“L’arte di correre” di Murakami: memorie di uno scrittore-corridore

Haruki Murakami, pilastro della narrativa contemporanea, è stato di recente nuovamente in lizza per il Premio Nobel per la Letteratura. Famoso per una prosa che mescola realismo, gusto per l’assurdo, fantasia, fantascienza ed elementi magico-onirici, ha scritto circa una trentina di opere, tra cui romanzi (Dance Dance Dance, Norwegian wood, 1Q84), raccolte di racconti (I salici ciechi e la donna addormentata, Tutti i figli di Dio danzano) e saggi. Ha anche tradotto diversi autori (Capote, Salinger, Fitzgerald, per citarne alcuni). Nel 2007 ha pubblicato L’arte di correre (Einaudi), una raccolta di nove brani in cui riflette sul suo rapporto con la scrittura e la corsa, sua grande passione. Il libro – da lui annoverato nella categoria “memorie” – offre un ritratto dell’autore giapponese come persona, scrittore e corridore.

Murakami, umile e al contempo testardo e metodico, riconosce i suoi limiti e le sue imperfezioni, ma si impegna al massimo in tutto ciò che fa. La corsa e la scrittura, due attività che potrebbero sembrare molto distanti, hanno a suo avviso in comune tre fondamentali aspetti: richiedono impegno, dedizione e costanza.

Uno scrittore deve possedere un imprescindibile talento, ma anche saper perseverare e avere capacità di concentrazione e queste ultime due caratteristiche vanno esercitate quotidianamente – così come un maratoneta deve allenarsi giorno dopo giorno per migliorare il suo tempo e la sua resistenza.

Scordatevi lo stereotipo dello scrittore dalla vita sregolata: Murakami è sì un outsider, ma in modo diverso. Va a letto presto, si alza prima dell’alba e scrive per qualche ora; fa poca vita sociale, prediligendo l’«invisibile relazione ‘concettuale’» con i suoi lettori. Ma soprattutto, egli corre regolarmente dall’82, partecipando ogni anno ad almeno una maratona – nel libro racconta per esempio del suo allenamento per la maratona newyorkese.

La corsa gli permette di mantenere uno stile di vita sano, secondo lui indispensabile, poiché ciò che fa lo scrittore è qualcosa di malsano. «Quando decidiamo di scrivere un libro […] portiamo alla luce un elemento tossico che fa parte del nucleo emotivo dell’essere umano» afferma il romanziere. Quell’ingrediente nocivo è indispensabile affinché si verifichi un autentico atto creativo, ma è anche pericoloso, e Murakami desidera scrivere a lungo e proficuamente, creando storie sempre più potenti. L’energia per fare questo la ritrova nel rafforzamento del suo fisico, perché la letteratura rappresenta per lui «una forza vitale che tende naturalmente in avanti» e comporta enorme fatica. Scrivere equivale a scalare vette ripidissime, combattendo duramente finché non si giunge in cima, dove si saprà se si ha vinto o perso contro se stessi – questo pensa Murakami quando scrive, scavando nei meandri di se stesso alla ricerca dell’ispirazione. Lo stesso gli accade quando corre: sente «uno stimolo interiore silenzioso e preciso» e l’unico avversario può essere solo il «se stesso del giorno prima».

Murakami è diventato narratore relativamente tardi, a trent’anni. Ricorda il momento preciso in cui ha sentito di voler scrivere: in una bella giornata primaverile del ‘78, sdraiato sull’erba a godersi una birra e una partita di baseball, ha sentito d’un tratto il forte desiderio di buttare giù un romanzo.

«In quel momento dal cielo scese in silenzio qualcosa, e io lo presi» racconta. All’epoca egli gestiva un bar: rincasava tardi la notte e scriveva finché non gli veniva sonno. In queste condizioni scrisse i suoi primi due romanzi: Ascolta la canzone del vento e Il flipper del 1973. Ma creare in quel modo era dura, così fece un salto nel buio: chiuse il bar dedicandosi solamente alla scrittura per un po’, per vedere se avrebbe ottenuto dei risultati. Così produsse il suo terzo lavoro, Nel segno della pecora, diventando uno scrittore professionista apprezzato in tutto il mondo.

Come si dice, il resto è storia.

Proprio in quel periodo Murakami iniziò a correre: fumava troppe sigarette, conduceva una vita sedentaria, tendeva ad ingrassare e capì che di quel passo non sarebbe durato molto – urgeva un cambio di rotta. La corsa gli parve subito l’attività sportiva più congeniale alla sua natura bisognosa di solitudine e silenzio. «Quando corro, semplicemente corro. In teoria nel vuoto. O […] è anche possibile che io corra per raggiungere il vuoto. In quella sospensione spazio-temporale, pensieri ogni volta diversi si insinuano naturalmente nel mio cervello» dice. A volte affiorano alla sua mente idee per un nuovo libro. Certo è, per lui, che senza la corsa le sue opere sarebbero state diverse – anche se non sa dire in che modo.

Murakami non si definisce uno scrittore straordinario, né pensa che la sua vita sia eccezionale; ciò che gli importa è poter sempre fare le cose a modo suo. Alla fine de L’arte di correre, c’è un suo umile proponimento: continuare a partecipare alle maratone finché non sarà soddisfatto di sé, anche se sarà anziano e malridotto e al di là del tempo o della posizione in graduatoria che otterrà durante la gara. Sulla sua tomba, desidererebbe il seguente epitaffio:

«Murakami Haruki
Scrittore (e maratoneta)
1949-20**
Se non altro, fino alla fine non ha camminato».

Perché, nelle maratone, si corre – ed è così che lui avanza, senza clamore, sfidando se stesso, mettendocela tutta.

 

Francesca Plesnizer

 

[immagine tratta da google immagini]

 

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La disumanizzazione ieri e oggi

Lunedì sono andato al cinema: “Race – il colore della vittoria”. Parla delle vicende di J. Owens, corridore afroamericano che partecipò ai giochi olimpici del 1936 a Berlino sotto il regime Nazista. Vinse quattro medaglie d’oro e diventò un simbolo della lotta alle ideologie razziste dell’Hitlerismo ma anche interne agli USA. La storia è molto curiosa e ricca di spunti interessanti; tra questi, uno che mi ha colpito e fatto riflettere è il processo di disumanizzazione perpetrato dal Nazismo che tanto sconvolge e del quale non si parlerà mai abbastanza.

La riflessione di H. Arendt nell’opera “La banalità del male – Eichmann a Gerusalemme” punta l’attenzione anche su questo aspetto. È una delle possibilità più spaventose che l’uomo possa produrre: com’è possibile che si possa considerare un’altra persona non umana? Perché è proprio questo che permetteva ai nazisti di compiere i loro crimini. Non stavano uccidendo una persona, ma un animale. Non stavano eliminando delle vite, ma liberando il Paese da un’infestazione. Non stavano compiendo sperimentazioni contro qualsiasi etica o diritto, perché i pazienti non erano degli uomini.

Cosa avremmo fatto noi in quegli anni se ci fossimo trovati immersi in quel clima?

Avremmo osato morire per difendere una persona che magari neanche conoscevamo e che sarebbe comunque stata uccisa dopo di noi?

Avremmo rischiato la morte per proteggere degli sconosciuti invece di incassare una ricompensa per la loro denuncia?

Insomma: ci saremmo fatti anche noi contagiare dalla banalità del male, che permette di mettersi il cuore in pace spegnendo il cervello?

Eichmann, infatti, ha introdotto il pericolo dell’irriflessività: una massa di uomini normali – la stessa Arendt definisce così Eichmann quando lo vede e lo ascolta a Gerusalemme – che compivano azioni mostruose. È il trionfo della follia, spacciata per legge e “giustizia”. Il contesto ideologico all’interno del quali si era inseriti conferiva agli uomini nuove categorie di interpretazione del reale. Un gesto che prima poteva ripugnare diventava semplice e normale – anzi – forse addirittura doveroso.

Non è un discorso astratto, perché la situazione si sta ricreando – per alcuni già ha preso il sopravvento – proprio qui, in Italia. Certo, magari sono cambiati i toni (basta fare un giro su Facebook per rendersi conto che non è proprio così); forse il risultato che si vuole ottenere è diverso (idem); potrebbe darsi che questa volta si risparmino almeno i bambini (l’immagine di quel corpicino disteso inerme sulla spiaggia dovrebbe essere ancora fresca nelle nostre menti), ma il bersaglio rimane sempre lo stesso: un capro espiatorio che incarni tutti i problemi del Paese e contro il quale scagliarsi sottraendogli lo statuto di persona. La crisi migratoria ha messo in luce le reali difficoltà dell’Unione Europea nel corso degli anni, e l’accordo con la Turchia entrato in vigore il 4 Aprile ne ha sancito il fallimento. Come si può pensare che il rimpatrio in Turchia sia una scelta corretta e soprattutto etica nei confronti dei profughi? In ogni caso, la chiusura della rotta Balcanica ha riportato l’Italia a meta privilegiata di chi fugge, complicando ancora di più la nostra già precaria situazione.

I numeri dell’ondata sono impressionanti: secondo l’Unhcr – l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati – nei primi tre mesi del 2016 in Italia sono arrivate 18.400 persone. Nel 2014 l’Is ha incassato circa trecento milioni di dollari dal traffico di esseri umani secondo un rapporto della Global iniziative against trasnational organized crime. Tom Keatinge del Royal united services institute afferma – però – che “non è l’Is a gestire il traffico, ma tassa chi lo fa”. «Più che la minaccia del gruppo Stato islamico, l’impegno del governo italiano è dovuto all’urgenza di fermare i migranti e tutelare l’interesse dell’Eni» queste le parole di Alberto Mucci, ripreso dal settimanale “Internazionale” riguardo all’impegno italiano in Libia. Il petrolio. Sembra inconcepibile che di fronte alla tragedia che si sta compiendo anche in questo preciso istante l’interesse sia rivolto a quel maledetto liquido nero. Eppure «[…] in Libia l’Italia ha già grandi interessi. L’Eni ha quasi un monopolio sul settore petrolifero libico: è presente nel paese dal 1959 ed è l’unica azienda internazionale a operare a pieno regime. La sua presenza in Libia ha un’importanza strategica vitale per l’Italia e, nonostante gli enormi costi per la sicurezza, è forse il principale motivo degli sforzi di Roma per pacificare il paese nordafricano, con o senza alleati. […]»: sempre parole di Mucci.

Finché l’Europa non vorrà prendere a cuore la questione in modo serio, le morti in mare continueranno e gli sbarchi aumenteranno. Ma se gli interessi principali rimangono il petrolio ed il denaro proveniente dal traffico di esseri umani invece che salvaguardare le loro vite mi viene da pensare che questo non costituisca un problema. Dobbiamo renderci conto che la disumanizzazione dei profughi è già in atto. Una differenza rispetto al passato però è individuabile: per non vedere ciò che sta succedendo non li identifichiamo come animali senza diritti come facevano i Nazisti, semplicemente facciamo finta che il loro sangue in mare sia azzurro, in modo che non ci guasti il panorama.

Massimiliano Mattiuzzo