Odia il prossimo tuo come te stesso

Qualcosa sta cambiando nel mondo. Serpeggiano venti strani che ci spingono sempre di più a guardarci con diffidenza. La tesi che sosterrò in questo articolo è che abbiamo iniziato ad odiare molto di più gli altri nella misura in cui odiamo noi stessi.

Del resto risulterebbe altrimenti inspiegabile l’accanimento che stiamo riversando costantemente verso quattro (proporzionalmente sono pochi, andate a guardarvi le statistiche) disperati che decidono di salire sui barconi mettendo in gioco le loro vite, e poco cambia che siano migranti economici o rifugiati: da qualcosa scappano.

L’argomento che mi interessa veramente affrontare è perché noi scappiamo da noi stessi. Scappiamo da ogni legame di fratellanza o di vicinanza verso la nostra stessa specie, indulgiamo di più nel mettere il cappotto al cane, magari pure di marca, al posto di metterlo a un nostro simile, che è simile in tutto: organi interni, dentatura, sguardo, labbra, mani, ogni tanto differisce solo per il colore della pelle, ma credo che lì sia solo una questione di melanina.

Riusciamo a dare amore incondizionato ai nostri “simili” o a ciò che percepiamo come tali, compresi i nostri affetti animali, che comprendo, ma non giustifico. Avendo due gatti capisco bene che ci si possa pure affezionare, ma ciò non giustifica un dato fortemente inquietante: stiamo forse diventando tutti schizofrenici? Credo e spero proprio di no, considerato che la matrice della schizofrenia (dal greco schizein σχίζειν, “dividere” e phrēn φρήν, genitivo φρενός, “mente”) è sostanzialmente una «dissociazione come limitazione, distorsione o perdita dei comuni nessi associativi nello svolgimento logico del pensiero»1 che riguarda anche il comportamento verso gli altri. Il punto vero è che ormai tale dissociazione rischia di insinuarsi nel nostro selettivo modo di essere, cioè nella capacità di riconoscere anche i nostri simili come tali e noi come specie.

Come siamo arrivati a questo punto?

Come abbiamo potuto, nonostante le nostre radici cristiane, dimenticarci di noi stessi?

L’Europa cristiana che vorremmo contrapporre ad altri modelli si basa sul Vangelo, cioè un racconto dove si intrecciano volti, storie, la potenza e la fragilità degli incontri. C’è un luogo che Gesù predilige per i suoi incontri: la tavola. Vi si siede insieme con le persone più diverse, con puri e impuri, con amici e perfino con gli avversari. Ed è in quegli incontri nelle case, intorno al cibo e al vino, che Gesù propone sogni di futuro, immagini di Dio e di un mondo nuovo dove l’umanità sia più forte e numerosa che in qualsiasi altro luogo.

Se apriste il Vangelo invece di giurarci sopra vi accorgereste che la tavola non è per l’alimentazione, ma per la condivisione, quella vera. L’evangelizzazione stessa passa da quello strumento lì: la convivialità, lo stare insieme, il sedersi gli uni accanto agli altri. Secondo qualche autore il 50% del Vangelo di Luca si svolge intorno alla tavola (così sostiene J. Tolentino Mendonça2). La tavola in questo caso non è solo luogo di approvvigionamento di sostanze nutritive, ma luogo privilegiato per gli incontri, incontri che hanno il sapore buono dell’amicizia.

Seduti alla stessa tavola noi ci nutriamo di cibo, ma soprattutto ci alimentiamo gli uni gli altri, della presenza degli altri. La tavola comune è una invenzione antropologica fondamentale che ha come obiettivo le relazioni, non la nutrizione, il dare spazio a quegli incontri che costruiscono la nostra identità. Tutti abbiamo bisogno di essere curati e custoditi nelle nostre differenze, ma senza la relazione con l’altro da noi non abbiamo speranza salvo la prigionia inarrestabile delle nostre convinzioni. Senza turbamento non sussiste nemmeno il concetto stesso di normalità. Senza dialettica, senza confronto, non esiste il movimento: tutto resta fermo, statico e inerte.

Alla fine resteremo soli, carichi delle nostre invidie, in un mondo che diventerà sempre più piccolo − e forse meno significante, più semplice − ma meno stimolante.

Odiamo il prossimo ma dimentichiamo che l’amicizia di Gesù è quella che accoglie tutti prima della loro stessa conversione; un modo di essere che non cerca seguaci, ma gente che stia con lui. Forse qualcuno si convertirà, forse nessuno. Ma Gesù non fa calcoli di questo genere. Il suo sguardo non si posa sulla dignità o meno delle persone, sulla loro fedina penale, sulla purezza rituale, sul colore della loro pelle. La forza dell’Occidente e delle sue origini cristiane è quella di scavalcare le norme e le clausole acquisite, raggiungendo davvero l’essenza della “creatura”, del suo bisogno e della sua povertà, della sua strutturale imperfezione.

La forza dell’Occidente è che non si avvicina alle persone con una griglia di classificazioni morali ma offre un’amicizia che abbraccia l’imperfezione; mostra il suo bisogno nativo, divino, di abbracciare l’imperfezione di questa esistenza.

L’amore è esigente, bruciante; l’amicizia è benevola e indulgente. E poter tornare a parlare di amicizia tra i popoli al posto dell’odio imperante di questi tempi ha un vantaggio enorme; amore e passione di unirsi, irruenza di fusione. L’amicizia cammina per la via umile della gratuità, abbraccia l’imperfezione, prende tempo, ammette che un rapporto possa essere strutturalmente imperfetto. La vita è così: una relazione con l’Altro da noi reale e imperfetto.

Una delle particolarità del Vangelo di Luca è di raccontarci ben tre incontri di Gesù ospite alla tavola dei farisei: «Uno dei farisei lo invitò a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola.» (7,36); «Dopo che ebbe finito di parlare, un fariseo lo invitò a pranzo. Egli entrò e si mise a tavola.» (11,37); «Un sabato era entrato in casa di uno dei capi dei farisei per pranzare e la gente stava ad osservarlo.» (14,1).

Tutto parte da un invito, da un gesto di rispetto, di attenzione, forse nei confronti del giovane rabbi o forse nel riconoscimento che tutti siamo stati bambini, che tutti in un certo modo siamo uguali e viviamo e conviviamo ogni giorno con le nostre imperfezioni. Odiamo gli altri perché sono poveri, miserabili, fragili senza accorgerci che odiamo in loro esattamente quello che siamo noi stessi. Odiamo noi stessi come odiamo gli altri.

 

Matteo Montagner

 

NOTE
1. U. Galimberti, Dizionario di Psicologia, UTET, Torino, 2008, p. 835.
2. José Tolentino Calaça de Mendonça è un arcivescovo cattolico, teologo e poeta portoghese; dal 26 giugno 2018 arcivescovo titolare di Suava.

[Credit Tobi Oluremi]

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Le parole chiave dell’Adunata degli Alpini

Città di Treviso, un caldo fine settimana di maggio, strade chiuse al traffico, più di 500 mila persone disseminate nelle vie del centro storico, tricolori ovunque. È il week end dell’Adunata Nazionale degli Alpini.

Un appuntamento giunto alla sua novantesima edizione, che per tre giorni ha cristallizzato la città facendo vivere la sua gente in un’atmosfera sospesa dalla solitaria e frenetica routine che caratterizza i nostri tempi. Un evento particolarmente sentito dalla popolazione, che ha risposto all’iniziativa con una partecipazione decisamente numerosa. Una manifestazione che mi ha sorpresa e affascinata, e che vorrei raccontare attraverso tre parole chiave; quelle tre caratteristiche che più mi hanno colpita e che mi hanno aiutata a capire il senso profondo di questa adunata.

Convivialità. Il clima di profonda festa e di profonda convivialità che faceva da tela alla manifestazione lo si poteva esperire appieno già a partire dal viaggio in autobus, indubbiamente il mezzo più agevole per raggiungere la città. Durante i tre giorni dell’adunata, gli autobus sono stati sovraccarichi di persone che molto probabilmente ne facevano uso per la prima volta; persone che non esitavano a scambiarsi informazioni sulla manifestazione; persone che, a differenza dei consueti passeggeri settimanali, condividevano i minuti del tragitto chiacchierando tra loro. E persone che si riunivano ad ascoltare i racconti di qualche passeggero dall’inconfondibile cappello con la piuma nera. Ebbene sì, onnipresenti nel territorio trevigiano, gli alpini non mancavano mai all’appello di narrare le loro esperienze più importanti. Impossibile relegarli al silenzio con timidezza: gli alpini volevano e dovevano parlare al loro pubblico. Hanno partecipato all’Adunata così numerosi per noi, e noi, se volevamo assistervi con autenticità, dovevamo saperci disporre all’ascolto, accettando con disponibilità e simpatia il pacchetto all-inclusive.

Ordine. Il senso dell’ordine e della disciplina caratteristico dei valori degli alpini, come si può ben immaginare, ha trovato la sua massima espressione nella sfilata domenicale. Sono stati 80mila gli alpini che vi hanno preso parte, provenienti da ogni parte d’Italia, e in alcuni casi anche dall’estero. Impossibile non sentirsi coinvolti dai sorrisi e dall’entusiasmo di quell’ordinato scorrere di uomini (e di donne: presenti, sebbene in minoranza) che procedevano a passo di marcia, trainati dalle musiche di bande e fanfare. La maestosa compostezza del corteo rispecchiava la geometria delle camicie a quadri, che tanto hanno riempito gli occhi degli spettatori. Un fiume che ha sfilato per tutta la giornata in città, sembrando una cosa sola, tanto era forte l’unione che lo disciplinava. Valori, quelli dell’ordine e della coesione, che al giorno d’oggi risultano in molti casi superati, complice la nostra volontà di essere padroni di noi stessi senza freni inibitori e senza la disponibilità ad accettare consigli o puntualizzazioni da quanti ci stanno attorno.

Forza d’animo. Considerato il sole cocente di questo fortunato fine settimana di primavera inoltrata, la presenza di alpini di una certa età non era affatto scontata. Eppure c’erano, ritti e fieri, malgrado le rughe sul volto, i capelli bianchi, la schiena ricurva e le gambe stanche. D’altra parte, la forza d’animo e la forza di sopportazione del sacrificio che hanno temprato le scorse generazioni non trovano di certo ostacolo in qualche chilometro da percorrere a piedi. Le maniche di camicia rimboccate per loro non sono un semplice modo di dire; sono piuttosto il naturale atteggiamento nei confronti della vita e delle sue avversità. Anche in questo caso, dovremmo essere capaci di prendere esempio da quanto è stato in passato: dovremmo farci forza, imparare a sopportare, imparare a ricucire e ricostruire. Dovremmo limitare la predisposizione all’usa-e-getta che ci è stata imposta dalla contemporaneità, la quale finisce inevitabilmente per influenzare anche le nostre relazioni e il nostro rapporto con gli oggetti di cui usufruiamo.

Ciò che è accaduto in passato non legittima quanto avviene nel presente; la quotidianità deve essere in grado di autolegittimarsi, di trovare in se stessa le sue ragion d’essere. Storia e memoria non vanno confuse; ma è altrettanto vero che la storia ha bisogno di essere tramandata e di far conoscere ai posteri i valori che l’hanno plasmata. «Se dal presente non viene alcuna sollecitazione a mantenere vivo il rapporto con il passato subentra negli individui e nei gruppi quella forma particolare della memoria che è l’oblio»1. E dimenticare, in storia, è tutto fuorché un atteggiamento morale.

Federica Bonisiol

NOTE:

1. Bruno Cartosio, Parole scritte e parlate. Intrecci di storia e memoria nelle identità del Novecento, Società di mutuo soccorso Ernesto de Martino, Venezia 2016, pag. 57

 

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La tensione tra infinito e sostenibilità del limite

Daniel Callahan, cofondatore con Willard Gaylin dell’Hastings Center di New York e Direttore dell’International Programin, critica tre approcci della pratica medica nella medicina occidentale. Innanzitutto la volontà di dominare e asservire la natura, aspirazione in base alla quale anche la stessa morte costituisce un semplice e anonimo difetto biologico suscettibile di correzione e destinato ad arrendersi ai poteri dell’egemonia della scienza; in secondo luogo, considera la sua tensione a proporsi orizzonti irraggiungibili, illimitati, non ammettendo la sola possibilità di un ‘punto d’arrivo’ soddisfacente. Infine l’autore fa luce sull’aggressivo espansionismo sociale, una tendenza invasiva ad insinuarsi in ogni aspetto della vita umana (sfociando, così, nella ‘medicalizzazione’).

Parlando di ‘medicina sostenibile’, Callahan propone uno slittamento progressivo di enfasi clinica alle cronicità, alla prevenzione sociale, dalla ricerca di una salute eterna al raggiungimento di un più maturo equilibrio tra le esigenze della natura e le prospettive della ricerca: propone, cioè, il recupero di una medicina tradizionale umanizzata. In Callahan vi è uno slancio verso un ritorno della comunità internazionale ai valori della convivialità, della sobrietà, di una medicina capace rispettare i naturali limiti biologici della dimensione umana e spirituale nella relazione terapeutica. Nel mondo della medicina di Callahan si promuove sistematicamente la stabilità, nella tensione a scongiurare la morte prematura e proteggere tutti i cittadini in maniera equa dalle malformazioni fisiche e mentali. L’autore si pone un quesito riguardo il rapporto, il legame che àncora la vita alla medicina: si chiede cioè se l’individuo debba modificare la propria concezione della medicina o piuttosto la propria concezione riguardo la vita. Callahan sostiene che una radicale revisione, riguardi e debba riguardare entrambe queste realtà in quanto:

«[…] Una vita che dipendesse per il proprio significato dai puntelli e dal progresso della medicina non […] sembrerebbe vita, a dispetto del fatto che il […] corpo continuerebbe a vivere per un po’. Una medicina che promettesse continuamente nuovi miracoli, nuovi corpi e nuovi io per veder finanziata la propria ricerca e per giustificare i propri colossali investimenti […] sembrerebbe una medicina che ha perduto la retta via, dimenticando di non essere affatto la via di accesso alla vita felice»1.

L’autore si batte contro le distorsioni introdotte da un approccio esclusivamente scientifico dell’applicazione medica, la cui fragilità risiede anche nel non dare ascolto ai punti di forza delle tradizioni e delle pratiche antiche.

«La mia tesi è che le società moderne […] hanno bisogno di una medicina “sostenibile”[…], una medicina che, sul terreno della ricerca non meno che su quello dell’assistenza, aspiri a conseguire una condizione di stabilità a un livello economicamente sopportabile, equamente accessibile e nello stesso tempo psicologicamente sostenibile, ossia tale da soddisfare la maggior parte […] dei bisogni e delle aspettative ragionevoli concernenti la salute. Quello a cui penso è un cambiamento sul terreno degli ideali e delle speranze della medicina, non solo su quello dell’organizzazione e dell’erogazione dell’assistenza sanitaria ai malati»2.

Una medicina economicamente sostenibile sarebbe, necessariamente, una medicina del razionamento e dei limiti la quale, tuttavia, si serve di essi per salvaguardare l’equità: essa porterebbe così l’individuo all’accettazione di una realtà continua e permanente del rischio (quale, per altro, si configura la natura umana), della malattia tentando di elaborare una prospettiva attraverso cui ‘proporsi’, presentarsi ed adattarsi nel miglior modo possibile. Al contrario, l’attuale espansionismo medico, sempre più emergente e senza controllo, è causa di una crescente insoddisfazione: se da un lato, infatti, l’uomo non è ancora riuscito a dominare e piegare la natura alle proprie materiali aspirazioni attraverso la medicina, dall’altro gli stessi successi dal suo progetto di dominio hanno generato una serie di nuovi problemi. La medicina moderna, nella convinzione per cui nella ricerca della salute risiede il segreto del significato della vita, ha portato a ritenere che anche la mortalità stessa, ben lontana dal dovere essere integrata e compresa in una visione equilibrata dell’esistenza, va semplicemente combattuta e rifiutata: la lotta della medicina contro la morte, l’invecchiamento e l’infermità rappresenta addirittura la sola fonte del  significato umano.

«[…] La medicina sostenibile è necessaria non solo perché non possiamo permettercene una diversa, ma anche perché essa può aiutarci a fare piazza pulita della medicina incontentabile e priva di scopi precisi prodotta dal progresso e dall’abbraccio con il modernismo. Una medicina sostenibile ci costringerà a riconsiderare il corpo e la mente, il significato sociale di medicina e assistenza sanitaria, nonché il rapporto tra la medicina e le culture di cui fa parte. Questa è la sola direzione capace di far sì che la medicina economicamente sostenibile lo sia anche psicologicamente»3.

Per Callahan l’uomo deve rendersi consapevole della necessità di modificare i propri valori, le proprie speranze e le proprie aspettative: i cambiamenti del suo modo di pensare devono investire tanto la sua capacità e possibilità di far fronte al fisiologico e inevitabile invecchiamento quanto alle malattie che minacciano la sua sopravvivenza, che incombono e costellano l’esistenza dell’individuo.

«Due sono le frontiere su cui si deve agire: una si estende lungo l’asse temporale dell’invecchiamento, e l’altra lungo quello dei bisogni individuali. Il primo e più importante passo nell’istituzione di queste restrizioni è riconoscere che entrambe le frontiere sono aperte ed infinite e che quindi non potranno mai essere definitivamente conquistate: esse infatti non ammettono alcun limite naturale conosciuto, sebbene se ne siano presi in considerazione alcuni possibili»4.

Callahan, nel sostenere la necessità di stabilire dei limiti, intende evidenziare l’importanza di tenere presenti alcune potenti tensioni, come quella che si crea tra l’accettazione della finitezza della persona in quanto tale e la umana aspirazione al progresso infinito, tra le più disparate esigenze individuali e quelle del bene comune, tra il proprio peculiare perseguimento della salute in quanto valore individuale e l’imprescindibile necessità di destinare le risorse anche ad altri settori. Oggi bisogna lavorare entro ambiti e limiti ben delineati, per stabilire priorità chiare ed inderogabili: uno spiccato senso del limite evidenzierà proprio la necessità di queste priorità.

Riccardo Liguori

NOTE:
1. Daniel Callahan, La medicina impossibile. Le utopie e gli errori della medicina moderna, tr.it a cura di Rodolfo Rini, Baldini & Castoldi, Milano, 2000, pag.18.
2. Ivi, pag. 24.
3. Ivi, pag. 319.
4. Ivi, pag. 223.

[Immagine tratta da Google Immagini]