Il bisogno di contatto: scuola e pandemia

È passato poco più di un anno dall’inizio della pandemia e dal primo lockdown nazionale, nonché dalla chiusura delle scuole – un anno da quando tutto ci sembrava irreale e assurdo ma, così speravamo, probabilmente temporaneo.

All’inizio si guardava alla scuola via Meet o agli aperitivi tra amici via Zoom con curiosità ed entusiasmo, ma ora queste modalità di contatto fanno parte delle nostre vite quotidiane.
Ma si tratta davvero di “contatto”?
Prendiamo ad esempio l’ambiente scolastico.
C’è una certa intimità insita nell’aula: la porta si chiude e il docente sta con gli studenti, in uno spazio identificabile e delimitato. Si fa lezione ma si crea anche un legame, fatto di sguardi, di richiami all’attenzione, di domande e di risposte, ma anche di battute scherzose e di rimproveri che sanno di normalità – quando gli studenti mangiano in classe cercando di non farsi scoprire, quando ridono con i compagni.
Tutto questo nella didattica a distanza non c’è.
In classe l’insegnante sale in cattedra, che è come un palco (i teatri: un’altra cosa che ora non possiamo esperire), e da lì inizia il suo spettacolo quotidiano.
Parlare ad una classe reale è tutt’altra esperienza rispetto a quella di rivolgersi ad uno schermo. Dà un senso di realtà, tangibilità. Si possono osservare le reazioni dei ragazzi e delle ragazze, l’impatto immediato che le nostre parole hanno su di loro. Si comprende dal loro sguardo se stanno recependo, se stanno davvero comprendendo ed entrando in gioco con noi o se, al contrario, sono annoiati o persi nei loro pensieri.

Sia chiaro che, con il presente articolo, non si intende affatto screditare la didattica a distanza, che è anzi uno strumento utile ed imprescindibile al quale è necessario ricorrere in caso di emergenza.
Ma è indubbio che essa, sebbene abbia il merito di tenerci vicini anche quando non lo siamo fisicamente, abbia svariate conseguenze negative, che si stanno facendo sentire su studenti e insegnanti.
Ne risente la relazione, ne risente la didattica e i rapporti interpersonali, sociali. Manca soprattutto la sacrosanta divisione tra spazio familiare e scolastico, tra casa e scuola. Cattedra, banco e sedia, le finestre dell’aula, la lavagna (che sia una Lim o quella classica): tutti elementi fisici, tangibili, che non ci sono più. Elementi che richiedono una certa cura e che al contempo danno vita a processi che rientrano nell’automatismo – apro la finestra e la chiudo, sposto il banco o ci appoggio gomiti, mani, testa, sposto la sedia e mi alzo, mi ci siedo, scrivo alla lavagna o cancello quello che c’è già scritto.
Ma questo automatismo è diventato anch’esso qualcosa di perduto, dimenticato, vagheggiato. Lo si ritrova a pezzi, in questa terra di mezzo chiamata didattica mista, in cui la presenza è al 50%. Oggi ci siamo, ci guardiamo negli occhi, siamo insieme per davvero e quasi non ci sembra reale. Domani, invece, Ci vediamo online, collegatevi alle 9″.
Domani i confini saranno di nuovo labili e incerti: qua c’è il mio letto, il mio divano, il mio gatto e la mia scrivania, accendo il computer e di colpo c’è la scuola, ci sono gli insegnanti, i compagni, una lezione intangibile, impalpabile.

È una scuola che non si riesce a toccare, anche se paradossalmente ne resta traccia, ma è una scia virtuale.
Tutto questo ci confonde, ci stordisce. E un ulteriore elemento complica le cose: in presenza i nostri volti sono parzialmente coperti dalla mascherina, ci sorridiamo solo con gli occhi, i docenti sentono i loro studenti prendere la parola ma a volte, nel normale caos di una classe, non si comprende chi sia stato a parlare, perché le labbra sono celate. Da casa, durante le videolezioni, rivediamo i nostri visi interamente: ci scopriamo, al sicuro dietro uno schermo. Per vederci in faccia dobbiamo allontanarci, e questo disorienta.
Il tocco resta precluso in entrambi i casi. Niente pacche sulle spalle se uno studente appare sconfortato o in ansia per una interrogazione. Niente scambi di fogli (se non necessario) o di libri. In teoria, nemmeno gli studenti possono scambiarsi nulla – oggetti, penne, astucci, quaderni, tanto meno cibarie o bevande.

È tutto un esserci, senza esserci per davvero, in toto. Un esserci a metà, una presenza sospesa tra preoccupazioni e virtualità, tra gel disinfettante e mascherina da sistemare bene sul volto, tra mouse, tastiera, microfono e webcam.
Si possono toccare solo le cose di nostra proprietà: non si toccano quelle degli altri, si deve coesistere solipsisticamente, come tante monadi leibniziane che non comunicano autenticamente tra loro.
È una scuola asettica, che ci rende asettici.
Ma possiamo esserlo per davvero?
No, mi sento di rispondere di no. Aneliamo, al contrario, un ritorno: il ritorno alla concretezza, alla spensieratezza, a un tocco che sia con-tatto e scambio concreto.

 

Francesca Plesnizer

 

[Photo credit unsplash.com]

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In contatto con il proprio io e con la natura: I Canti Orfici di Dino Campana

Noto come il “poeta visionario”, teso tra una vita errabonda e gli eccessi psichiatrici, Dino Campana è tra i più singolari letterati del primo Novecento, produttore di opere dal sapore simbolista, che si distinguono per gli aspetti evocativi e per le atmosfere. Sebbene in un secolo sanguinoso la sua poesia possa risultare per certi versi anacronistica, tanto si staglia in un panorama che canta l’uomo in preda alle incertezze esistenziali, essa ha ancora molto da insegnare, specialmente a chi si pone con attenzione in ascolto.

«Ascolta: la luce del crepuscolo attenua/ed agli inquieti spiriti è dolce la tenebra:/ascolta: ti ha vinto la sorte»1 afferma il poeta nel Canto della tenebra, invitando il lettore a porsi in contatto con se stesso, nel momento della giornata in cui le tenebre iniziano a salire e l’uomo è più incline alla riflessione. Solo chi dedica un po’ di tempo ad ascoltarsi, può infatti «intendere» la voce interiore, che in fondo si accorda con la natura e il resto del creato, almeno per i brevi istanti in cui questo legame viene stabilito.

Si tratta di un nesso profondo ma difficile da far affiorare alla percezione cosciente, per la maggior parte del tempo impegnata ad occuparsi di altro: «non so se tra roccie il tuo pallido/ viso m’apparve, o sorriso/ di lontananze ignote»; «non so se la fiamma pallida/ fu dei capelli il vivente/ pallore»2, difficile dunque abbracciare davvero queste “visioni”, l’io è sempre incerto su ciò che vede, sente e percepisce, in una realtà che conferisce sempre meno valore a ciò che l’uomo prova.

Si tratta di un sentimento, quello della crisi, che spesso ritorna alla luce nella letteratura del periodo, sebbene non tutti gli autori lo affrontino allo stesso modo: c’è chi, come Pirandello, mostra un mondo in cui non esiste più alcuna integrità dell’io; chi, come Ungaretti, ci immerge nella realtà cruda e sanguinosa della guerra, mostrando un uomo che non è più uomo; chi, infine, pur vivendo fortemente la caduta delle certezze, come Dino Campana, propone una realtà altra dove rifugiarsi, un mondo affettato, nato dalla propria mente.

Ciò non significa che tutto quello che propone Campana sia una sorta di deviazione alla vera realtà, ma in qualche modo esso rappresenta un “recupero”, un “ripescaggio” di alcuni elementi che vengono riportati alla coscienza e proiettati all’esterno, fatti vivere davvero, per ricreare il puzzle scomposto, che il secolo corrente ha frantumato.

«Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita […] sopra il silenzio fatto intenso essa riviveva il suo mito lontano e selvaggio: mentre per visioni lontane […] anch’esso mistico e selvaggio mi ricorreva a tratti alla mente»3. Questo sentimento del lontano, come già affermava Leopardi, permette di fermare per brevi istanti il mondo, di distanziarsi per un momento dai consueti rumori quotidiani, per porci nell’atteggiamento giusto della riflessione e dell’ascolto.

Solo allora, quando il nostro animo è davvero ben disposto, quando abbiamo in un certo senso abbandonato gli schemi mentali della nostra vita, possiamo percepire le melodie che ci legano alla natura e a noi stessi: «era una melodia, era un alito? Qualche cosa era fuori dei vetri. Aprii la finestra: era lo Scirocco»4, afferma il poeta in Scirocco, lasciando intendere che, se l’uomo è ben disposto può sentire la voce della natura, in un gioco di scambio reciproco con il creato.

In sostanza, quello che ci vuole dire Campana è che nell’uomo permane sempre qualcosa di profondo, non in contrasto ma in accordo con gli altri, con sé e con la realtà, basta lasciarlo emergere e non aver paura di farlo parlare.

In questo modo, possiamo anche noi fermarci per un attimo «al porto», con il nostro battello che «si posa nel crepuscolo che brilla»5, e sentire quel soffio che ci rende parte dell’infinito creato.

 

Anna Tieppo

 

NOTE:
1. D. Campana, Canti Orfici e altre poesie, Einaudi, Torino 2014, p. 30, da Il canto della tenebra.
2. Ivi, p. 25, da La Chimera.
3Ivi, p. 9 da La Notte.
4. Ivi, p. 113 da Scirocco.
5Ivi, p.132, da Genova.

 

[Photo credits via Unsplash.com]

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