Immanuel Kant, l’Illuminismo e il coraggio

Quando nel 1784 scrisse Risposta alla domanda: Che cos’è l’Illuminismo?, Kant non pensava probabilmente di essere così pervicace nel tempo. Con questo saggio pubblicato sulla rivista tedesca Berlinische Monatsschrift si poneva il compito – seppur arduo – di rivolgersi direttamente ai suoi lettori, in modo da far comprendere loro con chiarezza che cosa fosse l’Illuminismo. In effetti queste poche pagine rivelano rigo dopo rigo una densità e una complessità concettuale di indiscutibile valore e attualità.

I concetti sono chiari, le parole cesellate in perfetto stile kantiano, le immagini metaforiche opportunamente pensate e sviluppate. Insomma, l’indiscutibile tocco del maestro capace di far comprendere tutto a tutti con chiarezza e precisione (perché il più grande pregio sta nell’essere semplici).

Ed è probabilmente per questo motivo che Kant esordisce subito con una definizione, proprio per farsi capire da tutti:

«L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è l’incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro. Colpevole è questa minorità, se la sua causa non dipende da un difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi di essa senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! Questo dunque è il motto dell’Illuminismo»1.

Kant insegna anche quando non vuole insegnare: l’uomo può essere maggiorenne o restare minorenne, ma non banalmente per età, piuttosto per intelligenza. Dotati per natura di intelligenza, dobbiamo scegliere per decidere se usarla da sé o sotto la guida di un altro. Proprio come avviene nella vita, fino ad una certa età, è bene (e utile) farsi aiutare dagli altri, in particolar modo da chi è più grande di noi, perché più maturo, più esperto, più capace; giunto però innanzi con l’età devo scegliere di far da me, anche se mi può capitare di sbagliare. Restare sottomessi alla volontà e all’intelligenza degli altri, quando ormai è giunto il momento di voler fare da soli, proprio non va bene!

Allora, dov’è il problema? Non siamo capaci di scegliere? Non siamo cresciuti? No, semplicemente non abbiamo coraggio. Abbiamo paura di osare. Non abbiamo il coraggio di essere intelligenti, cioè di farne la nostra essenza. Questo sapere aude, che Kant indica come il motto dell’Illuminismo, rivela un fascino tutto da spendere, e forse oggi ancora di più, perché – aggiunge Kant – «pigrizia e volontà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo liberati dell’altrui guida, rimangono tuttavia volentieri minorenni a vita; e per cui riesce tanto facile sugli altri erigersi a loro tutori. È così comodo essere minorenni!»2.

È comodo restare minorenni come stato esistenziale, perché c’è sempre qualcuno che si ergerà a nostro tutore e che sceglierà per noi, senza che ci si debba sforzare. Non pensiamo, non ci assumiamo responsabilità, non ci preoccupiamo di nulla, tanto ci sarà qualcun altro che lo farà per noi. Questo lavoro difficile e “pericoloso” lo farà qualcuno che benevolmente si sostituirà a noi «dopo aver accuratamente impedito che queste placide creature osassero muovere un passo fuori dal girello da bambini in cui le hanno imprigionate»3.

Eppure, cadendo di qua e di là – come fanno i bambini –, in breve tempo potremmo imparare a camminare da soli. Un po’ di spavento varrà la fatica e lo sforzo dell’impresa! Tuttavia c’è chi ama questi ceppi. C’è chi è realmente incapace di servirsi della propria intelligenza, non avendo mai avuto la possibilità o l’occasione di metterla alla prova.

Questo processo di emancipazione dalla minorità Kant lo definisce aufklärung, come una “uscita”, una modificazione del preesistente rapporto tra autorità e volontà di usare la nostra ragione. Siamo responsabili della nostra minorità, da cui possiamo uscire solo grazie ad un cambiamento che dobbiamo operare su noi stessi. Un atto di coraggio personale e collettivo, un cambiamento storico. Certo, se si è “pezzi di una macchina” bisognerà pur svolgere un ruolo nella società, adattando la propria ragione a determinate circostanze, ma quando non siamo “pezzi di una macchina” l’uso della ragione deve essere libero. Anche perché un uso illegittimo della ragione (propria ed altrui) genera illusione, dogmatismo.

Ed è in linea con tale logica operativa che Kant affronta il problema. Aufklärung è dunque un ethos di critica permanente del nostro essere storico. È un attualissimo filosofare del limite, un geniale atteggiamento maieutico del pensare in travaglio, una “chiarificazione”sulla nostra fragilità.

 

Lia De Marco

Laureata in filosofia presso l’Università degli Studi di Bari, abilitata in diverse classi di concorso per l’insegnamento nelle scuole superiori di I° e II° grado, ha insegnato dal 1999 in numerosi licei della Puglia. Attualmente è docente di filosofia e storia presso il Liceo “G. Bianchi Dottula” di Bari. Già progettista formativo ed europrogettista, ha maturato un’ampia esperienza nel campo della formazione professionale. Componente del gruppo Buone Prassi della Società Filosofica Italiana (S.F.I.) – Sezione di Bari, si occupa di sperimentazione di attività di didattica integrata della filosofia. Promuove ed organizza eventi culturali e collabora con diverse riviste specialistiche.

 

NOTE:
1. I. Kant, Che cos’è l’Illuminismo, Mimesis, Milano-Udine 2012, p. 9.
1. Ibidem.
I. Kant, op. cit., p. 10.

[Photo credits Marty Finney su unsplash.com]

Le quattro virtù del guerriero della vita

Fiore Furlan de’ Liberi da Premariacco (Friuli) è considerato uno dei più grandi maestri di scherma d’Europa del XIV secolo: le cronache lo collocano nelle grandi battaglie d’Italia e di Germania e la sua grande esperienza maturata sul campo gli ha permesso di approfondire la propria arte marziale fino a raggiungere l’eccellenza. Nel 1409 egli ha redatto il proprio manuale, il Flos Duellatorum1, un’opera destinata a diventare una pietra miliare nello studio dell’arte della spada, nella quale elenca quattro virtù cardinali che dovevano necessariamente appartenere al guerriero, a colui che voleva avvalersi di questa “nobile arte”: tutte egualmente importanti, esse sono la Prudenza, l’Agilità, l’Audacia ed infine la Fortezza. La simbologia che le accompagna punta a completare il loro significato, rendendolo manifesto all’allievo attraverso la pratica: la Lince che tiene stretto nella zampa un compasso rappresenta l’attenzione alle distanze, fondamentale nello scontro marziale; la Tigre, animale intrepido, tiene appoggiata alla spalla una freccia e rappresenta la rapidità nell’attacco; il Leone che protegge con la zampa un cuore, rappresenta ovviamente il coraggio; infine l’Elefante con la torre d’assedio sulla groppa è rappresentativo della Fortezza, cioè l’equilibrio e la stabilità.

È sicuro, tuttavia, che queste quattro virtù del guerriero possedessero un valore assai più ampio, estendibile ben oltre i confini dell’arte schermistica, proprio in quanto espressione di un certo modo di vivere confinato in alcuni anni della nostra storia: potremmo definirle come principi etici in un’epoca in cui combattere e duellare rappresentava un vero e proprio rituale simbolico entro il quale si risolvevano molteplici situazioni; principi per addestrare ed educare la mente e il corpo.

Quale significato potrebbero avere le quattro virtù del guerriero del XXI secolo, un uomo che deve affrontare gli scontri/incontri quotidiani preservando le proprie energie e garantendosi la continuità del proprio benessere? Come nella scherma medievale, nonostante il carattere generale delle regole, quanto è scritto non perde la propria utilità nelle diverse situazioni; come ogni regola per la vita, inoltre, ognuna è strettamente legata all’altra.

CORAGGIOil cuore del maestro
Il Coraggio è necessario per affrontare una vita che fa paura: il coraggio si sviluppa per affrontare questa emozione primordiale e allo stesso tempo accettarla: quella “paura assoluta” di cui parlava Hegel2 e che si può riconoscere anche nel vivere-per-la-morte heideggeriano, ci apre le porte ad un’esistenza piena, attuale. È certo che a volte gli ingranaggi della realtà vanno spezzati per poter procedere oltre sul nostro sentiero, proprio come bisogna “rompere” l’azione del nostro nemico quando siamo in pericolo; tuttavia la vita va pure assecondata nella sua medesima natura e contingenza così da mettere alla prova il nostro spirito di adattamento. Non si può impedire ad un avversario di combatterci: bisogna avere il coraggio di avere paura.

PRUDENZA, la testa del maestro
Buonsenso, prima di tutto il resto. È ciò che permette al Coraggio di non trasformarsi in avventatezza. Può essere calcolo razionale e pulsione pacata; il buonsenso è entrambe queste cose insieme. La Prudenza in relazione al Coraggio genera il Dubbio, base fondamentale della crescita personale e dell’evoluzione del nostro pensiero. Poiché la pura logica non dice niente sul mondo, sta alla ragionevolezza che genera sapienza guidarci nei sentieri della vita.

VELOCITÀ, le braccia del maestro
Lesti di mente per cogliere le occasioni, non per temporeggiare: le occasioni, per loro stessa natura, sono sfuggenti e la celerità di una freccia diretta verso il bersaglio è ciò che ci consente di ottenere un risultato. Velocità e destrezza sono caratteristiche di un pensiero creativo che si insinua tra le pieghe degli avvenimenti e trova la propria strada. Chi meglio di un felino, dopotutto, può farsi largo nella fitta giungla?!

FORTEZZA, le gambe del maestro
La possanza e l’equilibrio sono ciò che ci mantengono saldi e sicuri in noi stessi: è l’abilità con cui il corpo armonizza stabilità e instabilità nell’atto di camminare, infatti non possiamo asserragliarci in una torre immobile e rigida ma piuttosto essere dinamici e saldi. La mente ha bisogno di muoversi, scoprire cose, evolversi ed essere sicura di sé. Non può esserci vero equilibrio senza movimento.

«Sii audace nella lotta e giovane nel cuore.
Non avere paura nella tua mente, solo allora puoi aver buone prestazioni. Se il tuo cuore manca di audacia, tutto il resto è carente;
Audacia e virtù: di ciò consiste l’arte»
(Flos Duellatorum – Prefazione)

 

Matteo Astolfi

 

NOTE
1. F.F. de’ Liberi, Flos Duellatorum, 1409-1410.

2. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, 1807.

[Photo credit Ricardo Cruz via Unsplash]

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La notte eterna di Noa: per una società della cura e del non abbandono

Noa aveva solo diciassette anni quando prese la decisione definitiva di morire, come aveva riportato nel suo ultimo post del suo profilo Instagram.

Per Noa quell’esistenza non rappresentava nemmeno più una mera sopravvivenza. La vita le era diventata tanto pesante da non poter più trovare la forza, da sola, di sostenere quel macigno che, anno dopo anno, la stava schiacciando. “Ho deciso di lasciarmi andare perché la mia sofferenza è insopportabile. Respiro, ma non vivo più”. Queste le parole che quasi tutti i quotidiani hanno riportato e che si fanno portavoce della lacerazione interiore, della profonda sofferenza che Noa si portava dentro e con cui non riusciva più a vivere.

“Respiro ma non vivo”. Un respiro dopo l’altro, nel suo processo naturale di inspirazione e espirazione. Solo ossigeno che riempie i polmoni. Un’esistenza delimitata dal suo mero decorso biologistico. Un decorso che è proseguito fino al momento in cui Noa annunciò la decisione definitiva di lasciarsi morire, rinunciando a nutrirsi ed idratarsi. Per porre fine a quell’atto respiratorio che costituiva ormai l’unico elemento che la teneva in vita. 

Aggredita a soli undici anni e successivamente violentata a quattordici, non riusciva a sopportare tutto quel dolore che, ancora bambina, aveva travolto il suo corpo e la sua identità all’improvviso. “Mi sento ancora sporca”, diceva. Impossibile mettere un punto e ricominciare da capo. Prima la depressione. Poi l’anoressia, quel mostro che l’aveva costretta a vivere con un sondino nasogastrico durante ogni singolo giorno del suo ultimo anno di vita. Continue ricadute. Un tentativo di suicidio. Così come continui i tentativi di rivolgersi a delle strutture in grado di seguirla e di aiutarla a convivere con quell’incubo che da anni ormai non le permetteva di vivere un’adolescenza normale, fatta della spensieratezza dei ragazzi della sua età.

Molteplici le richieste di aiuto, sia da parte di Noa che da parte dei genitori. Troppe poche, forse, le risposte da parte di un entourage capace di convincerla che la vita poteva prendere una direzione diversa, che non sarebbe mai stata abbandonata, che ci sarebbe sempre stato qualcuno lì ad accarezzarla, a farle capire che era una ragazza unica, insostituibile, che la sua vita aveva una valore. Che dietro a quei respiri c’era un senso profondo. 

Da sola Noa non sarebbe mai potuta uscire da quella notte senza fine che è la vita quando viene attraversata da un dolore che frantuma in mille pezzi. Non è possibile vedere il bello in completa autonomia quando il cielo si tinge prima di grigio perla, poi fumo, tortora, ardesia, antracite; e, in fondo, quando lo sguardo si copre di grigio antracite non ha già perso quella capacità di distinguere e di discernere un punto di luce dal resto? Quando il cielo diventa come il cemento, non ha già perso tutte le sfumature del grigio? Il cielo non è forse nero?
Nessun orizzonte di luce. Nessuna sfumatura. Solo nero intenso. 

Dall’oscurità più profonda non ci si può salvare da soli, certo. Per questo abbiamo bisogno dell’altro per sopravvivere, l’altro lì a ricordarci che il nero può sbiadire, sfumare, tornare ad essere grigio, e poi bianco, e celeste. Il cielo di Noa era immerso nell’oscurità e in quello stesso cielo nero l’hanno lasciata addormentarsi.  

Dopo la morte di Noa, i giornali italiani hanno inveito contro eutanasia e suicidio assistito, focalizzando l’attenzione su una questione che con Noa c’entrava ben poco. Non solo la richiesta della ragazza di far ricorso all’eutanasia era stata rifiutata dalla clinica cui lei e i suoi genitori si erano rivolti qualche anno fa; ma un tale dibattito decentrerebbe lo sguardo pubblico dall’unica cosa che Noa voleva urlare al mondo: l’inspiegabile vuoto di senso della propria vita, l’abbandono che provava e la sostanziale incapacità – sociale e sanitaria- di aiutarla efficacemente in percorso di cura continuativo ed adeguato. Non un percorso di “guarigione”, dunque; la depressione non è come un’influenza, non c’è niente da guarire, nessuna funzione da “ripristinare”. Una ferita come quella di Noa aveva però bisogno della presenza di una cura. Un “io ci sono, tu sei qui con me?”. 

Non è forse questa la più intensa e bella pratica di cura? Una presenza insostituibile, una stretta di mano che trasmette coraggio, una spinta a  cogliere la bellezza della vita, malgrado le difficoltà, le crisi, le insicurezze; il coraggio di intravedere l’azzurro del cielo attraverso le molteplici sfumature del grigio. 

La madre della ragazza comunicò inoltre la complessità di entrare in cliniche psichiatriche specializzate, le liste d’attesa infinite, l’assenza di strutture per i disturbi alimentari. La figlia passava costantemente da un ospedale all’altro, più volte indotta al coma al fine di poterla nutrire artificialmente con una sonda. 

Noa si è spenta piano piano. Forse, attraversata da un profondo senso di abbandono. 

L’hanno “lasciata andare”, senza prendersi cura di lei. Una resa sociale, confermata dalla resa personale di chi non ce la fa più e, nella disperazione, non vede altra soluzione proprio perché nessun altro riesce a farle scorgere alternative possibili, colori diversi dal nero. 

Quando in realtà, anche se talvolta è difficile ammetterlo, è solo chi resta a poter dare un senso all’esistenza di chi, quella vita, la vuole lasciare. 

 

Sara Roggi

 

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Cieca fede: la sua bellezza e la sua sfida

Quella vecchietta cieca, che incontrai

la notte che me spersi in mezzo ar bosco,

me disse: – Se la strada nun la sai,

te ciaccompagno io, ché la conosco.

Se ciai la forza de venimme appresso,

de tanto in tanto te darò ‘na voce,

fino là in fonno, dove c’è un cipresso,

fino là in cima, dove c’è la Croce… –

Io risposi: – Sarà… ma trovo strano

che me possa guidà chi nun ce vede… –

La cieca allora me pijò la mano

e sospirò: – Cammina! – Era la Fede.

 

Le parole de La guida di Trilussa sono tra le più belle mai scritte per rendere chiaro un concetto che il più delle volte sfugge ad ogni classificazione. Difficile, effettivamente, inquadrare cosa sia la fede. Un sentimento? Non renderebbe giustizia ai momenti di buio, quegli attimi, a volte anni secondo mistici del calibro di Giovanni della Croce o Teresa d’Avila, in cui non c’è alcun sentire, quell’abisso ontologico definito da Kierkegaard “il silenzio di Dio”. Un’aderenza più o meno consuetudinaria ad un sistema di norme etiche, liturgie e credenze mitiche? Anche qui si verrebbe a perdere un aspetto fondamentale dell’esperienza fideistica, che trascende qualsiasi abitudinarietà o routine, lo slancio passionale sì, ma non solo, che in ogni religione crea santi, asceti e martiri. Una consapevole scelta di vita, quindi, una sorta di scuola filosofica? Pure in questo caso la categorizzazione non copre che un infinitesimo della complessità dell’esperienza, che attraverso il linguaggio poetico Trilussa riassume in uno splendido “Cammina!”: un salto nel buio, per dirla ancora una volta con Kierkegaard, che coinvolge il proprio intero essere, rivolto e proteso verso un Infinito che ha un nome e che per nome chiama, un desiderio radicato nell’essenza del cuore dell’uomo che, se accolto, si rivela come struggente nostalgia.

Entrando nella cattedrale gotica di Notre Dame, a Chartres, le guglie e le vetrate attirano magneticamente lo sguardo verso l’alto, ma è abbassandolo sul pavimento della navata centrale che si scorge un’altra allegoria della fede, anche questa espressa in un linguaggio altro da quello parlato, e forse per questo infinitamente più efficace. Ricoprendo un’area pari a quella del rosone centrale, da cui riceve luce, si dipana circolarmente per più di duecento metri un labirinto, impresso nel pavimento come se fosse tatuato sulla terra stessa. Il labirinto è particolare: non presenta bivi né deviazioni, è un cammino tortuoso e pieno di curve, sì, ma unico e senza possibilità di errore, che conduce fino al centro, e poi da lì riconduce fuori. Se con gli occhi della mente provassimo a trasformarne i contorni in mura, alte abbastanza da non poter vedere oltre, il labirinto diventerebbe un percorso virtualmente sicuro, a meno che le continue curve, la sensazione di disorientamento derivante dalla sensazione di girare in tondo e i dubbi di chi lo percorre non facciano perdere coraggio e non convincano il pellegrino a tornare sui propri passi, alla ricerca di una strada più dritta e sicura, o addirittura convinto di aver intrapreso un sentiero senza uscita né destinazione.

Questa è la fede, la sua bellezza e la sua sfida: un cammino concentrico, che conduce al centro (di sé, dell’essere, del cosmo), e che richiede “solo” la determinazione, la fedeltà e la fiducia di chi lo intraprende, un sentiero su cui è possibile perdersi soltanto nello scoramento e nella stanchezza, nella tentazione di fermarsi o tornare indietro. Secondo l’autore della Lettera agli Ebrei, la fede è «certezza delle cose che si sperano, prova di quelle che non si vedono» (Eb. 11,1): fede e speranza sono intrinsecamente legate, e si sostengono l’una l’altra.

Neanche la speranza, però, basta a spiegare cosa sia davvero la fede. Per capirlo, pare si possa solo lasciarsi prendere per mano dalla “vecchietta cieca”, abbandonarsi alla sua guida, e camminare. Fino al centro del labirinto.

Giacomo Mininni

[immagine tratta da Google Immagini]

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De profundis

Cold be hand and heart and bone,
and cold be sleep under stone:
never more to wake on stony bed
till the Sun fails and the Moon is dead.
In the black wind the stars shall die,
and still on gold here let them lie,
till the Dark Lord lifts up his hand
over dead sea and withered land.

Un tale uomo, un tale giorno, chino s’una versione intitolata Suicidio di Sofonisba, ci propose la seguente osservazione: “Ho notato che la maggior parte degli autori latini parla solo di morte”.
Un’intuizione correttamente beffarda.
Non volendo tuttavia, per antica abitudine, dare ragione gratuita al mio interlocutore, rispondemmo: “Cosa intendi dire?”.
“Beh… si parla sempre di guerra, di battaglie, di assedi… di morti insomma”.
Ritornando a casa, le parole del nostro collocutore ci tuonavano nel cervello come un rombo di corno, e ci facevano male alle tempie. Sprofondati nell’oscurità delle nostre notti avare di sonno, ci chiedemmo: “Cos’è la morte?” La fine, ovviamente. “E la vita, invece?” − questa risposta c’apparve meno scontata.

L’umana esistenza non è una linea retta (io credo sia una semiretta, ma non pretendo che qualcuno pensi come me, come in generale non tollero che qualcuno m’imponga di pensare com’egli fa), e su questo si può essere d’accordo.
Ora, con una certa dose di approssimazione, possiamo affermare che essa è un segmento, dotato d’un estremo minimo (la nascita) e d’uno massimo (il trapasso): nel mezzo, la variabile cortina di pioggia del tempo.
Se quest’analisi è corretta, cioè se l’esistenza non è che una parentesi diacronica, come potremmo non affermare che ciò che chiamiamo vita è, in realtà, la morte? O, più correttamente, l’attesa d’essa – cioè l’agonia?

Da secoli gli uomini, almeno nelle lingue occidentali (la lingua è l’articolazione compiuta del pensiero: senza teoresi non c’è lingua, né viceversa) distinguono agonia (dal greco ἀγωνία, “sfida, sforzo”, a sua volta da ἀγών, gara – per estensione “gara contro la morte”) e decesso (dal latino dēcēdo, “ritirarsi”, a sua volta da cēdo, “andare via, sparire” – per traslato “sparire dalla vita”).
Quando diciamo, riferendoci a un malato: “È in agonia”, non intendiamo forse dire ch’egli si trova in articulo mortis, ma, di fatto, ancora non-è morto? E quando qualcuno manca improvvisamente, non diciamo: “Almeno ha avuto un’agonia breve”?
Ora, se l’agonia è l’insieme dei momenti che precedono il trapasso, perché non allargare i confini di questo conchiuso fascio di tempo (che, per autoassolutoria consuetudine, releghiamo all’interno d’una durata di, al massimo, qualche giorno) oltre i suoi limiti tradizionali e consolatori? Perché non ammettere che l’agonia (in quanto attesa certa, perché siamo certi che, tardi o tosto, moriremo) dura in realtà quanto l’intera vita?
Ci spaventa, forse, confessare a noi stessi che stiamo vivendo un’anticamera del trapasso, estesa quanto la sommatoria algebrica d’ogni istante di questo nostro tempo sulla Terra?
Non lo facciamo, perché il pensare alla vita come a un’attesa del decesso ci avvicina troppo alla verità dell’imprevedibile. Manca, dunque, il coraggio della consapevolezza.

Ed è proprio qui che sta il muro della cognizione: nella paura di morire.
Emanuele Severino una volta disse, vado a memoria, che la morte non deve farci paura, perché non esiste, e tuttavia la temiamo – nonostante la verità dell’essere (?!) – perché la confondiamo con il dolore dell’agonia.
Non perderò un solo secondo a commentare il dogma severiniano (absit iniuria verbis), ma la sua citazione m’è utile per notare, piuttosto, che se davvero la paura l’associamo al dolore, allora proprio nell’accettazione della condizione agonica della quotidianità, risiede la salvezza.
Sì!, perché se accettassimo che proprio la vita è il dolore, e che in null’altro consiste il dolore se non nella Leben-an-sich-und-für-sich, e che né l’una né l’altro sono eterni, allora ecco che la paura di morire svanirebbe o, addirittura, si trasformerebbe in speranza (ma non parlerò qui di quest’ipotesi).

Io credo profondamente nella verità dell’agonia.
La sperimento ogni giorno, ogni istante. E, proprio per questo, non rimpiango di vivere. Ogni tanto soffro meno, quando prendo qualcuna delle mie droghe preferite (a ognuno la sua: il calcio, uno strumento musicale, un hobby), ogni tanto soffro di più, generalmente quando avverto il tempo come pungolo nelle carni, e non più come concetto-lato.
Ed è per questo m’è impossibile essere ottimista.
Un ottimista, infatti, crede che un domani ci sarà, sempre e comunque.
E io non lo credo.
E tuttavia, per la stessa verità, non posso neppure dirmi pessimista.
Un pessimista, infatti, pensa che un domani non sorgerà, in ogni caso.
Io, invece, non lo escludo.
Io sono un banale possibilista.
Perché non so se un domani verrà. So tuttavia che, se verrà, sarà un’agonia, come la notte d’inverno che arriva senza una stella.
Così, d’altronde, è oggi; così è stato ieri; cosi furon i secoli d’ogni era, sin dall’istante in cui, quel lontano giorno, scendemmo dall’albero.

De profundis clamavi!

 

David Casagrande

 

[L’immagine di copertina riporta un’opera di Caspar David Friedrich; tratta da Google Immagini]

 

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Il coraggio di pensare: Francesco Pastorelli su come insegnare la filosofia

In molti incontriamo la filosofia per la prima volta a scuola, normalmente al terzo anno di superiori. È quella strana età in cui smettiamo di essere adolescenti brufolosi e supponenti e iniziamo lentamente a diventare adulti e a porci qualche domanda in più su noi stessi e sulla vita. C’è chi in quel periodo avverte le questioni filosofiche come quanto di più astratto e lontano dalla proprie preoccupazioni, ma altri sentono invece che le proprie domande, il proprio sguardo meravigliato sul mondo, sono in fondo gli stessi della filosofia. E allora si innamora di quella disciplina.

Affinché questo accada è necessario un insegnante capace di appassionare e di chiarire anche gli autori più difficili, ma anche un manuale che svolga la stessa funzione, sapendo essere al tempo stesso chiaro e stimolante. Ma come si fa a mantenere un equilibrio tra questi due elementi? E cosa si nasconde dietro ad un manuale di filosofia? Lo abbiamo chiesto a Francesco Pastorelli, caporedattore del settore filosofia e scienze umane della casa editrice Loescher, che dopo una laurea su Spinoza e un dottorato su Shaftesbury alla Normale di Pisa ha iniziato a lavorare nel mondo dell’editoria.

 

Buongiorno Francesco, la prima domanda riguarda appunto la conciliazione tra elementi diversi che devono essere presenti in un manuale: lo scopo principale di un buon libro di filosofia dovrebbe essere rendere appassionante la materia o spiegarla in maniera semplice e lineare? Si può raggiungere un equilibrio tra i due elementi?

In realtà un buon manuale scolastico (qualunque, non solo di disciplina filosofica) dovrebbe sempre poter offrire un testo chiaro e appassionante, anzi: ci si appassiona alla lettura e allo studio quanto più si comprendono le cose in modo immediato, anche quando complesse. La filosofia tratta tematiche che attraggono naturalmente ogni studente: riuscire ad allontanarli offrendo un testo impenetrabile sarebbe davvero un peccato mortale! Credo che si possa dire di aver raggiunto l’equilibrio che citi nella domanda quando uno studente, dopo aver letto il manuale, ha (anche solo un pochino) voglia di leggere altro oltre il manuale. Il manuale dovrebbe essere una chiave per entrare in altri posti dove non si è mai stati, e che forse non avresti mai visitato senza il manuale.

 

Non c’è mai il timore che semplificando un autore per spiegarlo si tradisca la complessità del suo pensiero? Come si fa ad esempio a rendere comprensibile per un manuale scolastico pensatori ostici come Heidegger o Husserl?

L’autore sa scrivere un buon manuale quando dimentica di essere egli stesso un autore, ma si mette al servizio sia del filosofo che intende spiegare, sia del lettore finale. Tutto questo non intacca ovviamente l’originalità dell’impostazione (taglio concettuale, scelta antologica ecc). Ma un manuale “difficile” spesso cela un autore che non vuole scomparire e ha difficoltà a mettersi al servizio di un progetto didattico. Tutto sommato, direi, è anche una questione etica. L’autore di un manuale dovrebbe essere sempre un mediatore tra questi due mondi: l’oggetto che deve spiegare e il soggetto cui deve spiegare. 

 

In Italia si fa quasi sempre e solo storia della filosofia, non hai mai pensato di realizzare per la scuola invece un libro di filosofia? Ad esempio un manuale che, invece di partire da Talete per arrivare a Derrida, affronti delle macro-sezioni (la politica, l’amore) in cui contrappone i pensieri dei diversi autori? Sarebbe possibile farlo in Italia?

Non proprio, non ora. Le indicazioni ministeriali non hanno ancora scardinato un impianto che per consuetudine e indicazioni stesse rimane sostanzialmente storico-cronologico. Ma un po’ tutti i manuali, in realtà, offrono interessanti spunti tematici, anche interdisciplinari, pur senza arrivare al modello francese.

Nell’aria filosofica Loescher sta pubblicando proprio ora un’interessante novità, che sarà tra i banchi di scuola il prossimo anno scolastico. Si tratta di un manuale firmato da Umberto Curi, uno dei filosofi italiani contemporanei di maggior peso.

 

Volevamo chiederti qualcosa su questo nuovo manuale. Partiamo dal titolo, Il coraggio di pensare, che ricorda la massima kantiana del sapere aude. In che senso oggi bisogna avere coraggio per pensare filosoficamente e perché è importante insegnare questa audacia ai ragazzi?

Quando si progettava il manuale, ci sembrava importante che i ragazzi capissero che il mondo non si cambia da soli, ma con gli altri (oltre che per gli altri). Ma per fare le cose con gli altri, occorre condividere le idee (e quelle argomentate sono le più condivisibili, per loro natura), e quindi le parole che si usano per esprimerle. Idee (quindi parole) condivise, argomentate, discusse: queste cambiano il mondo. Se si capisce, si restituisce dignità e peso alle parole, e alle conseguenti azioni che esse possono generare. Se pensare vuol dire generare azioni, allora pensare è altamente responsabilizzante: come potrebbe non incutere timore e quindi non pretendere, il pensiero, una certa dose di coraggio?

 

In breve, qual è l’aspetto di questo manuale che ritieni meglio riuscito, e quale è l’elemento di maggiore novità rispetto alla concorrenza?

Abbiamo puntato moltissimo su due aspetti: un testo estremamente rigoroso (si ragiona sempre, non esistono idee offerte al lettore come fossero verità scolpite nella pietra) e al contempo formativo: abbiamo cercato infatti di mostrare il carattere ancora vitale di certe idee filosofiche, che hanno dato forma alla nostra vita e alle nostre convinzioni anche senza che noi stessi ne fossimo consapevoli, e come i grandi pensatori hanno cercato di mostrare le loro vie per diventare maggiorenni, ovviamente in senso intellettuale. Un bello stimolo, per ragazzi che stanno per diventarlo in senso anagrafico.

 

Come è stato collaborare con un autore importante e affermato come Umberto Curi? Il professor Curi ha sempre insegnato all’università, come avete fatto ad adattare la sua metodologia ad un manuale per la scuola superiore?

L’editoria scolastica è un’editoria di progetto: lo si condivide con l’autore e lo si porta avanti, e ognuno ovviamente (tanto l’editore quanto l’autore) ha fatto le proprie rinunce, ma sempre, e questo è il bello, in vista di un fine più alto: un progetto funzionale e valido, adatto per i docenti e gli studenti. Lavorare con Curi è stato molto divertente (anche se non sono certo mancati i momenti di tensione) perché si partiva da un assunto iniziale interessante: Curi, all’università, ha sempre dissuaso gli allievi dall’acquisto di qualsivoglia manuale, perché nessuno avrebbe potuto restituire il carattere vivo, formativo e dialogico che ha la filosofia “praticata”. I manuali a suo dire insegnavano pensieri, non a pensare. Se ha accettato di essere l’autore di un manuale scolastico è perché abbiamo condiviso e realizzato un progetto che finalmente, per la prima volta, ambiva a insegnare a pensare e non a snocciolare opinioni filosofiche.  

 

Chiudiamo infine con una domanda che siamo soliti fare a tutti i nostri ospiti: che cos’è per te la filosofia?

Prima di entrare nel mondo dell’editoria, ho insegnato per un anno in un liceo torinese e durante quel periodo mi fu chiesto di scrivere un articolo sulla filosofia per la rivista della scuola. La cosa mi spiazzò: dopo aver studiato e scritto per anni intere pagine su poche parole di alcuni filosofi, avevo perso di vista il senso generale dell’esercizio filosofico, ma la genericità della richiesta in realtà mi fece bene. E torna utile ora per rispondere. A farla breve: a nessun uomo basta respirare, bere e mangiare per essere felice o almeno sereno. Riflettere su se stessi e gli altri, sulle relazioni, “curare” l’interiorità con metodo ed esercizio (l’insegnamento di Pierre Hadot rimane insuperato) è qualcosa a cui gli uomini non possono rinunciare. C’è una gran differenza tra sopravvivere e vivere: la filosofia è quella differenza, e riesce ad esserlo senza costruire barriere, ma anzi abbattendole.

 

Lorenzo Gineprini

 

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Il suicidio e quella continua ricerca di senso

Inevitabile che mi passi tra le mani in queste ore, di fronte al susseguirsi di tanti suicidi di cui veniamo a conoscenza quasi settimanalmente, anche di amici personali, il famoso volume di Albert Camus, Il mito di Sisifo:

«Vi è un solo problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia».

È con questo inquietante quanto affascinante problema che il filosofo francese si interroga, tanto da scrivere un ampio volume tutto incentrato sul suicidio.

Si lancia nel vuoto un’adolescente perché stanca di vivere, si uccide un padre perché senza lavoro, si impicca un figlio perché ha mentito ai suoi genitori e amici, si toglie la vita un imprenditore perché non riesce più a pagare il salario dei suoi dipendenti.

Ma allora per parlare del suicidio dobbiamo fare un passo indietro e interrogarsi prima sul senso della vita. Ci si suicida, oggi, per mille motivi, ma un unico filo sottile sembra accomunare tutte queste morti: sono i desideri ultimi e supremi di libertà e liberazione.

Libertà dai condizionamenti sociali e familiari, libertà dal dolore fisico e psicologico, libertà dall’oppressione politica e militare.

«Libertà vo cercando, ch’è si cara, come sa chi per lei vita rifiuta»1, scrive il sommo poeta a proposito del suicidio. Gli fa eco il filosofo franco-rumeno Emil Cioran in Sillogismi dell’amarezza: «Vivo solo perché è in mio potere morire quando meglio mi sembrerà: senza l’idea di suicidio, mi sarei ucciso subito».

Il suicidio diventa, quindi, un inno alla libertà, la fine da ogni costrizione della vita e dalla sua drammatica finitudine. Suicida sembra oggi colui che non vuole più scendere a compromessi, che non vuole più rimanere all’interno di steccati ben definiti, che non accetta più certe regole e la “schiavitù” a cui è sottoposto, colui che non accetta più la finitezza e cerca l’infinito a tutti i costi. È il coraggio dell’impossibile, è sfidare qualcosa che altri non vogliono o hanno smesso di sfidare, è cercare quella luce in fondo al tunnel, è cercare un senso in un’altra dimensione.

«Soltanto gli ottimisti si suicidano, gli ottimisti che non possono più esserlo. Gli altri, non avendo alcuna ragione per vivere, perché dovrebbero averne una per morire?» continua freddamente Cioran.

I suicidi di oggi sono dunque quelli in cui si sperimenta l’Assurdo e si cerca di andare oltre: si fugge per sempre da quell’incoerente mancanza di valori, di ragioni, di verità, di uguaglianza, di equità. L’Assurdo nasce quando nasciamo e muore quando moriamo. E allora perché continuare a vivere nell’Assurdo? Meglio andarsene prima ritrovando senso e significato all’esistenza stessa riconciliandosi con il mondo ed eliminando così ogni impurità di cui è contaminata la terra, rifugiandosi per sempre in una dimensione asettica.

Ma è proprio qui che sta il problema: anche il suicidarsi diventa uno degli atti dell’Assurdo, quindi anche il togliersi la vita rientra in quell’assurdo vortice di non senso, è uno degli atti più materiali e pregni di non-vita che l’esistenza umana ci offre. L’uomo di oggi non deve compiangere il suo destino, non deve eliminarlo, ma deve affrontarlo, deve essere più forte di esso. Alcuni di fronte a queste morti dell’Assurdo si chiedono: “Dove sei Dio?” Io mi chiedo: “Dove sono gli uomini? Dov’è la politica?”. Noi dobbiamo diventare Dio, dobbiamo riappropriarci della nostra vita, senza illusioni ed effetti speciali, dobbiamo lottare, a volte senza illuderci. Ecco il compito delle istituzioni, della politica, della religione: aiutarci a dare senso al nostro sudore, ai nostri passi stanchi, alle nostre lacrime che non potranno non esserci, ma che dobbiamo riconoscere come costitutive del nostro essere e per questo non da eliminare, ma da superare per raggiungere anche in questa dimensione un vivere meno inquinato.

«Bisogna amarsi molto per suicidarsi», scrive ancora Camus ne I giusti. È questo che non hanno ancora capito nostri politici, i nostri genitori, i nostri superiori, i nostri insegnanti, la chiesa: noi vogliamo amarci, noi vogliamo il meglio, vogliamo cambiare e se non ci è data questa possibilità allora è meglio morire.

Solo se aiuteremo l’uomo a superare il pessimismo facendogli sperimentare una sorta di metafisica dell’entropia, allora il suicidio non sarà più visto come negazione della volontà, ma come redenzione dell’esistenza, come capacità di guardare negli occhi l’Assurdo e il Nulla e vincerli per sempre.

 

di Gianbruno Cecchin

 

Gianbruno Cecchin, 46 anni, di Galliera Veneta (PD), dove “dormo”. 
Filosofo.
Laureato in filosofia a Padova con un tesi in filosofia della religione.
Ora, invece, mi occupo di filosofia della scienza e bioetica.
Collaboro all’Interno di alcuni progetti (master, corsi di specializzazione e altri corso come ad esempio P4F) con il dipartimento FISSPA dell’Università di Padova (in particolare con il gruppo di ricerca sulla pedagogia speciale). 
Sono professare a contratto in alcune università italiane ed estere dove insegno “etica e deontologia professionale”, nonché bioetica e storia della medicina.
Ho scritto numerosi articoli in riviste di settore e come editorialista in quotidiani locali e nazionali. 
Da libero professionista svolgo docenza di materie inerenti il mondo della comunicazione all’interno di corsi finanziati dal FSE e non e collaboro con alcuni enti di formazione professionale del Veneto ed Emilia Romagna.
Ho un “blogger” tutto mio dove annoto appunti di vita: “unfilosofoelavita” su WordPress. 
Single per scelta, adoro viaggiare, leggere (soprattutto saggistica), ascoltare e andare al cinema. Amo la buona tavola, adoro i mercatini dell’antiquariato e i festival del vintage (non ne perdo uno e acquisto l’impossibile!!).
Concludo con una citazione a me cara di William Hazlitt: “Una parola delicata, uno sguardo gentile, un sorriso bonario possono plasmare meraviglie e compiere miracoli”.

 

NOTE:
1. Dante, La divina commedia, Purgatorio, I, 71

[Immagine tratta da Google Immagini]

La resilienza: uno strumento contro il terrorismo

Dopo un attacco terroristico si parla spesso di resilienza. La resilienza (ing., resilience) indica la capacità delle persone di superare un evento traumatico e continuare la propria vita, adattandosi alle nuove circostanze. Il concetto di resilienza è chiamato in causa da alcuni esperti di terrorismo, secondo cui preparare la popolazione civile ad essere resiliente, rimanere compatta e non cedere alla paura non è solo un concetto nobile, ma uno dei migliori strumenti nella lotta al terrorismo1. Una lotta con un margine di errore intrinseco, perché garantire la sicurezza al 100% di fronte alla minaccia terroristica è impossibile.

Pur non essendo stati preparati da alcun corso sulla resilienza, ad oggi siamo in molti in Europa ad aver provato sulla nostra pelle che cosa significhi essere resilienti in seguito ad un attacco terroristico. Al concerto di Manchester di Ariana Grande, tornata sul palco solo una decina di giorni dopo l’attacco del 22 maggio, si sono presentati in 50,000: 50,000 persone che, nonostante la paura e con il pensiero che il terrorismo colpisce, ma non si sa né quando né dove, hanno dimostrato la resilienza di una città intera.

Anche la resilienza di Bruxelles è stata messa a dura prova tra il 2015 e il 2016. A seguito degli attentati di Parigi, la capitale Europea, considerata la base degli attentatori, è stata costretta ad un rigido lockdown2: per una settimana ha vissuto in una situazione surreale, con sistemi di trasporto chiusi, eventi sociali annullati e militari in assetto da guerra ad ogni angolo della città; l’unico modo per proteggere la popolazione pareva essere quello di far stare le persone a casa (ma lontano dalle finestre!)3. Non è facile dimostrare la propria resilienza quando le occasioni di socialità vengono ridotte al minimo indispensabile. Una strategia che si rivela ben presto non sostenibile. Non appena le autorità lo permettono, Bruxelles torna a vivere esattamente come prima, nonostante il pericolo non fosse diminuito: Salah Abdeslam, la mente degli attacchi di Parigi, era ancora super ricercato in tutta Europa, e in particolare a Bruxelles. I militari in assetto da guerra rimanevano e rimangono tutt’oggi a vigilare ogni obiettivo sensibile4. A riprova che il pericolo era latente, gli attacchi che pochi giorni dopo la cattura di Salah colpiscono l’aeroporto di Bruxelles Zaventem e la fermata metro di Maalbeek. Nessun lockdown questa volta: ognuno si misura con il proprio grado di resilienza, senza costrizioni.

La resilienza è una caratteristica naturale dell’essere umano: va però ottimizzata. Alla luce dei continui attacchi in Europa, la strategia della resilienza dovrebbe trovare più spazio nella comunicazione delle autorità con i cittadini. Essere resilienti non significa solo continuare le proprie attività quotidiane nonostante il pericolo: significa anche non cedere al panico e all’allarmismo. Nel periodo storico in cui viviamo, il pericolo esiste perché alla luce della natura della minaccia, la sicurezza totale non può essere garantita neanche dal migliore dei servizi segreti. Con questo presupposto, una persona educata alla resilienza contiene meglio la paura: a sua volta evita di contribuire alla sensazione di insicurezza, alimentata invece dal volume di notizie che ci bombardano ininterrottamente. Infatti, comunicare ossessivamente informazioni non necessarie su certi accadimenti contribuisce alla diffusione del panico (spesso anche a portata di click) e non favorisce un atteggiamento resiliente.

All’indomani degli attacchi di Bruxelles, una psicoterapeuta specializzata nell’aiutare vittime a superare lo stress post-traumatico, suggeriva, per esempio, di non ascoltare né leggere notiziari a meno che non comunicassero effettivamente notizie aggiuntive rispetto a quelle comunicate in precedenza. Ascoltare molte volte la stessa notizia ingigantisce la sensazione di insicurezza, senza veramente comunicare alcuna informazione: evitandolo, invece, si aiuta ad arginare l’allarmismo, sia a livello individuale che di comunità.

La resilienza va spiegata ed insegnata ai cittadini: molti stati europei hanno infatti un livello di minaccia terroristica significativo. Essere resilienti non significa minimizzare il pericolo, piuttosto adottare un atteggiamento razionale.

Le misure di sicurezza aggiuntive, i continui falsi allarmi bomba che interrompono le attività giornaliere e richiedono evacuazioni, i pacchi sospetti abbandonati e fatti brillare per sicurezza, i militari con armi pesanti a vista in strade, aeroporti, stazioni, metropolitane, palestre, hotel, centri commerciali, non aiutano di certo a placare la sensazione di insicurezza, e possibilmente la aggravano. Tuttavia, una preparazione adeguata della popolazione permette la razionalizzazione di queste misure in quanto parte di un determinato contesto conosciuto (quello della minaccia esistente) ed evita inutili allarmismi.

 

Francesca Capano

 

NOTE
1. Psychological Resilience to Terrorism.
2. Il lockdown è definito come una situazione d’isolamento e blocco, in cui le normali attività e gli spostamenti sono ridotti al minimo o vietati.
3. Più volte durante il lockdown della città le autorità chiedevano ai cittadini di allontanarsi dalle finestre in aree in cui era in corso un’operazione antiterrorismo.
4. Non era inusuale, per esempio, andare in palestra e trovare militari con le loro armi pesanti passeggiare tra le persone che si allenavano.

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Il coraggio di seguire se stessi: “Va’ dove ti porta il cuore”

«Ogni volta in cui, crescendo, avrai  voglia di cambiare le cose sbagliate in cose giuste, ricordati che la prima rivoluzione da fare è quella dentro se stessi, la prima e la più importante. […] E quando poi davanti a te si apriranno tante strade e non saprai quale prendere, non imboccarne una a caso, ma siediti e aspetta. […] Stai ferma, in silenzio e ascolta il tuo cuore, quando poi ti parla, alzati e va’ dove lui ti porta»1.

Così l’anziana signora, protagonista del romanzo di Susanna Tamaro, scrive a conclusione della lunga lettera dedicata alla nipote lontana, una lettera che si fa portavoce di tutto il “non-detto” tra le due protagoniste, scritta con la profondità di chi ha vissuto intensamente, sopportando i pregiudizi e le convenzioni di un’epoca che mostra la propria rigida limitatezza. La nonna, a cui l’autrice dà voce, rende il lungo monologo una sorta di autobiografica descrizione, nella quale si mostra per quello che è, aprendo il proprio cuore alla giovane, rimanendo inerte agli occhi di chi ama, con il coraggio di chi si difende con la sola forza della sincerità del sentimento. Discussioni, litigi, rimorsi lasciano spazio alla più autentica confessione, dove le barriere tra due generazioni vengono superate dall’ immortalità del legame d’amore.

Il romanzo ruota dunque attorno al conflitto tra ragione e cuore, quel cuore tanto disprezzato e relegato a sinonimo di debolezza, deriso dai più perché invocato solo dagli uomini fragili e che la nonna erge invece ad ultimo baluardo di una vita vera. «Il cuore fa ormai pensare a qualcosa di ingenuo, dozzinale. […] è un termine che non usa più nessuno. […] Chi bada al cuore è uno stolto. E se le cose invece non fossero così, se fosse vero proprio il contrario?»2.

Il dubbio viene insinuato dall’anziana ormai al termine della propria esistenza, suscitando una serie di riflessioni correlate che portano a leggere i diversi personaggi, così come le diverse situazioni secondo il binomio ragione-sentimento.

Tale duplicità, caratterizzante l’uomo fin dalle sue più ancestrali origini, a ben vedere ha segnato la storia della letteratura e della filosofia: Catullo cercava di frenare i propri sentimenti non corrisposti sopportando con razionalità e «tenendo duro»3, Jane Austen parlava di “Sense and Sensibility”, Freud dell’eterna contesa tra pulsioni inconsce e la necessità di razionalizzarle, Nietzche di apollineo e dionisiaco, i due principi opposti: quello regolatore e quello caotico.

Si tratta dunque di due aspetti in eterno contrasto tra loro, talvolta integrati quali due facce della stessa medaglia, che in fondo costituiscono l’essenza di ognuno di noi. Quanto ci ascoltiamo in profondità e quanto invece ci lasciamo frenare dalla ragione dominatrice? Quanto riusciamo ad essere in intimo contatto con noi stessi e con i nostri sentimenti? Quanto accettiamo le nostre profonde esigenze e quanto ci lasciamo condizionare dal prossimo?

Oggi, in una realtà che non lascia il tempo di pensare, che ci avvolge e travolge nella necessità del “fare”, abbiamo perso il tempo di ascoltare e ascoltarci, di seguire davvero quello che vogliamo, senza paura di suscitare riprovazione.

Oggi più che in altre epoche storiche abbiamo in un certo senso dimenticato che tutto ciò che serve è dentro di noi e, soltanto con l’umile accettazione della nostra persona possiamo davvero scegliere secondo le nostre propensioni.

«La rinuncia di sé conduce al disprezzo, dal disprezzo alla rabbia il passo è breve»4 dice la protagonista, osservando come rifiutare sé per compiacere chi ci sta di fronte, così come dimenticare la propria intimità, produce un effetto devastante, portando al disagio esistenziale, all’odio e alla rabbia verso se stessi e verso chi imputiamo come responsabile della nostra infelicità. Rifugiandoci tra le alte mura del razionale dimentichiamo spesso di guardare oltre le finestre di queste mura, di apprezzare i diversificati colori che si presentano ai nostri occhi, per abbracciare quelli che più si conformano a noi.

Il coraggio, in controtendenza all’idea comune, sta nell’accettarsi, questo lascia trapelare la protagonista, non nel dimostrare “carattere”, laddove quest’ultimo diventa sinonimo di rigidità, di un pensiero totalitario che offusca la comprensione per seguire idee incontestabili e indiscutibili.

Un invito a non aver paura di se stessi, ad aver coraggio, un coraggio che si misura tutto in una intimità ritrovata, messaggio che dovrebbe essere accolto da tutti, nell’ordine di un’esistenza di comunione con il proprio io.

Anna Tieppo

NOTE
1. Susanna Tamaro, Va’ dove ti porta il cuore, Milano, Mondadori, 1994, p. 165.
2. Ivi, pp. 72-73
3. Catullo in Aa. Vv., Opera. L’età di Cesare, Varese, Paravia, 2003,  tomo 1b, p. 160.
4. Susanna Tamaro, Va’ dove ti porta il cuore, cit., p. 34.

[L’immagine, tratta da Google Immagini, raffigura un murales del popolare street artist Bansky]

 

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Il coraggio della filosofia: intervista a Diego Fusaro

In uno dei contesti più interessanti di Treviso, la chiesa sconsacrata che è parte del museo di Santa Caterina, ha luogo uno degli incontri dell’edizione 2016 del festival letterario trevigiano Carta Carbone.
L’ospite che ho deciso di intervistare è Diego Fusaro, giovane e discusso filosofo, nonché intellettuale di riferimento di una scalpitante parte di persone che vuole e sente il dovere di criticare il più fortemente possibile il contesto culturale, economico e sociale contemporaneo. Fusaro, attraverso i propri libri, le proprie lezioni all’Università San Raffaele di Milano, i propri articoli, dà voce a queste spinte coniugando temi marxisti e di critica verso la società della tecnica, l’americanismo, la globalizzazione.

Il tema del dibattito di oggi è quello del coraggio, cui Fusaro ha anche dedicato un suo libro intitolato appunto Coraggio, edito da Raffaello Cortina nel 2012. Il coraggio di cui Fusaro parla oggi, oltre che in diversi luoghi dei suoi scritti, è il coraggio della filosofia intesa appunto come critica del potere, del sistema dominante, della violenza in tutte le sue forme. Come sfondo a questo tipo di proposte e di impostazione sta una personalità e un percorso filosofico particolare, che vale la pena approfondire.

 
Lei, in modo anche controverso e non scevro da polemiche, fa della critica al sistema il cavallo di battaglia del suo pensiero e del pensiero in generale. Pensare significa essere dissidenti nei confronti del potere, di ciò che è ingiusto, ecc. C’è un modo particolare con cui un giovane può diventare un bravo pensatore o critico?

Non ho una risposta preordinata a questa domanda, anche perché presuppone che io sia un bravo critico ed è tutto da dimostrare. Io comunque consiglierei a un giovane di studiare i testi classici e di provare a pensare liberamente al di là dei condizionamenti a cui vengono sottoposti. Se dovessi dare un consiglio non richiesto direi di tornare ad Aristotele e Platone, dai giganti, vedendoli nell’espressività filosofica generale dei loro sistemi.

Una novità rilevante e molto interessante nel suo pensiero è la coniugazione di temi strettamente marxisti con temi che invece appartengono alla destra o all’area conservatrice del pensiero e che si ritrova in autori come Heidegger, Jünger, Schmitt. Qual è il terreno che li accomuna oggi?

Il terreno che li accomuna è il rigetto integrale della società della tecnica e del capitalismo. Nonostante questo, sono diverse le analisi che fanno, le diagnosi e le prospettive e proprio riguardo queste ultime mi sento ovviamente più vicino a Marx rispetto che a Jünger o a Heidegger. Per quel che riguarda però la forza critica rispetto al mondo della tecnica credo che abbiamo moltissimo da imparare anche da Heidegger e da Jünger e credo sia frutto di un condizionamento ideologico non studiare questi autori oggi.

Trova in Italia oggi dei validi interpreti o critici del mondo contemporaneo?

Li trovo ma sempre ai margini della filosofia, in verità. Penso ad esempio, senza parlare del mio maestro compianto Costanzo Preve in cui riconosco la più grande voce filosofica degli ultimi anni, di trovare spunti interessanti in Massimo Fini o in autori che non sono propriamente filosofi come Alberto Bagnai, che è un economista; trovo spunti interessanti in giornalisti, economisti e altri. La filosofia mi pare sia in una fase di congelamento ideologico.

Crede in questo senso che i pensatori più in voga all’estero abbiano da dire di più, rispetto a quelli italiani?

Ci sono all’estero pensatori interessanti anche se a volte scadono un po’ nel postmoderno. Pensiamo ad esempio a Žižek, di cui condivido la valorizzazione di Hegel, la critica radicale del capitalismo e che però poi strizza un po’ troppo l’occhio alle ricadute postmoderne del presente. Badiou è interessantissimo così come Alain de Benoist che però non è propriamente un filosofo, ed è in questo senso un po’ ai margini.

Sicuramente i cosiddetti ‘poteri forti’ o le tendenze globali che sono troppo ampie e complesse da gestire hanno un ruolo nello stato di malessere sociale attuale. Non crede però che nelle democrazie occidentali ci sia una grave mancanza di doveri da rispettare (come quello di informarsi, studiare, partecipare), che arginerebbero i mali e favorirebbero i diritti?

Certo che sì. Oggi viviamo nella società in cui ci sono solo diritti acquisibili e acquistabili e in cui tutto è merce. Ci sono solo diritti corrispondenti alla capacità di acquisto. Anche i figli oggi diventano diritti, che è una figura concettualmente assurda; oggi un diritto è la capacità di essere economicamente solventi. È una società del ‘tutto è possibile’ a patto che si abbia l’equivalente monetario corrispondente.

Infine, cosa ha significato o significa per lei fare filosofia?

Per me fare filosofia significa interrogarmi sul mio tempo cercando di coglierlo nei concetti e di porlo in relazione all’eterno, a ciò che è vero sempre. Direi che questo dovrebbe fare il filosofo.

Luca Mauceri

NOTA: Questa intervista ci è stata rilasciata domenica 16 ottobre 2016 in occasione del Carta Carbone Festival di Treviso.

[Immagine tratta da Google Immagini]