Marx e la finanza tra fragilità, contraddizioni e ipocrisia

Qual è il rapporto tra l’economia reale – il luogo natale di tutti noi, dove è possibile vivere in società – e la finanza? E quest’ultima cosa ha a che fare con Karl Marx?

Un pensatore che con le sue opere di tutto ha parlato e ogni cosa ha criticato del proprio tempo. Un uomo che ancora oggi viene ricordato, essendo stato capace con la sua perspicacia di rivoluzionare, o quanto meno di cambiare, non solo la filosofia ma il nostro modo di stare al mondo. Seppur infatti le istanze economiche, come la forza lavoro, furono fortemente criticate dagli economisti con l’accusa di essere infondate, nella politica – senza intenzione – rappresentò uno spartiacque tanto forte che fu fondato in suo “nome” un partito, protagonista sulla scena politica fino alla fine del secolo scorso.

Marx è indubbiamente un simbolo, un’icona ancora ingombrante nel nostro tempo. Nonostante siano passati duecento anni dalla sua nascita, il suo nome è sinonimo di garanzia e affidabilità, almeno per chi ne sostiene fermamente le idee pratico-filosofiche. La sua barba è usata ovunque e se ne avesse i diritti d’autore oggi forse sarebbe più ricco di Bill Gates.

Ma la finanza è un altro mondo, spietato e apatico. Non c’è tempo per filosofeggiare e anche se piace pensare che non abbia alcuna influenza sulla nostra vita le dinamiche sono altre. Se la Borsa sale, infatti, non ci sono grandi effetti sull’economia – prova ne sono i salari medi rimasti eguali a trent’anni fa, nonostante i mercati finanziari abbiano toccato i loro massimi storici. Eppure, se crollassero l’economia ne patirebbe gli effetti, come avvenne nel 2008. 

Un nesso perverso che molti economisti hanno cercato di indagare.

Keynes, ad esempio, tra i maggiori economisti del ‘900, mette in evidenza come le quotazioni di un’azienda siano legate non tanto alla realtà effettiva dei bilanci o alla crescita materiale della stessa, ma alla storia che riesce a raccontare. L’immagine e il logo riconosciuti socialmente ne rappresentano il fulcro e se esse si tramutassero in montature troppo sovrastimate nascerebbe il cosiddetto “effetto bolla” con il conseguente crollo vertiginoso. Casi realmente accaduti, come nel 2000 con l’apparato tecnologico o l’anno scorso per i Bitcoin. Una realtà parallela, poco incline alla vita reale.

Friedman – altro economista novecentesco – dal canto suo sostenne come l’azionista possegga l’azienda e non gli operai che la fanno progredita o i dirigenti che la guidano. Tutto si limita nell’azione di vendita e compravendita tra investitori, miliardi di operazioni distinte al giorno, in tutto il mondo, da Shangai a Francoforte, passando per New York e Hong Kong.

Nonostante ciò, il meccanismo risulta genuino alla radice: semplificando un po’, inizia con un IPO (offerta pubblica iniziale), gli investitori che ci credono comprano e l’imprenditore in questo modo ottiene maggiore profitto per ampliare la propria azienda e per assumere nuovo personale. Le cose iniziano a complicarsi quando gli stessi vendono ad altri investitori a prezzo maggiorato per poterci guadagnare e le quotazioni cominciato ad assumere vita propria, non più curanti del fine iniziale. Il resto è storia.

Nonostante sia vissuto nella metà dell’Ottocento, quando la finanza appena camminava, Marx cercò di delinearne gli effetti. Oggi lo potremmo criticare per la previsione fallace di un capitalismo destinato all’auto-implosione, anche se alcuni ancora ci sperano; oppure per le radicali posizioni riguardanti una storia ancora da iniziare e una divisione sociale da fare invidia a Platone. Ma a sorpresa, sul sistema finanziario, ha ancora voce in capitolo.

Nel terzo libro del Capitale scrive:

«Esso riproduce una nuova aristocrazia finanziaria, una nuova categoria di parassiti nella forza di escogitatori di progetti, di fondatori e di direttori semplicemente nominali; tutto un sistema di frodi e di imbrogli relativi alle fondazioni, alle emissioni di azioni e al commercio di azioni»1.

Il filosofo descrive come, con il sistema in esame, si crei un nuovo transito: da una società industriale a quella propriamente finanziaria, da una ricchezza produttiva e imprenditoriale a quella parassitaria dei finanzieri. Non si potrà parlare più di lavoro ma di sola rendita, con il conseguente dissolvimento della classe media. Anche la proprietà privata dei singoli produttori verrà a svanire e assisteremmo all’annullamento dell’industria privata capitalistica.

L’aspetto curioso è come Karl Marx sia stato molto duro nei confronti degli imprenditori – detti capitalisti – e allo stesso tempo idealizzi un loro dissolvimento, rendendo la situazione economico-sociale ancora più drammatica. Non gli bastava delineare il mondo nella sua corruttibilità, ma volle persino prevederne la totale venalità. Un circolo vizioso di collassi e rinascite che costituiscono il paradigma caratteristico del capitalismo e che le innumerevoli crisi che dal 1637 – anno della speculazione dei tulipani – passando per il 1797, 1819, ’57, ’84, 1901, ’29, ’74, ’87, si sono susseguite fino all’ultima di dieci anni orsono, e che ne cementificano l’indistruttibilità.

Londra, città che per anni lo ospitò e dove redasse le sue principali opere, fu la culla di questo modo di valutare e vivere il mondo, progenitore dell’economia contemporanea. La tentazione, all’interno di questo magma incandescente, fece scottare pure colui che ci viene raccontato come il puritano, l’intollerabile, l’ultimo difensore della genuinità umana. Infatti Marx cercò di mantenere un tenore di vita borghese, pagando le lezioni di danza alle figlie, e ammise di aver addirittura speculato in alcune occasioni in Borsa.

Sembra quasi, paragonando il suo lavoro filosofico con la vita pratica, che Marx volesse dirci indirettamente: questa realtà così come si prospetta è impura, l’uomo ha intrapreso una strada sbagliata, l’alienazione deve essere risolta, il lavoro – come anche il suo prodotto – ricondotto alla nostra essenza di uomini e che i mezzi di produzione debbano appartenere a tutti liberamente, non solo a un gruppetto di individui. Comunque sia siamo uomini, deboli e spesso prigionieri dei nostri bisogni, e chiudere un occhio talora per distrarci dalla nostra contraddittorietà risulta necessario, nonostante possa indurci o trascinarci nell’ipocrisia.

 

Simone Pederzolli

 

[Photo credit M. B. M.]

Il senso e la sofferenza nel mondo moderno

<p>Blocking the sunset on a perfect afternoon</p>

Nietzsche, ne La genealogia della morale, ha posto le basi per una interpretazione del senso che l’uomo ha dato alla propria esistenza: nella terza dissertazione, precisamente il primo e l’ultimo paragrafo, viene ribadito come l’umanità attraverso l’affermazione, l’accettazione e la propagazione degli ideali ascetici, abbia voluto dare un senso, quello del nulla, piuttosto che il non volere.

Nel paragrafo sette della seconda, invece, spiega come l’uomo, attraverso la spettacolarizzazione delle proprie sofferenze, grazie all’invenzione degli dèi-spettatori, ha dato così un senso alle proprie pene: il soffrire che deriva dall’esistenza stessa, si ricordi il mito di Silone ne La nascita della tragedia, non sarebbe sopportabile per l’umanità, proprio perché la sofferenza stessa non ha alcun senso e proprio per questo si deve darne uno, fingendo che ci sia qualcuno a osservarci.
Inoltre, la religione greca, l’unica che per Nietzsche non colpevolizza l’uomo, cioè non indirizzando il dolore verso se stesso, ha il pregio di indirizzare la colpa del destino umano e delle sventure verso l’esterno, cioè verso gli dèi, invece che praticare quella interiorizzazione che diverrà propria del cristianesimo, sulla scia dell’ebraismo, il popolo del ressentiment.

Sulla stessa scia si pone un altro autore, un antropologo romeno: Mircea Eliade. Nel suo saggio degli anni ’40, Il mito dell’eterno ritorno, lo studioso descrive come la ciclicità delle azioni e del tempo sia stata presente nella nostra specie fin dai primordi, prolungandosi fino al cristianesimo e operando tuttora nella liturgia che si esegue ogni domenica. Questa ripetizione di archetipi, di gesti che sono stati compiuti da eroi illo tempore, non è altro che lo strumento di difesa, la barriera, che l’uomo ha innalzato di contro a una esistenza che, come abbiamo detto con Nietzsche, non ha alcun senso. La ripetizione, il continuo rinnovarsi nella cosmologia, l’eterno ritorno dell’anno non è altro che la realtà che si riempe di senso. La sofferenza, se sopportata dagli eroi illo tempore, diviene meno crudele e l’esistenza può sembrare meno dura agli occhi di chi la vive ogni giorno. Solo gli ebrei, la classe sacerdotale, secondo Eliade, ha posto fine alla ciclicità, immettendo nel tempo la divinità e fissando il senso dell’esistenza nel futuro, con l’avvento del Messia.

Oggi, qualcosa è cambiato? Come si esprime il senso? Come viene giustificata la sofferenza umana?

Gli eventi recenti non danno molto spazio per una risposta positiva ai quesiti: la sofferenza umana, semplicemente sembra non avere più nessuna giustificazione. Da cosa deriva questo assunto così netto?

Il terrorismo, la crisi economica, la caduta dei valori religiosi e politici, quindi la crisi delle istituzioni, hanno fatto sì che la diffidenza, il dubbio si insinui sempre più all’interno dell’agire umano.
L’ultimo esempio è la grave decrescita di vaccinazioni, con il relativo dissenso verso la scienza, la quale è stata finora uno dei capisaldi della società umana. A questa teoria anti-vax se ne collegano altre che mettono in scena una vera e propria presa di distanza dal Potere, in ogni sua forma, il cosiddetto “pensare altrimenti”, di cui ultimamente Fusaro ha scritto.

Cosa significano queste teorie “complottiste”, come sono viste da molti? Esse tracciano il profilo di un nuovo modo di pensare la realtà che pone il dubbio come principio primo, arrivando a identificare il colpevole della sofferenza umana una entità indistinta, denominata “Poteri forti”.

Così, quello che Nietzsche aveva descritto come un fenomeno di introiezione, cioè l’uomo è arrivato a dare all’uomo la colpa di ogni sofferenza, ora, vi è un processo inverso: il colpevole è un essere altro, una entità quasi sovramondana ma che agisce e opera nel mondo.
Si potrebbe pensare che questo assomigli quasi all’attribuire la colpa a un dio, ebbene non è così, infatti, mentre il dio è spettatore delle nostre sofferenze e non agisce perché confinato a una età mitica di cui ci restano solo le gesta e i racconti, questo tipo di entità nuovo è assolutamente neutro: non aspira a nessuna verità, non pone alcun obbligo, non interagisce con l’uomo. È assolutamente intangibile, invisibile e indescrivibile.
La tendenza dell’uomo di voler trovare un senso alla propria sofferenza sta lentamente cozzando contro la consapevolezza che non esiste alcuna giustificazione alle scelte umane, che non sono guidate da nessun fine se non affermare la propria esistenza, assicurandola all’idea di una momentanea sopravvivenza immortale, manifestata attraverso la ricchezza e lo status sociale.
La situazione della nostra civiltà, attraverso la perdita di qualsiasi senso, sembra quasi votata all’autodistruzione e all’implosione, nella mera ricerca di sopravvivere, come un Macbeth che sfida, stremato ma ostinato, il proprio destino che egli stesso ha contribuito a costruire.

 

Edoardo Poli

Nato a Velletri il 14 febbraio 1996, mi sono diplomato al Campus dei Licei “Massimiliano Ramadù”, ad indirizzo scientifico.
Vivo e studio a Pisa presso la Facoltà di Filosofia dell’Università di Pisa. Ho pubblicato un libro di poesie nel 2015, attualmente scrivo per altre riviste, tra cui “Artspecialday” e “Momus”; fortemente interessato ad argomenti sia scientifici che umanistici, secondo quella unificazione della cultura umanistica e scientifica, tipica dell’approccio complesso.

FIDUCIA COME CURA DELLA PAURA

Il nostro mondo è stato sconvolto dalla crisi economica che ha avuto inizio nel 2008, una crisi che è ben presto diventata anche una crisi valoriale, il panorama dei fenomeni che disgregano la comunità è radicalmente cambiato. I mezzi di comunicazione ci informano ogni giorno che se da un lato gli omicidi e le grandi rapine sembrano in diminuzione dall’altro si registra un aumento dei furti, scippi e altre aggressioni di relativa scarsa entità, che provocano però malessere e diffidenza diffusi. Se l’avvenimento doloso, come ad esempio un furto in appartamento, colpisce qualcuno di distante si riesce con facilità a relativizzare, ma quando riguarda noi ci investe profondamente, quando lo scippo viene perpetrato nel nostro quartiere, quando colpisce la nostra vicina di casa o un nostro parente ci sentiamo coinvolti in prima persona e ci spinge all’attivazione di misure difensive molto spesso sproporzionate rispetto alla minaccia. Pur essendomi sempre ritenuto molto di sinistra, molto incline a dare fiducia al prossimo e tendenzialmente restio a farmi prendere dai pregiudizi quando uno sconosciuto un po’ trasandato, magari anche di colore, mi si avvicina alla stazione ferroviaria mi metto già sulla difensiva, è qualcosa di istintivo che provo a mitigare con la razionalità, ma che mi vede comunque chiuso rispetto all’altro o prevenuto. Tutte le volte che qualche persona mi si avvicina magari con un aspetto un po’ trascurato devo fare appello a tutta la mia razionalità per provare ad analizzare la situazione, eppure nel passato quando mi è capitato davvero di essere stato rapinato o minacciato da qualche balordo ho sempre pensato che si trattasse di una eccezione, che in realtà gli esseri umani sono fatti per aiutare gli altri e non per danneggiarli.

Bisognerebbe pensare alla dimensione educativa delle persone a cui siamo stati sottoposti tutti fin dall’inizio della nostra vita, soprattutto nell’ambiente familiare. Che cosa insegniamo ai bambini circa i rapporti con il mondo esterno? A fidarsi di tutti o a non fidarsi di nessuno? O a fidarsi solo di chi si conosce? Quante volte vi hanno detto di non accettare caramelle dagli “sconosciuti”? L’educazione ci insegna a diffidare degli “sconosciuti”. Perché abbiamo così paura di correre il rischio di essere delusi pur di sperimentare nuovi rapporti?

Ogni tanto faccio una passeggiata in un parco vicino a casa, mi godo qualche pomeriggio di sole fumando una sigaretta su una panchina e osservando le persone che passano, tra la moltitudine di persone in cui ci si imbatte ci sono ovviamente anche genitori con bambini. Di recente ho assistito a una scena molto significativa. La scena vede protagonista un bambino piccolo, forse di tre anni, che corre intorno a una fontana stringendo con fierezza un robot colorato, sotto gli occhi attenti di una giovane madre seduta su una panchina poco distante dalla mia. Il bambino a un certo punto si orienta verso i giochi per bambini diretto alla scaletta di uno scivolo, nella sua corsa abbandona il giocattolo a terra poco distante dalla madre. Questa, messasi subito in allarme poiché aveva avvistato l’avvicinarsi guardingo di un altro bambino, avvisa immediatamente il figlio della minaccia “Giulio, guarda che così te lo rubano!”. Mi ha fatto pena Giulio, così piccolo e già così gravato dalle incombenze della proprietà. Un finale triste per questa scena. Quanto sarebbe stato bello se la mamma di Giulio avesse lasciato l’altro bambino godere del giocattolo e fosse intervenuta solo se Giulio avesse mostrato il desiderio di riappropriarsene? Ancora meglio: quanto sarebbe stato bello che la mamma di Giulio avesse incoraggiato il bambino a condividere il robot giocattolo con il nuovo amichetto? Quanto sarebbe stato bello sentirle pronunciare non un monito, ma un bel “Perché non giocate insieme?”.

La fine della società intesa come comunità di pari inizia il suo declino quando il primo uomo pronunciò: Questo è mio! L’inizio della comunità e l’avvento del capitalismo

Friedrich Engels

Da Aristotele a Engels, ma anche recenti studi psicologici ci indicano che i comportamenti altruistici sono sostanzialmente innati, come del resto la natura cooperativa degli esseri umani. Sono iscritti nel nostro DNA e tale indole compare in età molto precoce.

L’uomo è un animale sociale

Aristotele

Ciò non esclude che possano esistere altri comportamenti di tipo egoistico di natura innata che rispondono al bisogno di autoconservazione, di autoaffermazione e di possesso. Si tratta di due facce della stessa medaglia che costituiscono anche la massima contraddizione degli esseri umani tra ego riferimento e bisogno dell’altro, degli altri. Nel binomio tra Fiducia e Paura è racchiusa tutta la complessità della natura umana e dal loro equilibrio dipenderà il nostro star bene al mondo. Entrambi gli aspetti vengono plasmati dall’educazione. Per quanto riguarda la Fiducia e quindi l’altruismo se alcuni circuiti non vengono attivati in certi momenti critici c’è il rischio che si atrofizzino e che le persone restino imprigionate nell’isolamento dettato dall’ego riferimento. Per la paura e l’egoismo l’educazione dovrà incaricarsi di mettere in atto strategie che limitino l’attivazione di reazioni irrazionali o sproporzionate. Che fatica la Fiducia! Ma ne vale la pena, perché una vita all’insegna dalla Paura e dove prevale la diffidenza forse non vale nemmeno la pena di essere vissuta e può dirsi vivere davvero?

Matteo Montagner

Brian Pallas: Trasformare il pensiero in fatti. 28 anni e una start-up da 100 mln di dollari

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Nel grande periodo di crisi economica e motivazionale che stiamo attraversando, esistono casi in cui la creatività, l’impegno e la passione diventano motore per il successo

È il caso di Brian Pallas, ventottenne milanese laureato in economia alla Cattolica di Milano che dopo aver svolto diversi lavori sceglie il Boston Consulting Group e ottiene la sponsorizzazione tra i giovani più meritevoli dell’azienda per frequentare l’Mba alla Columbia University di New York.

Nel 2014 fonda Opportunity Network, piattaforma dove imprese di diversi Paesi possono pubblicare in forma anonima richieste di partnership, finanziamenti, acquisizioni o vendita. Oggi conta più di 3000 aziende in 75 paesi diversi.

1) Una vita inusuale per un giovane 27enne, vissuta tra Milano e New York. Brian Pallas si sente diverso dai suoi coetanei? Perché?

Non mi sento particolarmente diverso dai miei coetanei e quello che reputo che possa esserci di diverso è parte del percorso che ho intrapreso, perché il mio modo di costruirlo è sempre stato non tanto in vista di un obiettivo specifico ma in vista dell’ampliamento del numero di opzioni.

Anche in filosofia c’è il concetto dei “gradi di libertà”, quindi all’aumentare del grado di libertà dell’individuo si ha la possibilità di andare ad ottenere risultati più difformi dallo standard. La mia filosofia di base come individuo, prima ancora che come imprenditore (questa era una delle varie opzioni), è stata quella di tenermi aperte sempre più strade possibili, quindi ho sempre scelto una scuola piuttosto che un’altra, un primo lavoro come consulente, proprio per ampliare la gamma di opzioni a mia disposizione.

E anche l’ulteriore scelta con l’Mba è servita per continuare ad ampliare il mio range opzionale, perché ritengo che, piuttosto che andare a specializzarsi e settorializzarsi, restringendo le proprie possibilità in maniera specifica, occorre avere non solo un piano per andare avanti ma anche un piano B, uno C e uno D, anche all’interno della stessa cosa che si sta facendo; ovviamente questo richiede più tempo e più sforzo ma ti permette di utilizzare il valore dell’opzione e un grado di libertà superiore.

2) Pensi che una caratteristica di un giovane ragazzo di adesso sia quella di essere flessibile?

Assolutamente sì.

È una questione di flessibilità personale. Spesso quando si dice flessibile la gente tende a pensare alla questione di accettare un lavoro non pagato o di piegarsi ad esigenze esterne. Per me essere flessibile significa non legarsi ad un’identità, un esoscheletro che ti viene posto attorno dalla società ma tenersi con quel minimo di fluidità necessaria per poter indossare la veste necessaria per arrivare a cogliere l’opportunità migliore, perché ogni scelta deriva da una funzione di due principali caratteristiche:

1-la numerosità delle alternative a disposizione

2-la capacita previsionale dell’outcome di ogni alternativa

Il che significa che se sai che hai cinque alternative e sai che risultati esse portino sai cosa scegliere e quella che farai sarà una scelta razionale, quindi qual è il problema? Semplice, si lavora su due elementi che sono incompleti perché:

2- conoscere il risultato della propria scelta in anticipo è difficile, è dettato dall’intelligenza e dalla capacità previsionale, la quale è una funzione di esperienza, dunque sono cose che un po’ vengono innate un po’ si possono costruire;

1- la numerosità delle scelte è sì funzione della tua immaginazione e della tua capacità di vederle ma anche del track record, di ciò che hai costruito prima.

Da questo punto di vista la flessibilità nel proprio percorso deve servire per ampliare il numero di scelte a disposizione per poter avere un numero maggiore di opzioni tra cui prendere e successivamente, posto che si riesca a giudicare gli outcome possibili di queste scelte, ‘efficientare’ le propria decisione per avvicinarsi ad un paradigma di ottimalità.

3) Lei ha avuto l’IDEA. Secondo lei le idee vincenti in generale, nel panorama contemporaneo, sono da concepirsi come frutto dell’Intelletto, quindi autonome perché al di sopra di tutto e “piovute dal cielo” o sono piuttosto frutto della ragione, perciò “costruite”, quindi a partire da dati elementi si costruisce l’idea vincente?

Il concetto di vincente si considera relativo ad un contesto e un’idea è vincente tanto quanto va a servire l’utilità di qualcuno. Alla fine gli esseri umani reagiscono secondo funzioni di utilità e se qualcosa non va ad aggiungere utilità a qualcuno non è da considerarsi vincente.

Se si guarda l’intero problema da questa prospettiva, la questione non è da focalizzare sull’idea quando sull’utilità che viene generata; quest’ultima, a mio avviso, è qualcosa di inerente alla struttura sociale del tessuto economico di un paese, quindi al sistema di incentivi che sono coerentemente in essere, mentre l’idea è semplicemente vedere come andare a muovere questa funzione di incentivi in un modo che aggiunga valore a tutte le parti in causa. Da questo punto di vista c’è un momento di creatività nell’intuire come questa aggiunta di valore possa essere fatta modificando un sistema complesso, eppure non è niente di creativo di per sé perché non porta alla creazione di niente di nuovo, è semplicemente una nuova interazione con elementi preesistenti.

4) Dall’idea al progetto alla Start Up: un percorso che sembra essere il comune denominatore delle nuove imprese. Eppure tante cadono già alla seconda fase o poco dopo l’avvio. Solo sfortuna o mancanza di quel “quid” che aiuti a superare le difficoltà?

Dal mio punto di vista il mondo è pieno di ottime idee e la mia stessa idea sono sicuro che sarà venuta a mille persone prima di me, anche perché siamo sette miliardi di individui nel mondo e mi sembrerebbe molto anti-statistico il contrario!

Per me, ciò che porta al successo è sempre la parte di pre-execution e questa è data dalla capacità di trasformare il pensiero in fatti.

In un mondo come quello odierno raramente il successo è legato ad un processo trasformativo della materia ma è sempre più legato alla propagazione di un modello in termini concettuali tra individui che tendono ad aderirvi e a farlo crescere con il loro lavoro, il loro capitale e tutto quello che c’è intorno, quindi fondamentalmente, parlando di successo si parla della capacità di propagare un senso dell’utilità generata e di fare in modo che tale utilità venga percepita e abbracciata da tutti i principali stakeholders in maniera sufficientemente forte per superare l’inerzia dal loro stato corrente per arrivare ad uno stato differente, perché è scontato dire che per qualunque cosa si proponga deve esserci un valore di differenzialità tale da portare da uno stato di inerzia ad uno stato di cambiamento.

5) Oggi sentiamo parliamo solamente di incubatori di start-up e acceleratori di impresa. Nati con lo scopo di generare un cambiamento, in Europa attualmente sono elemento di crescita mentre in Italia le cose sembrano essere ben diverse. Nonostante l’Italia abbia il primato per numero di incubatori, ( circa 4 volte di più rispetto a quelli presenti in Germania) il tasso di conversione idea-impresa è molto ridotto nel nostro Paese. ( 9,6% nel 2012) Che cosa contraddistingue gli incubatori americani rispetto a quelli del nostro Paese?

Per me ci sono tre elementi veramente distintivi, rispetto all’estero.

L’elemento che aumenta il funnel (flusso) all’ingresso riguarda la mancanza di alternative per i giovani: se sei giovane e non hai un posto di lavoro solido e remunerativo ti viene da dire “mi metto a fare una start up”, quindi la mancanza di opzioni può implementare le fila della persone sveglie che non hanno trovato un’alternativa sufficiente a giustificare la loro inattività; nello stesso tempo, però, questa mancanza può essere anche un elemento distruttivo, perché più alta è la barriera per andare a fare imprenditoria, più alta è la rinuncia per andare a fare imprenditoria (perché se dici ‘vado a fare l’imprenditore’ e rinunci ad uno stipendio di 500 Euro è un conto, se rinunci ad uno stipendio di 10mila Euro è ben diverso); quindi, se la barriera di costo-opportunità è bassa occorre fare in modo che anche il filtro iniziale sia più basso, cioè anche se un’idea o la capacità di esecuzione non sono fortissime, vale comunque la pena di tentare sempre con decisioni razionali e correttamente prese da parte dell’attore, ricordandosi che se si ha un rapporto costo-opportunità più basso, il rischio di mortalità è più alto.

Il secondo elemento di differenza è il discorso di “apertura”; a ragione o a torto molte persone hanno paura che raccontando la loro idea a qualcuno gliela possano rubare, ma sfugge loro che invece saranno più le persone che le aiuteranno piuttosto che le persone che gliela porteranno via, questo perché se la comunicazione è strutturata in modo efficace, il sistema di incentivi per la persona che guarda da fuori deve essere costruito in modo tale da favorire la collaborazione piuttosto che la competizione e questo fa parte dell’abilità del comunicatore.

Se si riesce a strutturare una cosa di questo genere allora sì che si può accelerare di molto la propria crescita e il proprio sviluppo e fare leva, non solo sulle persone che si conoscono, ma su una rete molto più ampia (che è quello che ha permesso al mio progetto di crescere in modo così rapido) e questa è una cosa molto comune in USA, dove si parte dal presupposto che l’unico modo per fare start up sia proprio urlare la propria idea ai 4 venti e poi stare vedere cosa succede.

Ultimo elemento di differenza è che manca, in Italia, quella cultura, quell’ecosistema di mentorships e di imprenditori di successo che facciano appunto mentorship su giovani che stanno iniziando, aiutandoli a prendere quelle decisioni che sono proprio filosofiche e che stanno alla base dell’azienda e che magari hanno aiutato il loro successo 10, 15 o 20 anni prima.

Quindi la mancanza di questo give back, di una guida di qualcuno che abbia avuto successo e abbia incontrato le stesse difficoltà è veramente un danno per un ecosistema che andrà, quindi, a ripetere gli stessi errori solamente per la mancanza di flusso informativo.

6) Cosa consiglierebbe ad un suo coetaneo con un’idea innovativa tra le mani? A chi rivolgersi?

Quello che suggerirei ad un giovane con un’idea è di provarla sul campo. Alla fine le idee hanno gambe solo se riescono a modificare, in modo positivo, la funzione di utilità di un numero sufficiente di persone da giustificarne l’esistenza e in maniera sufficientemente chiara da portare queste persone a cambiare la loro abitudine, che è sempre molto resistente. Quindi, prima ancora di andare a raccogliere capitali, di scrivere un business plan e di fare qualunque cosa, io suggerisco di provarla in piccolo con le persone accanto a sé, di provare a vedere se funziona nella pratica e di vedere di modificarla sulla base delle esigenze di mercato, perché occorre ricordarsi che nessuna idea nasce giusta, per esempio noi siamo partiti da molto lontano da dove siamo adesso e, senza avere testato testato testato e cambiato molte cose, non saremmo stati in grado di fare niente anche con qualsiasi iniezione di capitale o ammontare di mentorship.

Testate, dunque, sul campo prima di andare a guardare ad acceleratori o quant’altro; una volta che si è testato sul campo e si ha qualcosa che funziona davvero, tendono queste realtà a venire da voi a dirvi “vedo che hai qualcosa che funziona sviluppiamola insieme”.

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7) Opportunity Network, un nuovo strumento al servizio delle aziende che coinvolge più paesi del mondo. Come funziona e perché ha sentito l’esigenza di sviluppare questo network?

Opportunity Network è nato da un’esigenza familiare perché mio padre è un imprenditore e mi sono sempre reso conto che tutto il business arriva sempre da un contatto personale con altri e il che è giusto, però non sempre esso è potenzialmente e sufficientemente trasferibile alla generazioni future, quindi ho pensato che se si fosse creato un network di persone che si potessero fidare le une delle altre, questo avrebbe potuto amplificare la possibilità di mio padre di ricevere non solo dal suo network ma anche dal mio e da molti altri.

Il difficile di questo progetto non era tanto quello di mettere assieme aziende quanto fare in modo che si potessero fidare le une delle altre: per risolvere questo problema di affidabilità, piuttosto che metterci noi a dire se un’azienda fosse buona o cattiva o l’amministratore delegato fosse affidabile o meno, lo abbiamo lasciato dire a chi per centinaia di anni ha fatto dello screen di affidabilità il proprio business model, cioè le banche, perché alla fine sono loro che decidono se dare 50 milioni in affidamento o non darli e quando ci mettono i loro soldi siamo tentati di pensare che sia uno screening piuttosto efficiente.

In questo modo abbiamo iniziato ad utilizzare clienti bancari come proxy di affidabilità e a fare in modo che fossero le banche stesse a portare i loro clienti nella nostra piattaforma. Noi non possiamo dare membership neanche volendo sono i nostri trusted partners a fare proselitismo della nostra piattaforma nella loro rete di utenti e clienti.

8)Dietro ogni progetto c’è una Filosofia, intesa come riflessione accurata su ciò che si va a costruire, sui valori, sui principi etici. Qual è la filosofia di Opportunity Network?

Io quando ho creato quest’azienda avevo delle idee, ma avendo dato vita ad un gruppo di persone non ho voluto essere un padre-padrone che imponeva un’idea o una filosofia su tutti, anzi: quando abbiamo cominciato ad essere un gruppo sufficientemente folto ci siamo seduti tutti insieme intorno ad un tavolo ed abbiamo riflettuto su quali fossero quei valori che davvero sentivamo nostri, così ognuno ha proposto una lista di valori e da queste abbiamo scelto quelli che veramente sentivamo nostri tramite voto anonimo fino ad arrivare a quattro valori che ad oggi guidano ogni nostra scelta che facciamo.

Essi sono:

-TRUST

-PEOPLE FIRST

-SEMPLICITY (facciamo una cosa e facciamola bene)

-SYMBIOSIS: noi invece che entrare come altre start up in un ecosistema e fare disruption, cioè togliere un pezzo da una catena di valori e rimpiazzarlo con qualcosa di economico o più efficiente, entriamo nella catena di valori nutrendo ogni singolo elemento di questa.

Il nostro scopo è proprio quello di non andare a togliere niente a nessuno, ma anzi, di aggiungere, per questo non siamo il nemico naturale di nessuno dei giganti con cui ci andiamo a confrontare ma siamo una parte dell’ecosistema che va a nutrire il tutto.

9) Un’azienda di 30 persone a 28 anni, un’esperienza che sicuramente aiuta a maturare, sviluppando competenze e responsabilità; è qualcosa di anomalo nel nostro Paese, lo è anche negli USA, cioè secondo lei perché in Italia ci si stupisce di giovani che hanno idee come la sua in giovane età?

Dal mio punto di visto il tema del pregiudizio in generale nel senso di ipotesi preconcepita parte dall’ammontare di data point che si ha davanti.  Se io vedo cadere una pallina per cento anni verso il basso a 9.8 m/s in accelerazione, mi aspetto che la pallina continui a cadere sempre in quella direzione! Lo stupore sovviene quando la pallina, invece di cadere, sale, perché ovviamente tanto più qualcosa è anomalo all’interno del sistema, tanto più genera stupore, cioè tanto più è un outlier tanto più stupisce. Pertanto, se in USA ogni mese ci sono 10 nuove start up e ce ne sono già cento milioni, l’undicesima start up non provoca stupore! Se in Italia ce n’è una ogni dieci anni o anche ogni cinque ovviamente questo genera molto più stupore.

Quindi il pregiudizio non è altro che una shortcut che la mente utilizza per andare a derivare una regola generale da qualcosa che ovviamente non è generalizzabile non essendo una legge fisica. Si tratta solo un discorso di unbalance tra probabilità ed effettiva realizzazione, cioè ogni volta che si verifica qualcosa di contrario alla predizione questo porta a stupore e lo stupore è il modo con cui la mente umana riadatta le probabilità.

10) La filosofia in Italia è bistrattata, considerata inutile e cialtrona. Lei cosa pensa di questa materia?

Ci sono, secondo me, due categorie di filosofi.

– Quelli che vedono la filosofia come un metodo, quindi Socrate che adotta il metodo maieutico per ottenere risultati, soluzioni e comportamenti diversi come risposte allo stesso stimolo sulla base di un ragionamento complesso e questa è la filosofia che tendo davvero ad apprezzare perché molti altri filosofi, utilizzando ragionamenti complessi, sono arrivati a risultati davvero contro-intuitivi.

– La filosofia catalogativa, che apprezzo meno, come Aristotele e Hegel che hanno utilizzato la filosofia come una lente per incasellare tutta la realtà in modo, non volto a generare un risultato specifico, ma con l’ottica di fornire una spiegazione razionale a qualunque cosa.

Il primo tipo di filosofia porta ad un impatto vero con la realtà, l’altro porta semplicemente a un sistema che può piacere o meno. Per me vi è una grossa scissione tra le due categorie e da Hegel in poi vedo solo una prosecuzione della seconda tipologia di filosofia, andando a trasformarla in qualcosa che più che filosofia è storia della filosofia.

Io oggi se ripenso al liceo non ho studiato filosofia ma storia della filosofia, quindi il pensiero di altre persone in relazione ad uno specifico problema. La filosofia, come tutto il resto, è un prodotto, un prodotto della mente umana e come tutti deve giustificare un servizio, quindi la propria esistenza tramite la generazione di utilità per gli utenti, perché se non viene prodotta utilità allora si tratta di uno strumento inutile. Quindi la domanda diventa: come la filosofia può aggiungere valore a coloro che la utilizzano?

11) Pensa che la Filosofia, intesa come sviluppo di domande complesse, risposte e soluzioni, possa entrare in azienda come supporto ad ogni area specifica? Perché?

Da noi penso che l’abbia fatto e se ci pensiamo chiunque in un’azienda faccia strategia non è molto lontano dal fare un ragionamento filosofico; semplicemente viene definita strategia perché il ‘filosofo dell’azienda’ non sarebbe un termine che darebbe soddisfazione a chi lo porta essendo un concetto che a volte viene utilizzato in maniera derogatoria. Credo, comunque, che qualunque ruolo in strategia o consulenza strategica sia profondamente legato alla filosofia.

La strategia, quale studio complesso di tutte le alternative future possibili di un’azienda, per il suo modo di evolversi a partire dalla scelte tattiche per arrivare a quelle strategiche, è come la filosofia, quale studio dell’origine e della struttura dell’essere umano.

 

Oggi sentiamo sempre più spesso parlare di creatività e innovazione, sembra addirittura che la società e il contesto in cui viviamo siano caratterizzati dalla creatività, concetto al servizio dei settori più svariati. La situazione appare chiara: la capacità di produrre idee, tecniche e conoscenze nuove è il fattore discriminante innanzitutto per stare al passo con il progresso, in secondo luogo per essere competitivi sul mercato e infine (forse) per aver successo.

Ci siamo resi conto che i creativi dopotutto non sono una rarità, ma creativi sono anche coloro che nella quotidianità del proprio lavoro producono soluzioni alternative combinando la tecnica con la fantasia. Lo stesso Abraham Maslow, psicologo americano, era convinto che la vita altro non fosse che l’intreccio di routine e creatività e così il “talento” non è riservato a pochi, ma pochi solo coloro che riescono a stimolarlo e metterlo a frutto.

Alla creatività però è necessario aggiungere altri ingredienti chiave per poter avere un’idea vincente: l’esperienza di Brian Pallas è esempio concreto per tutti quei giovani con la voglia di mettere in gioco le proprie idee. Flessibilità, utilità, differenziazione, sperimentazione, intraprendenza e passione sono gli elementi che non possono mancare nel momento in cui scegliamo di inseguire le nostre idee e perché no, anche i nostri sogni.

Elena Casagrande

www.opportunitynetwork.com

Alla ricerca dell’uomo

Immaginare una fraternità universale non è solo uno slogan o un’utopia, ma una concreta condizione di possibilità per la stessa sopravvivenza dell’umanità intera che altrimenti rischia di essere in balia di uno sviluppo tecnologico incontrollato e privo di fine, salvo il suo potenziamento all’infinito perfino oltre l’uomo stesso.

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Pensiero di Marx, mai così attuale

Nel momento storico che stiamo vivendo avvertiamo che si può riconoscere la forza del pensiero di Marx ed il suo essere profondamente attuale. Nella crisi globale che ha devastato tanto la politica mondiale l’economia Marx ci fornisce a tutt’oggi degli strumenti per non disperderci, per comprendere quanto ci sta succedendo, per analizzarlo. Si può condividerne o meno le teorie e le analisi, così come le soluzioni proposte, ma quel che è certo è che, da grande studioso del sociale e da grande economista quale era, ci insegna ancora oggi, e chissà ancora per quanto tempo, che va data centralità alla tematica del lavoro, così come non è possibile prescindere dal processo di valorizzazione capitalistico; basilare, inoltre, risulta tuttora essere la teoria del valore, teoria che è alla base del suo pensiero economico, teoria del valore che da sempre  si è dimostrata essere l’elemento più dibattuto e origine di discussione del pensiero marxiano. Riavvicinarci in questo momento di crisi a Marx ci aiuta quindi a vedere la crisi stessa con un’ottica diversa, a non esserne sopraffatti, andando al di là della contingenza pressante nella quale viviamo per enucleare la radice autentica del problema contemporaneo.

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