animi (moto dell’animo) che in fondo ci sta sussurrando dal basso del nostro ventre che le cose, così come sono, in fondo non vanno; è un richiamo ancestrale al ribellarsi e alla ribellione, perché in fondo ogni essere umano nasce libero, ma non sempre siamo capaci di sostenere o di ricordare quella libertà.

Meno Malox dopo i pasti e più e più Lex, intesa come giustizia, cioè dare a ognuno il suo. Forse seguire questo principio ci aiuterebbe a risolvere tanti problemini di stomaco in prima battuta e a costruire una società migliore nel complesso. Le cose non sono date così come sono, ma ciò che ogni giorno scegliamo di essere determina ciò che le cose sono.

«Il difetto principale d’ogni materialismo fino ad oggi è che l’oggetto, la realtà, la sensibilità vengono concepiti sotto la forma di oggetto o di intuizione, ma non come attività umana sensibile, prassi, non soggettivamente».

La vostra gastrite è reale, care amiche e cari amici, ed è dannatamente oggettiva e vi ricorda ogni dannato giorno, o almeno ci prova, che le cose non vanno come sentite che dovrebbero andare.

Meno Malox e più ribellione, provare per credere.

Matteo Montagner

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

 

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Sul detto comune “Forse non tutti i musulmani sono terroristi…”

L’aveva capito Immanuel Kant quando, nel 1793, pubblicò il saggio Sul detto comune “Questo può valere in teoria, ma non vale per la pratica”: i proverbi, i modi di dire, i “detti comuni” appunto, sono più di semplici espressioni idiomatiche e di costume, sono vere e proprie cartine al tornasole del sentire comune, della mentalità collettiva. Possono quindi creare una specifica forma mentis e le basi di un sistema di pensiero, quando non ne siano già indicatori.

È questo il caso, oggi, di un detto che sentiamo fin troppo spesso, attribuito a Oriana Fallaci e diffusosi in maniera endemica dai bar ai social network ai talk show: “Forse non tutti i musulmani sono terroristi, ma tutti i terroristi sono musulmani”, un brillante sunto di teologia, analisi sociopolitica e psicologia che non lascia troppi dubbi in quanto a letture della crescente instabilità che affligge ormai ogni parte del mondo. Peccato che, come sottolineò lo stesso Kant, spesso questi detti siano pure idiozie glorificate da una facile retorica. L’attentato a Londra del 19 giugno e quello a Parigi del 29 giugno dovrebbero già essere valide confutazioni del detto preso in esame, ma lasciando da parte gli attacchi ad opera di singoli, prendiamo in considerazione invece alcuni gruppi terroristici organizzati non islamici.

In Israele, un numero crescente di nuovi coloni, ebrei sionisti, ha compiuto decine di attentati ai danni della popolazione civile palestinese (il più delle volte: nel 2015, l’attentatore scambiò un ragazzo ebreo per un arabo e lo uccise con un coltello), omicidi tesi a rivendicare la totale sovranità ebraica della Terra Santa.

In Birmania, l’etnia rohingya, di religione islamica, è sistematicamente vittima di attentati ad opera di gruppi paramilitari che si dichiarano seguaci del buddhismo theravāda, che agiscono su base nazionalista e razzista. Il tutto, peraltro, avviene con il complice silenzio del Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, ora alla guida del Paese.

Nella Repubblica Centrafricana, le milizie cristiane degli anti-balaka compiono stragi coordinate e brutali ai danni della popolazione musulmana (lo stesso termine “anti-balaka” rimanda ad una contrapposizione religiosa, e può essere tradotto con “anti-musulmano”), con attacchi mirati ai civili.

In India, estremisti indù afferenti al partito del Primo Ministro Narendra Modi, il BJP, organizzano repressioni violente nei confronti delle minoranze non induiste del Paese, arrivando a imporre in alcune regioni (anche popolose e rilevanti come lo stato del Gujarat) una legge ispirata ai precetti indù, una vera e propria “shari’a induista” che punisce con l’ergastolo chi uccide una mucca.

Esisterebbero molti altri esempi anche al di fuori dell’ambito religioso e confessionale, come i movimenti del suprematismo bianco negli Stati Uniti o i rinati movimenti anarchici in Italia. Come accennato, il numero aumenta al momento in cui si aggiungono al novero anche i “lupi solitari” come Darren Osborne, Anders Breivik o perfino il nostrano Gianluca Casseri.

Espressioni come “Non tutti i musulmani sono terroristi, ma tutti i terroristi sono musulmani” sono, a proprio modo, consolanti: ci portano a pensare che esiste una singola ideologia, religione o dottrina (o comune ridotte in numero e chiaramente identificabili) che è all’origine del male e della violenza, e che una volta eliminata questa, si potrà finalmente vivere tranquillamente, in pace, in armonia. L’alternativa sarebbe angosciante: riconoscere che la violenza ha sempre accompagnato la storia umana, e che individui, popoli e gruppi hanno utilizzato ogni tipo di religione o ideologia per darle una giustificazione ed una legittimazione. Certo, questo presupporrebbe anche un impegno personale e quotidiano nell’eradicazione della violenza, a partire dall’ambito individuale e educativo: fortuna che biasimare l’islam e qualunque altro capro espiatorio lo seguirà sollevi tutti da ogni responsabilità personale.

Giacomo Mininni

[Immagine tratta dalla campagna pubblicitaria Anche le parole possono uccidere realizzata da Armando Testa]

 

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Tu scendi dalle stelle

<p>Teddy Sczudlo via Getty Images</p>

Quando durante un’omelia del maggio 2014 Papa Francesco aveva scherzosamente sostenuto che la Chiesa avrebbe dovuto battezzare anche un marziano, qualora lo chiedesse, per “non chiudere le porte a nessuno”, la frase era stata accolta per quello che era: una semplice iperbole per far passare un concetto. Al momento in cui però, lo scorso 22 febbraio, la NASA ha reso nota la scoperta di Trappist-1, un sistema solare con sette pianeti, tre dei quali potenzialmente abitabili, il quesito ha assunto una dimensione se non del tutto nuova comunque concreta: come reagirebbero i sistemi teologici e culturali all’eventuale scoperta di vita extraterrestre, specie se senziente?

Nonostante l’apparenza, la questione non è certo secondaria, specie considerando che, quando Giordano Bruno teorizzò, in De l’infinito, universo e mondi del 1584, l’esistenza di altri mondi abitati oltre alla Terra, l’affermazione gli costò un processo per eresia che si sarebbe concluso con la sua morte sul rogo nel 1600. A ben guardare, però, il problema potrebbe essere tale solo da una prospettiva cristiana: per le grandi religioni orientali, infatti, il ciclo dell’esistenza non è affatto legato ad una dimensione terrestre, almeno non esplicitamente, e la presenza di altra vita senziente non scalfirebbe affatto una sensibilità che da sempre si professa universale. Anche l’ebraismo non riscontrerebbe particolari difficoltà: se da un lato alcune scuole cabaliste hanno riconosciuto in Trappist-1 il corpo celeste Neberu che, come profetizzato nel Sefer ha-Zohar, precederebbe l’avvento del Messia, per le altre (maggioritarie) scuole teologiche la vita extraterrestre sarebbe del tutto irrilevante in quello che rimane una relazione tra Dio e il popolo ebraico solo. Anche l’islam, che nella prima sura del Corano loda il “Signore dei mondi”, non avrebbe troppi problemi ad accettare l’esistenza di vita aliena, che come ogni altra rientrerebbe nel dominio di Dio.

Il cristianesimo, però, con la nascita, morte e resurrezione di Gesù di Nazareth, è indissolubilmente legato alla storia terrestre, e la presenza di altre creature senzienti su altri pianeti porrebbe lo scomodo problema di una rivelazione ripetuta: Gesù si sarebbe incarnato anche su altri pianeti? Il Suo sacrificio si sarebbe ripetuto tante volte quanti sono i mondi abitati? Vista così, la prospettiva di una civiltà aliena ripropone, “in grande”, gli stessi problemi che la Chiesa cattolica e, di lì a breve, quelle protestanti dovettero affrontare all’inizio del XVI secolo, quando le spedizioni spagnole provarono l’esistenza di un continente sconosciuto, abitato da altri popoli ed altre civiltà, che non avevano giocoforza mai conosciuto Cristo e il Suo messaggio. La prima reazione non fu esattamente esemplare, se passarono anni prima che si riconoscesse a indios e nativi il semplice status di esseri umani; fu l’impulso di Ignazio di Loyola a fornire una soluzione, pragmatica come da stile gesuita, del problema: Cristo non era stato nel Nuovo Mondo, perché era compito e missione dei cristiani del “vecchio” evangelizzarlo. L’impulso della Compagnia di Gesù non solo evitò una crisi teologica senza precedenti, ma dette portò nuova linfa alla cristianità, permettendole di espandere i propri confini come mai prima di allora, sopravvivendo ai colpi potenzialmente mortali della Riforma protestante.

Al momento, qualsiasi dibattito su come e se la religione cristiana uscirebbe dall’incontro con forme di vita extraterrestri rimane, ovviamente, nel regno della pura congettura, un esperimento mentale che però aiuta a capire se e quanto la specie umana sia preparata ad una nuova rivoluzione copernicana. Rimane il fatto che, indipendentemente da ogni altra considerazione, qualsiasi notizia ci porti ad alzare nuovamente lo sguardo verso le stelle è più che benvenuta.

Giacomo Mininni

[Immagine tratta da Google Immagini]

I cipressi di Van Gogh

«I cipressi sono sempre nei miei pensieri, vorrei farne una tela come i quadri di girasoli e mi stupisce che nessuno li abbia ancora fatti come io li vedo. Sono belli come linee e proporzioni e somigliano a un obelisco egiziano. E il verde è così particolare»1.

Queste le parole di Van Gogh in una lettera ad un amico a Saint-Rémy che parlano dei cipressi. Forse sarà un po’ strano ma proprio di quest’albero che lo ha ispirato più volte si parlerà in questo promemoria filosofico.
Un albero che si trova tra terra e cielo che per il pittore olandese rappresenta «la macchia nera in un paesaggio assolato, ma è anche una delle note nere più interessanti fra le più difficili da indovinare tra tutte quelle che si possano immaginare»2.
Le intense e pastose pennellate di Van Gogh possono narrare al meglio la storia di questi alberi così nobili mostrando l’inquietudine di un’anima sulla tela, scelti non a caso per il loro valore simbolico.

Nell’antichità erano simbolo del dio Crono, un inno alla vecchiaia. Se nel paganesimo indicavano la longevità, nel cristianesimo hanno assunto un significato legato alla fede, in veste di speranza nell’aldilà. Tutt’oggi nella maggior parte dei casi ci possiamo imbattere in una fila di cipressi che circondano le porte e le mura dei cimiteri. Questi alberi longilinei si spingono dove l’uomo non può andare: verso i cancelli del cielo, a un passo tra l’uomo e il divino, per metterli in contatto tra loro. Sono i guardiani che vegliano la morte.

Anche nella mitologia il cipresso è simbolo di nobiltà. Il mito narra di un giovane principe di eccezionale bellezza caro ad Apollo, di nome Ciparisso, al quale il dio aveva dato in custodia un cervo sacro dalle corna d’oro. Il giovane aveva gran cura del cervo e lo amava come se fosse domestico: gli aveva adornato il collo con un collare di pietre preziose e fibbie d’argento. Un giorno però il ragazzo, durante un pomeriggio di sole, aveva lasciato libero l’animale di brucare l’erba nel bosco e aveva deciso di andare a caccia con il suo arco addentrandosi tra gli alberi.
Rincorse una volpe nella folta vegetazione, scagliò una freccia e fu in quell’istante che il caso gli tirò un brutto scherzo: Ciparisso colpì proprio il suo cervo. Sconvolto dal dolore il principe raccontò il fatto ad Apollo, chiedendo al dio di trasformarlo in un essere immortale per piangere in eterno il suo caro amico.
Così Apollo toccato da tanta devozione, accettò di esaudire la sua richiesta e mise la mano sulla fronte del principe e lo avvolse nel suo mantello verde. Fu in quel momento allora che Ciparisso guardò il cielo, le sue lacrime divennero piccole foglie verdi scure, i suoi piedi si indurirono nella terra e si trasformò per sempre in un cipresso.

Ciparisso diventò allora l’albero che conosciamo, che ancora dalle sue fronde si spinge verso l’alto, come a cercare quell’amore perduto nel mondo dei vivi. Trova forse un senso infine, dopo aver ascoltato questa storia, quella tensione e quella sensazione di mancanza, o quel senso di tristezza pacata ma serena che il cipresso può dare. Magari la prossima volta che vedrete un cipresso, fateci caso, l’anima ora in pace di Ciparisso vive ancora in lui.

Al prossimo promemoria filosofico

Azzurra Gianotto

NOTE
1.Cit. tratta dalla lettera 626a di Vincent Willem Van Gogh, Saint-Rémy, febbraio 1890, tratta da “Classici dell’Arte”, Rizzoli Editore
2. Cit. tratta dalla lettera 626a di Vincent Willem Van Gogh

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Il tenebroso mondo gnostico

Può capitare a tutti a volte di sentirsi ingabbiati, incarcerati, imprigionati in questo mondo e di vedere i nostri desideri calpestati dai suoi abitatori, e di percepire pertanto la realtà che ci circonda come un’entità ostile, estranea, incomprensibile e profondamente maligna. Ma solo gli gnostici hanno saputo fare di questo angosciante sentimento una filosofia sistematica. Secondo questi pensatori, infatti, in questo mondo «tutto è pieno di tenebre… / Tutto è pieno di prigioni; / non c’è via d’uscita, / E si infliggono colpi a tutti coloro che vi giungono» (questo canto e quelli che lo seguiranno sono riportati nel bel libro di H.C. Puech intitolato Sulle tracce della Gnosi).

Per gnosticismo si intende un movimento spirituale e filosofico, le cui radici sono molto probabilmente da ricercare nell’era precristiana, diviso in varie sette e correnti diverse e particolarmente attivo tra il I e il IV sec. d.C. (ma protrattosi, secondo Puech, almeno fino al VII secolo d.C. e in certi casi perfino oltre – i Manichei, ad esempio, sopravvissero fino al XIV secolo, ma si pensi anche ai Mandei, che sono una comunità religiosa tutt’ora esistente), che si propone di far pervenire alla salvezza i suoi seguaci non tanto mediante atti di fede, quanto piuttosto attraverso la conoscenza di come veramente stanno le cose, anche qualora gli scenari dischiusi dalla contemplazione della “verità” siano sconcertanti o terribili da sopportare (gnosis in greco significa per l’appunto “conoscenza”). Tra i maestri gnostici di particolare spicco troviamo Basilide, Valentino, Marcione. Il Cristianesimo nascente combatté ferocemente e con successo questa “eresia” dalle origine sincretistiche, che proclamava di possedere un sapere mistico segreto che, pur essendo stato indicato da Cristo ad alcuni suoi discepoli, sarebbe stato colpevolmente ignorato dalla Chiesa.

Gli gnostici considerano l’uomo come un’anima divina precipitata in quella prigione che è costituita dal corpo (già Platone diceva che il “corpo”, in greco soma, è per l’anima una “tomba”, in greco sema). «Venuto dalla luce e dagli dèi, eccomi in esilio e separato da loro», recita una loro poesia; «Sono un dio e nato dagli dèi, / Brillante, scintillante, luminoso, / Radioso, profumato e bello, / Ma ora costretto a soffrire. / Mi hanno afferrato diavoli senza numero, / Orrendi, e mi hanno tolto la forza. / La mia anima ha perso conoscenza. / Mi hanno morso, tagliato a pezzi, divorato. / […] Contro di me urlano e si lanciano, mi tormentano e mi assalgono…», continua il canto in un crescendo di disperazione.

Del tutto logico, quindi, che gli gnostici, vedendosi incapaci di salvarsi con le proprie mani dal dolore che da ogni lato li assedia e li tormenta, rivolgano a Dio un’accorata richiesta di aiuto: «Possa tu liberarmi da questo profondo nulla, / Dal tenebroso abisso [di questo mondo] […] che altro non è se non tortura, ferite fino alla morte, / E dove né soccorritore né [vero] amico si trovano! Mai, assolutamente mai, [quaggiù] si trova la salvezza; […] / [Non sapendo che cosa fare per salvarmi,] piango su me stesso». Come si può vedere, tristezza, ansia, paura, depressione e un lacerante desiderio di trovare infine una protezione e un riparo sicuro dalle insidie della vita sono le principali tonalità emotive che emergono dai componimenti gnostici.

Sennonché, per gli gnostici, il dio creatore di questo mondo non può salvare. Egli, infatti, proprio come tutti gli dèi celesti minori – che gli gnostici definiscono “Arconti”, cioè “Signori” (dal greco archontes, “governatori” o “comandanti supremi”) – è profondamente malvagio, e non ha alcuna intenzione di tendere la propria mano all’uomo per trarlo fuori dall’incubo in cui è rinchiuso. I versi dell’inno Ad Arimane di Leopardi, pur essendo stati composti per altri scopi e peraltro lasciati incompiuti, possono offrire un perfetto ritratto del giudizio negativo e senza possibilità di appello che è formulato da questa corrente spirituale nei confronti del sommo Autore del­l’uni­ver­so. Qualunque sapiente gnostico avrebbe infatti potuto pronunciare, nel rivolgersi a tale entità minacciosa e malevola, le seguenti parole redatte dal poeta recanatese: «Re delle cose, / autor del mondo, arcana / malvagità, sommo potere e somma / intelligenza, eterno / dator de’ mali e reggitor del moto/ […] Tua lode sarà il pianto, testimonio del nostro patire. [Ma] pianto da me per certo Tu non avrai: ben mille volte dal mio labbro il tuo nome maledetto sarà […]. / Non ti chiedo nessuno di quelli che il mondo chiama beni: ti chiedo quello che è creduto il massimo de’ mali, la morte […]. Non posso, non posso più della vita».

Non è quindi a tale dio che si levano le strazianti preghiere di salvezza formulate dagli gnostici. Esse si rivolgono piuttosto al Dio nascosto e non-creatore che risiede beato “oltre i mondi e oltre i cieli”. Possiamo allora immaginare così il mondo come è visto dagli gnostici: una serie di sfere concentriche, ognuna delle quali (pianeta, stella o cielo che sia) è una sorta di perverso labirinto esistenziale governato da dèi oscuri e colmo di trabocchetti, trappole e vicoli ciechi, nonché infestato da pericoli, nemici e bestie feroci che non vedono l’ora di “fare la pelle” al malcapitato che abbia la sfortuna di imbattersi in essi.

«L’universo materiale» – scrive Hans Jonas nel suo studio intitolato Il principio gnostico – «ossia il dominio degli Arconti, assume [generalmente] la forma di una vasta prigione la cui cella più interna e sotterranea è la terra […]. Intorno ad essa e al di sopra, le sfere cosmiche sono disposte come gusci concentrici». I sistemi gnostici più elaborati arrivano a contare fino a 365 di questi “cieli-guscio”, in ognuno dei quali regna «un’attiva forza demoniaca» che non intende solo opprimere, tiranneggiare e ostacolare le anime dei vivi, ma anche quelle dei morti: «come guardiano della sua sfera, ogni arconte sbarra il passaggio alle anime che tentano la risalita dopo la morte, per evitare la loro fuga dal mondo e il loro ritorno a Dio», puntualizza infatti Jonas.

Al di là di tutti questi orrori, abbiamo detto, sta però la salvezza: oltre i numerosi cerchi cosmici esiste infatti il “Regno della Luce”, abitato da un Dio eterno che è tutto bontà, amore e luminosità. È il “Padre Celeste” annunciato da Gesù. Gli gnostici, quindi, si schierano con il Dio protettivo e misericordioso descritto nel Nuovo Testamento, che ha in Cristo il suo araldo, ma contro quello che essi considerano il Dio collerico e vendicativo del Vecchio Testamento, che avrebbe invece in Mosè il suo testimone (almeno se si segue l’antica tradizione interpretativa – ormai eclissata, ma ovviamente ancora viva al tempo degli gnostici – per cui sarebbe proprio quest’ultimo personaggio l’estensore del “Pentateuco”, l’insieme dei primi cinque libri dell’An­ti­co Testamento).

Pur essendo inconoscibile e misterioso, il buon Dio talvolta si fa sentire: la sua voce conturbante, che riesce a sovrastare per imponenza e autorità quella del folle e malvagio demiurgo di questo mondo, in certe particolari occasioni si rende infatti udibile ad alcuni eletti. Essa parla direttamente ai loro cuori (che in tal modo – dice Clemente Alessandrino negli Stromata – vengono trasformati da «dimora di demoni» a luoghi «beatificati», «santificati» e «risplendenti di luce») per “risvegliarli” e concedere loro particolari rivelazioni, indicazioni e suggerimenti che saranno utili agli iniziati per raggiungere la salvezza tanto agognata.

Si tratta allora, per gli gnostici, di trovare il modo, mediante l’elaborazione del loro sapere esoterico, di oltrepassare tutte le sfere celesti e di uscire così definitivamente dai bui e infernali corridoi del labirinto del­l’esi­sten­za terrena, per andare finalmente incontro a quel perfetto Dio Padre che ha il suo principale messaggero in Gesù, o di sperare che Egli per primo, commosso dai nostri patimenti e dalle nostre invocazioni, e a sua volta desideroso di ripristinare l’Unità perduta, decida di farsi avanti verso di noi, abbattendo le barriere che ci separano da Lui e quindi dalla somma beatitudine.

Gianluca Venturini

BIBLIOGRAFIA:
Hans Jonas, Il principio gnostico, a cura di C. Bonaldi, Morcelliana, Brescia 2011
Henri-Charles Puech, Sulle tracce della Gnosi, a cura di F. Zambon, Adelphi, Milano 2006

[Immagine tratta da Google Immagini]

La Chiesa all’opposizione: un’intuizione pasoliniana

Il destino della Chiesa, il potere, la lotta e la rivoluzione. Termini e uso del linguaggio anacronistici, desueti: infatti sto prendendo in considerazione un articolo di Pier Paolo Pasolini uscito esattamente il 22 settembre 1974 sul Corriere della sera, pubblicato con il titolo I dilemmi di un Papa, oggi.

Raccolto in Scritti corsari, l’articolo richiamava la possibilità che la Chiesa si facesse paladina di un movimento antagonista rispetto alla società di massa che proprio in quegli anni era agli albori, con la sua sacra dedizione al consumismo e la consegna della propria anima ai vizi dell’edonismo. Pasolini disegnava un orizzonte in cui il cattolicesimo potesse realmente “passare all’opposizione”, realizzando quel distacco (in tutto e per tutto volontaristico ed eminentemente “morale”) dall’incipiente disfacimento ultracapitalistico della società.

«Questo è certo: che se molte e gravi sono state le colpe della Chiesa nella sua lunga storia di potere, la più grave di tutte sarebbe quella di accettare passivamente la propria liquidazione da parte di un potere che se la ride del Vangelo», scriveva Pasolini.

Il nuovo fascismo, come lo chiamava, aveva infatti relegato la Chiesa ai margini della storia, mediante una sorta di nietzscheana trasvalutazione di tutti quei valori (cristiani e paleocapitalistici) che avevano dominato la storia recente. Chiesa, patria, famiglia, obbedienza, ordine, risparmio, moralità avevano ceduto il passo alla felicità legata ai consumi e ad uno stile di vita imperniato sul piacere e sul godimento.

Certo è lo stesso Pasolini a definire quest’idea della “rivoluzione” della Chiesa come «una prospettiva radicale, forse utopistica, o, è il caso di dirlo, millenaristica». Il tono usato dallo scrittore però tradisce un’ultima – recondita – speranza.

«La Chiesa potrebbe essere la guida, grandiosa ma non autoritaria, di tutti coloro che rifiutano il nuovo potere consumistico che è completamente irreligioso; totalitario; violento; falsamente tollerante, anzi, più repressivo che mai; corruttore; degradante. È questo rifiuto che potrebbe dunque simboleggiare la Chiesa: ritornando alle origini, cioè all’opposizione e alla rivolta. O fare questo o accettare un potere che non la vuole più: ossia suicidarsi».

Un richiamo, quello di Pasolini, che è chiaramente rimasto inascoltato nel tempo. E lo è stato perché in quell’articolo lo scrittore poneva una precondizione che la Chiesa non è mai stata disposta ad accettare: «Per passare all’opposizione, dovrebbe prima di tutto negare se stessa». La direzione è stata invece diametralmente opposta, visto che la Chiesa, più che accettare passivamente il potere, ne ha assunto anche la fisionomia. Non c’entrano nulla la ricchezza e lo sfarzo, che se mai ricordano un appannaggio quasi nobile del clero.

Parlo dei sistemi di comunicazione di massa, dei messaggi semplici e a forma di slogan veicolati attraverso la televisione e internet, della riduzione del messaggio evangelico ad articolo degno del peggior opuscolo, o della sua compressione (demonica?) in “stati” o “post”.

Questo rapporto simbiotico della Chiesa con la società dell’edonismo tecnicizzato potrebbe essere interpretato come un’alleanza, ma anche come una resa incondizionata e mai annunciata del Vaticano, o addirittura come un sodalizio tra due poli apparentemente indifferenti l’uno all’altro, oppure come una miscela – placida e silenziosa, non certo esplosiva – di questi tre elementi.

Certo è che la vicinanza dei modi e dei metodi del Cristianesimo degradato con il nuovo Potere, come lo definiva Pasolini, è assolutamente evidente. Tanto più quanto ormai le categorie del “lavoro”, dello sviluppo, della felicità e dell’amusement di cui si parla nella Dialettica dell’Illuminismo non vengono mai messe in discussione. Il suicidio sta proprio nel credere di poter veicolare un messaggio cristiano attraverso dei mezzi e degli atteggiamenti che sono per loro intrinseca natura anticristiani.

Ci vorrebbe il Tau al posto della cupola: ma questa è davvero – soltanto – un’utopia.

Roberto Silvestrin

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Intervista a Vittorino Andreoli: alla scoperta dell’uomo

Vittorino Andreoli, psichiatra di fama mondiale, è stato direttore del Dipartimento di Psichiatria di Verona-Soave ed è membro della New York Academy of Sciences. Uomo di scienza e di grande cultura umanistica, si è sempre occupato di studiare e comprendere in profondità i segreti della mente, per poter aiutare concretamente l’uomo alleviandone le sofferenze con straordinaria competenza scientifica, sensibilità, delicatezza e coerenza. Sempre alla ricerca dell’umanità dell’uomo, negli anni ha analizzato per la magistratura grandi criminali che hanno scosso l’opinione pubblica italiana, fra i quali Pietro Maso e Donato Bilancia.

Fra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo: La mia corsa nel tempo (Rizzoli, 2016); La gioia di vivere (Rizzoli, 2016); Ma siamo matti (Rizzoli, 2015); L’educazione (im)possibile (Rizzoli, 2014); I segreti della mente (Rizzoli, 2013); Le nostre paure (Rizzoli, 2010); La fatica di crescere (Rizzoli, 2009).

Professore, nel corso della sua vita si è sempre occupato di esseri umani. A suo parere qual è la condizione dell’uomo contemporaneo?

Anzitutto c’è una condizione che è del tutto umana: l’uomo ha delle peculiarità per le quali è propriamente homo sapiens sapiens. Questi due sapiens non mi piacciono, ma sono l’indicazione per collocarci nell’albero delle specie che aveva disegnato Darwin. Quindi la condizione umana è quella di un animale. C’è una famosa e bellissima espressione di René Dubos (neuroscienziato francese, ndr) che ha scritto So human an animal (1968). Siamo dunque degli animali e abbiamo, in quanto specie umana, la caratteristica della coscienza, una capacità di porci questioni che si legano al cogito di Cartesio e all’Io penso di Kant. Siamo portati a porci domande a cui non sappiamo dare risposte. Attraverso la coscienza abbiamo la consapevolezza dei limiti della specie: la morte, la domanda dal nulla all’esserci, il limite drammatico del dolore, particolarmente quello inevitabile. Io credo che ci siano delle caratteristiche legate propriamente alla condizione dell’essere uomo e a queste caratteristiche e a questo senso del limite e del mistero si legano poi alcune condizioni del tempo presente. Le caratteristiche dell’essere del tempo presente sono: l’insicurezza, la paura, la percezione di un futuro che non si riesce nemmeno a immaginare, la violenza che ha una dimensione che non era mai stata così nel passato, inoltre c’è la paura che la nostra storia su questa terra finisca. Stephen Hawking afferma che sarà una grande fortuna se questo pianeta avrà ancora l’uomo fra mille anni. Questa è un’affermazione drammatica perché, dal punto di vista della fisica e della cosmologia, sappiamo che il pianeta va verso l’estinzione poiché il sole è una stella che nel giro di due miliardi di anni finirà. Ma tra due miliardi di anni e mille anni passa una bella differenza. Hawking non lega tanto questa ipotesi al consumo dell’energia stellare, quanto piuttosto alla paura che l’intelligenza artificiale possa creare dei comportamenti distruttivi per l’uomo. Attualmente i limiti e le paure sono davvero di grande portata.

I suoi ultimi scritti, su tutti La gioia di vivere (2016), si occupano di esplorare in linea teorica ma anche praticamente gli ingredienti per poter condurre un’esistenza all’insegna del benessere e della gioia. Come mai ha sentito l’esigenza e l’urgenza di trattare questi temi, paradossalmente essendosi sempre occupato delle sofferenze dell’anima?

Devo premettere una considerazione: io amo l’uomo e lo amo indipendentemente da quelle che sono le qualità buone o cattive. Io mi sono occupato di casi estremi e ho sempre trovato l’uomo. L’ho trovato persino in Donato Bilancia, che ha ammazzato 17 persone in 6 mesi. In quanto uomo, io ne ho sempre grande considerazione. Amo l’uomo e il mio sogno è quello di un uomo che riesca a vivere insieme secondo l’umanesimo. Quell’insieme di principi che in ciascun tempo devono essere applicati perché si possa vivere meglio. Amo l’uomo, sogno e so che può vivere in un modo che sia dell’umanesimo. Questo significa rispetto dell’altro, significa far dominare il Noi e non più l’io.
Per quanto riguarda la gioia, la spinta è una visione tragica del tempo presente. Io sono un tragico, non solo perché mi dedico ai casi estremi, non solo perché ho amato i tragici greci fin da piccolo, ma proprio perché la mia percezione tragica si sta espandendo e sta arrivando a previsioni quasi apocalittiche, è allora che ho ritenuto necessario promuovere la gioia, la vita. La gioia è certamente l’elemento fondamentale che io ritengo mancare nel residuo di umanesimo che questa società ha ancora in sé. Perché domina l’io, sostenuto anche dalle psicologie. Con Freud nasce la psicologia dell’Io, e tutti noi che l’abbiamo sostenuta (e per questo c’è persino un po’ di senso di colpa) abbiamo finto che sia possibile parlare dell’uomo singolo, mentre l’uomo è sempre relazione ed è sempre storia. Quindi ho pensato che era tempo di cambiare gli occhiali e di vedere il mondo in modo diverso e qui mi sono appoggiato, da una parte a un grandissimo filosofo come Kant, dall’altra ad un grandissimo psichiatra come Karl Jaspers. Kant ha detto: “il mondo com’è non lo conosciamo però ne percepiamo una rappresentazione” che dipende da quelle categorie a priori che per noi sono la biologia del cervello. Così ho cominciato a illustrare quali sono le caratteristiche del mondo della gioia, di questa visione del mondo e di come si fa a promuoverla. Perché, a differenza dei filosofi della tradizione io sono un operativo, uno che vorrebbe cambiare la storia di un uomo e in fondo questo è lo scopo che ho sempre messo nella mia professione. Mi pare che bisogna guardare il mondo in modo diverso da come ce lo presentano i giornali, i politici. Ormai è consuetudine svegliarci in una visione che è catastrofica e qui si inserisce la mia idea che bisogna cominciare a guardare i Nessuno e non il potere. Io sono contro il potere inteso come verbo “posso e quindi faccio”, mentre sono per la condivisione e quindi per il Noi. Perché io per vivere ho bisogno degli altri. Gli egocentrismi sono una lettura sbagliata. L’io è una finzione rispetto al Noi.

Quindi, come possiamo ‘fare la gioia’?

Bisogna avere la percezione della fragilità. Io sono fragile e in quanto fragile ho bisogno dell’altro. Se ho bisogno dell’altro devo avere verso l’altro un’attesa, una ricerca, devo trovarlo, devo legarmi e questo naturalmente porta a dare maggiore importanza al pronome Noi. Pensiamo al legame di coppia, al legame con i figli, al legame con la comunità, con gli uomini. Se c’è qualcosa di filosofico nel mio pensiero è estremamente semplice, non se ne può più di complicazioni. Pensi alla solitudine del tempo presente, ai vecchi, all’abbandono. Oggi c’è la voglia dell’altro ed è su questo che noi dobbiamo fondarci. Per questo, i miei richiami alla filosofia sono dentro all’umanesimo. Questa è una filosofia che non si distacca nemmeno un istante dall’essere terapeutica. Il De tranquillitate animi (Seneca, ndr) è un’ottima seduta di un buon psichiatra, così come i dialoghi platonici, che sono esempio di una relazione che oggi è fondamento delle psicologie e della psichiatria. I dialoghi platonici ci dicono: “c’è un problema, vediamo di analizzarlo”. Platone non fa esercizi di razionalità, quanto piuttosto di un’arte relazionale per vivere. La filosofia dev’essere insegnamento di vita. Oggi c’è una filosofia da riproporre come “terapia”. Parola educativa e parola terapeutica sono per questo molto affini. Mi meraviglio ancora di come la filosofia sia stata distolta completamente dal contesto della classicità. Io amo la civiltà occidentale e dopo i nichilismi, la filosofia non può essere che una filosofia della vita.

Binswanger affermava che l’oggetto della psichiatria è l’uomo. Egli veniva dal sostrato filosofico della fenomenologia, così come Jaspers e Minkowski.

Essi sono dei filosofi, dei fenomenologi. Lei ha colto un punto importante: l’unione fra filosofia e insegnare vivere, che ha trovato nella fenomenologia un terreno estremamente ricco. Io sono e voglio essere un clinico, però ho avuto la grande fortuna di respirare l’atmosfera fenomenologica e di aver avuto un amico come Minkowski che è stato un grande filosofo e psichiatra.

Qual è quindi il suo rapporto con la psichiatria fenomenologica e quale invece quello con la psicoanalisi?

Debbo fare una premessa: io voglio cambiare l’uomo. Da me vengono persone che stanno male, che desiderano stare meglio e chiedono il mio aiuto. Io sono un operativo e in questo sono un empirico, per questo voglio fare qualsiasi cosa per poter aiutare. Naturalmente non mi propongo mai, ma quando interpellato cerco di rispondere sempre. La fenomenologia è una filosofia straordinaria. Io ho conosciuto dei fenomenologi, per esempio Cargnello, che avevano anche responsabilità di cura. Le posso dire che con la fenomenologia non è facile curare perché è troppo lontana dalla clinica che è empirica, mentre la fenomenologia è molto teorica. Molti mi dicono che sono un fenomenologo, ma io sono un clinico, un empirico, uno che vuole far star meglio, uno che vuole essere-con per far star meglio colui che gli sta vicino. Le mie radici sono nella fenomenologia, ma le mani vanno in una disciplina scientifica, perché ho bisogno di strumenti per agire.
Per quanto riguarda la psicoanalisi è inutile che stiamo a discutere l’importanza di Freud e il suo apporto storico. Ma sono molto critico rispetto alla psicologia dell’Io. Il principio freudiano per cui se una persona presenta delle anomalie occorre trovare la radice dentro di lui… beh su questa convinzione sono molto critico perché l’io è una finzione, mentre credo nel Noi. Se colui che ha i conflitti, invece di guardarlo solo dentro lo metto in relazione con un’altra persona, questi in relazione cambia.
Io sono un clinico che ha bisogno della scienza (mi sono dedicato per molti anni in laboratorio allo studio del cervello). Sono un clinico tradizionale però con strumenti attuali. Mi spiace dover dire che di clinici oggi non ce ne sono più e per questo la psichiatria è in una crisi spaventosa. Ma oggi bisogna aiutare l’uomo. Un valido ausilio a questo può venirci da un filosofo come Schopenauer che nell’Ottocento ha capito cose molto utili anche all’uomo d’oggi, nella crisi del tempo presente.

Qual è il suo parere su Franco Basaglia?

È molto semplice. Basaglia è sicuramente un uomo della storia. Non ho simpatia per tutti quelli che ne fanno un uomo del presente. Nella storia ha un significato preciso e storicamente apprezzabile. Ho conosciuto molto bene Basaglia. Non sono mai andato in piazza per lui, ma l’ho sempre rispettato. Da lui nasce lo stimolo per una legge (legge 180, ndr) che io ho seguito. Il primo ottobre 1980, giorno in cui venivano chiusi i manicomi, cioè non vi entrava più nessuno, io ho lasciato il manicomio dove in fondo ero un personaggio di significato e sono andato rispettando la legge 180. Basaglia, essendo un grande trascinatore, ha messo in moto un movimento che ha contribuito a dare una svolta alla psichiatria, anche se è stato più nel chiudere senza sapere cosa aprire. Nel mio libro Un secolo di follia (1991) a Basaglia ho dedicato quindici righe perché io credo nella psichiatria scientifica. Credo nel come si debba fare la psichiatria, credo quindi nella scienza. Per esempio, Cesare Lombroso oggi non è accettabile, ma storicamente è un grandissimo autore. È un uomo della storia. Perché dicendo che il matto, il criminale, ha una degenerazione cerebrale ha allontanato gli spiriti del male. La donna delinquente (saggio di Lombroso, ndr) è certamente un libro che oggi va condannato, ma che storicamente ha allontanato questa dominanza del male e poi fino ad allora il cervello non lo studiava nessuno, perché c’era l’anima da qualche parte, mentre lui ha detto che tutto va riportato al cervello. Oggi sembra ridicolo perché è noto, però storicamente è stato importante. Nell’ambito della psichiatria scientifica, con radici nell’umanesimo e nella fenomenologia, Basaglia non ha tanto spazio, però storicamente è stato il protagonista di un mutamento storicamente utile. Quindi merita alcune righe nella storia.

Qual è il suo rapporto con la religione e in particolare con il Cristianesimo? Secondo lei la vita può avere un senso al di là della fede in Dio?

Il tema della religione meriterebbe un ampio spazio di riflessione e dialogo. Vi sono due punti di riferimento circa le mie considerazioni in merito. Primo: il libro Il sacro di Rudolf Otto, del 1917, il quale dice che nell’uomo, oltre alle categorie della razionalità, ci sono delle categorie per quello che è il mistero, il sacro. Tutti gli uomini hanno le categorie per percepire il sacro, che è mistero, senso del limite, tutto ciò che si lega alla morte. Otto dice che il religioso è la risposta che si tende a dare del sacro. Il sacro avverte il mistero della morte, la religione dice che invece c’è il paradiso, o il Nirvana, o le metempsicosi, o il nulla. Io credo veramente che esista il sacro e che le religioni siano dei tentativi di risposta.
Il secondo pilastro è la figura di Gesù di Nazareth. Indubbiamente tra i grandi della storia e forse il più grande uomo che io conosca storicamente, persino più di Socrate, Platone, Montaigne. Io l’ho studiato come uomo e l’ho trovato grande come tale. Se poi c’è qualcuno che dice che è anche Dio, sarà ancora di più. Ma io mi occupo di uomini… e certamente lo ascolterei.
Altro punto di riferimento è la Chiesa, della quale non amo il culto e non condivido diverse espressioni, ma della quale ho comprensione. La Chiesa è una struttura molto umana che si è attaccata a Gesù e che penso a Gesù non piaccia molto. L’immagine e l’esempio di Papa Francesco mi piacciono. Amo molto i preti ai quali ho dedicato molta attenzione.
Io sono un non credente nel significato che dice che non ho l’esperienza di Dio, che non l’ho mai incontrato. Se Dio venisse a trovarmi, dopo aver fatto le debite ricerche, certamente la mia vita cambierebbe, probabilmente diventerei un credente. Non sono ateo e ho rispetto per quelli che credono (anche questo fa parte del Noi). Sono un non credente, ma pronto a credere se avessi l’esperienza di Dio.

Alessandro Tonon

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Mawlid al-Nabi, Natale e Hannukkah: buone feste!

Quest’anno, una volta tanto, sono arrivate le feste senza che partisse la solita, noiosa polemica sui presepi a scuola, sulle feste comandate, sugli uffici pubblici chiusi. Una volta tanto, insomma, ci sono cose più importanti di cui discutere, e tra crisi di governo nostrane e attentati internazionali parrebbe proprio così.

Anche nella crisi, soprattutto nella crisi, il periodo delle festività invernali rappresenta però un’occasione unica e necessaria di rientrare in sé, di riscoprire la dimensione del sacer, di coltivare relazioni, di dedicare almeno per qualche giorno tempo ed energia ad una spiritualità che non sia quella del dio dell’efficienza, del guadagno e del consumo. Un’occasione anche, e pare paradossale in un momento di forte divisione e di muri resi ancora più alti da quanto accaduto a Berlino e Zurigo, di riscoprire unità e comunione con chi vive forme diverse di spiritualità, appartiene ad altre religioni, professa altri credo. Il mese di dicembre, infatti, raccoglie alcune tra le feste più sacre di un gran numero di religioni differenti, in primo luogo delle tre abramitiche.

Per la religione ebraica, dal 25 al 31 dicembre si festeggeranno i giorni dell’Hannukkah, la Festa delle Luci. La festività, pur se non tra le più importanti del calendario rabbinico, ricorda un momento di forte unità culturale e nazionale per il popolo d’Israele, la vittoria della rivolta guidata da Mattatia contro i Seleucidi, che avevano conquistato Gerusalemme ed avevano proibito il culto ebraico. In origine le luci cui si riferisce la festa erano quelle del nuovo altare consacrato nel Tempio a memoria della vittoria, un segno tangibile della reistituzione del culto rabbinico, ma con gli anni il simbolismo ha prevalso, si festeggia la vittoria della luce sulle tenebre accendendo candele, si coltivano le relazioni familiari, si fa festa con balli e canti tradizionali.

Per la maggior parte dei cristiani (gli ortodossi festeggeranno a gennaio), il 25 dicembre è ovviamente Natale, commemorazione del mistero centrale del cristianesimo, la nascita di Gesù a Betlemme che segna il momento in cui Dio si fa Uomo, l’infinito scende nel finito, l’eterno entra nel tempo. Sorvolando sul fatto che con ogni probabilità Cristo è nato in tutt’altro periodo dell’anno, il Natale è sempre stato un’occasione di riunione e di incontro, nelle comunità e nelle famiglie. Non troppo recentemente, la seconda festa più importante del cristianesimo dopo la Pasqua si è ridotta ad un lucrativo business fatto di luci e regali, il trionfo del consumismo che campeggia dove invece si ricorda la semplicità e l’umiltà di un Dio che si fa povero, senzatetto e profugo: un paradosso che è necessario superare per riscoprire il senso vero della festa.

Lo scorso 12 dicembre, infine, moltissimi musulmani hanno festeggiato il Mawlid al-Nabi, la memoria della nascita del Profeta Muhammad. Non per tutto l’islam il Mawlid al-Nabi, o i Mawlid in generale (ogni ricorrenza della nascita di grandi personalità, di solito santi), è considerato una festività, dato che per alcune scuole di pensiero come la salafita festeggiare una creatura, sia pure il Profeta, sarebbe una mancanza di rispetto verso il Creatore; la tradizione popolare ha però perlopiù avuto la meglio sui divieti teologici, e il Mawlid è occasione di grandi celebrazioni in molte parti del mondo, un segno di gratitudine verso l’uomo che seguendo la volontà di Dio ha unificato la Umma (la comunità dei credenti) e ha indicato la via per il Paradiso.

Tutte e tre le religioni abramitiche, nel celebrare la propria identità, durante le festività di dicembre richiamano all’unione, all’incontro, alla riscoperta non solo e non tanto di tradizioni, quanto di relazioni e momenti di comunione. Anche e soprattutto alla luce dei recenti fatti di cronaca, sarebbe opportuno ascoltarle, meglio se lontani dal delirio consumistico e fagocitante della logica dell’Occidente capitalistico.

Buone feste a tutti, quindi. Ma proprio a tutti.

 

Giacomo Mininni

 

[Immagine tratta da The Friday Times]

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Siamo noi il cambiamento

Oggi è un giorno come tanti altri, un giorno in cui, tramite vari canali di comunicazione, mi è giunta all’orecchio una notizia orribile e disarmante. Ormai al mattino ci svegliamo e subito ci raggiunge l’eco di un orrore perpetratosi in qualche parte del mondo prima ancora di sederci al tavolo della colazione.
Molte volte mi sono detta “Non parlare di queste cose”: ho l’impressione che se ne dica sempre troppo e che invece ci raccogliamo in rispettoso silenzio sempre meno. Però queste notizie ci smuovono completamente dentro, fanno nascere in noi ogni volta un turbinio di pensieri e ne soffriamo – ci toccano da vicino. L’indifferenza totale è impossibile, anche la loro stessa quantità, in realtà, ci cambia. E quindi io sento il bisogno di lanciare un qualche messaggio positivo in mezzo alla catastrofe.

Cominciamo dalla terribile e terribilmente ovvia verità: ogni giorno, in ogni minuto, da qualche parte del mondo è in corso una guerra, c’è un attacco terroristico, delle persone vengono orribilmente sfruttate, dei bambini vengono privati della loro innocenza, tonnellate di cibo oggetti e risorse vengono sprecate e distrutte, degli animali soffrono e soccombono sotto l’implacabile, sconvolgente noncuranza dell’uomo, il Portatore di Distruzione che non guarda in faccia nessuno.
Di fronte a tutto ciò, qualcuno si rifugia nella fede: Dio ci salverà, Allah provvederà, tutto ha una spiegazione nel disegno provvidenziale; altri invece la fede la perdono, e guardano piuttosto ai potenti non-divini, i grandi magnati, i politici, i quali però rispondono con infinite parole, infinitamente retoriche – e non è nemmeno colpa loro, perché come si può dire qualcosa di veramente utile oltre all’ovvio? L’unica risposta sarebbe l’azione: dovrebbero fare qualcosa, mettersi d’accordo, decidere che ormai davvero basta, che davvero siamo al limite, che davvero ci stiamo autodistruggendo. Sanno di dover fare ma non riescono a fare molto. E noi raccogliamo la nostra frustrazione. A chi rivolgersi, a questo punto?

Risposta: a noi stessi. Basta cercare scuse, basta guardare altrove. Pensiamo di non fare la differenza? Eppure il mondo è fatto di persone, perciò se ciascuno facesse quello che può, secondo la sua coscienza ed i suoi mezzi…
È un po’ come andare a votare: non è che siccome il mio voto è solo uno devo smettere di usarlo, pensando che non serva a niente. Certo, questa faccenda è un po’ più complicata rispetto al porre una croce su di un foglio: decidere di agire in prima persona per migliorare prima di tutto noi stessi e di conseguenza anche il mondo, comporta un po’ di fatica. Innanzitutto, bisogna informarsi: qui e oggi abbiamo a disposizione ogni mezzo di comunicazione e di informazione possibile e immaginabile, tutte le notizie e verità del mondo nel palmo di una mano, dunque è nostro dovere (se non altro morale) non sprecare questa gigantesca opportunità. In seconda battuta, si analizza la situazione: “Che cosa posso fare io nel mio piccolo?”. Trovata la prima risposta la si mette in pratica, sopportando una fatica mentale (devo farlo, devo pensare che è davvero utile farlo) e anche fisica (cambiare le proprie abitudini e stili di vita). Poi arriva la soddisfazione: non ho aspettato che il cambiamento piombasse dal cielo (o dalla politica), sono io il cambiamento. Sto facendo qualcosa di buono. E sei così contento che ricominci il processo: “Cos’altro posso fare io nel mio piccolo?”.

«Sii tu il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo»¹.

Non so se ciascuno di noi nasca con uno scopo preciso (è una delle cose che continuo a chiedermi), però penso che veniamo tutti al mondo per perseguire lo stesso obiettivo morale. «Ama il tuo prossimo come te stesso»², «Nessuno di voi è un credente fino a quando non desidera per il suo fratello quello che desidera per se stesso»³, «Quello che tu stesso non desideri, non farlo neppure agli altri uomini»: ce lo insegnano le religioni, nonché le istituzioni, ma anche il buonsenso. Solo che dobbiamo ampliare il raggio d’azione agli sconosciuti, agli animali, al mondo naturale, al pianeta intero. Ogni giorno. Nel nostro piccolo. Perché in questo caso, anche non fare è un’azione (non evitare lo spreco, non difendere un’offesa, voltarsi dall’altra parte…), e comporta delle conseguenze.

«If you want to make the world a better place, take a look at yourself and make that change».

Tutti noi – possiamo – fare – qualcosa. Mettiamocelo in testa. Basta scuse. Basta frustrazione. Seminiamo positività, comprensione, coraggio; seminiamo amore. Insegniamoci l’un l’altro a non odiarci, che è sbagliato farci del male vicendevolmente. Non smettiamo di aggrapparci alla nostra umanità. Non cerchiamo risposte altrove – le risposte sono dentro di noi.

«Ero intelligente e volevo cambiare il mondo, ora sono saggio e voglio cambiare me stesso».

 

Giorgia Favero

 

NOTE:
1. Frase attribuita al Mahatma Gandhi;
2. Cristianesimo ed ebraismo (Levitico 19,18);
3. Islam (Hadith 13);
4. Confucianesimo (Dialoghi 15,23). Potrebbe sorprendervi sapere quanti testi sacri e di quante religioni riportano lo stesso concetto con parole più o meno diverse;
5. Michael Jackson – Man in the mirror : sì, se ne parla anche nella musica pop!;
6. Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama.

 

[Immagine tratta da Google Immagini]