Il costo psico-sociale del progresso tecnologico

Questa riflessione nasce dopo la visione delle prime puntate di Black Mirror, una serie televisiva britannica, ideata e prodotta da Charlie Brooker per Endemol che vi consiglio di guardare se siete pronti a mettere in discussione tutto il mondo che vi circonda.
Il filo conduttore di ogni episodio sembra riguardare il progresso tecnologico, la dipendenza da esso e i danni collaterali provocati alla razza umana. Vengono immaginate e ricreate diverse situazioni del mondo moderno o futuro in cui una nuova invenzione tecnologica o un’idea paradossale ha in qualche modo destabilizzato la società e i sentimenti umani. In altre parole, parliamo di una serie-tv che mostra una visione futura della società umana basata sugli attuali trend tecnologici di socializzazione virtuale, interazione, connessione costante e gamification.

Ciò che emerge è uno scenario a dir poco devastante e stupefacente che tratteggia l’assuefazione che il progresso tecnologico sta prospettando per il futuro. Provate a pensare ad una realtà in cui verranno impiantati micro-schermi nella retina (Z-Eyes) con cui bloccare (oscurandone la visione come nei social) persone reali che vi stanno antipatiche, controllare e ricontrollare fino allo sfinimento il vostro passato alla ricerca di errori, dettagli insignificanti, ricordi struggenti e momenti intimi che dovrebbero restare irripetibili.
Pensate ad un futuro che vedrà un’integrazione completa tra la vita reale e la vita virtuale e i social, talmente tanto riuscita da dare vita a figure professionali che cureranno il vostro punteggio, i vostri follower, le vostre relazioni interpersonali in streaming grazie a chip inseriti sottopelle che registreranno tutto come una regia occulta.
Una delle prospettive più sconvolgenti che viene mostrata vede addirittura la commercializzazione di un macabro software che permette di parlare con un defunto grazie alla realtà aumentata ed alla eredità social cristallizzata sul web di tutti noi.
Guardando questa serie ho pensato che tutto ciò, sebbene assolutamente assurdo, è del tutto credibile e possibile perché alcune cose che sono diventate di uso comune oggi sarebbero state impensabili ed assurdamente inutili anni fa.

Tutto è possibile ed estremamente più vicino di quanto si pensi (Google Glass): non ci vorrà tanto, ma quale sarà il costo psicologico e sociale del progresso tecnologico? A cosa stiamo rinunciando, a cosa rinunceremo, quali danni stiamo arrecando ai nostri processi cognitivi e relazionali abusando in questo modo del virtuale a scapito del reale?
Perché il pericolo esiste: è bene che questo si sappia e che non venga sminuito. Ci troviamo di fronte ad un’evoluzione che oggi è più che esponenziale, che corre e si rincorre come nella storia non è mai avvenuto.
Da tempo sociologi e psicologi cercano di avvertirci, parlano per esempio dei quasi mitologici Hikikomori, poveri adolescenti che hanno scelto di ritirarsi dalla vita sociale, che passano la loro vita in una camera, credendo di giocare attraverso una consolle, di fare sport attraverso un avatar virtuale e di socializzare attraverso Facebook. E non sto parlando di una puntata di Black Mirror.

I danni di questo progresso sono solo minimamente immaginabili perché i risultati potremo osservarli realmente solo tra qualche generazione.
Il compianto Bauman asseriva: «Il vantaggio della rete è la possibilità di una comunicazione istantanea, ma questa possibilità ha delle conseguenze, degli svantaggi non calcolati. I social media spesso sono una via di fuga dai problemi del nostro mondo off-line, una dimensione in cui ci rifugiamo per non affrontare le difficoltà della nostra vita reale»1.
Ovviamente sarei ipocrita a dire che il progresso tecnologico, i social, il web non hanno migliorato il nostro tenore di vita. Sarei falso se volessi proporre un arretramento: grazie al web questo mio articolo raggiungerà centinaia di persone; qual è però il costo di questa di questa amplificazione? Centinaia di persone passano le giornate a confrontarsi non più fisicamente, attraverso il dibattito, ma sterilmente attraverso la tastiera: via la faccia, le anime, il pathos, via il confronto reale.
Grazie ai social network si entra in contatto con persone ormai lontane, ci si ritrova, ma in realtà la discussione si allontana fisicamente, credendo di interagire, di socializzare. A fine serata provate a fermarvi, provate a pensare a quanto hanno vibrato le vostre corde vocali, quanta aria fresca è entrata nei vostri polmoni, provate a pensare, se non ci fosse stato WhatsApp sareste usciti per parlare con quegli stessi amici? Ritenete una comodità restare in casa mentre chiacchierate della vostra giornata super-piena di lavoro? Sarà un vantaggio poter riguardare il passato coscienti di non poterlo comunque cambiare? Come vi sentireste se al centro delle recensioni non ci fossero più solo ristoranti (dietro cui ci sono comunque persone) ma voi, il vostro carattere? È un’app così assurda da immaginare?

L’obiettivo non è regredire: non si vuole perdere nulla. Io credo che l’umanità debba pensare al suo futuro proprio agendo sulla concezione di esso, calibrando attentamente la nostra concezione di progresso tecnologico, di futuro. Abbiamo bisogno di rallentare, capire che uno smartphone, l’uso indiscriminato di Facebook, potrà regalare ai nostri figli un magnifico mondo inesistente, una vita soffusa, un’economia sterile, una civiltà che non è, già ora, più interessata al bello, all’arte, alla cultura.
Credo sia necessario individuare una capacità di sviluppo tecnologico sostenibile che ci consenta di migliorare la nostra vita quel tanto che basta per non creare una perdita futura dal punto di vista sociale e lavorativo, poiché anche questo è un altro punto sensibile da trattare come si deve.
Il progresso e l’innovazione sono il motore dell’economia industriale, la scintilla che ha portato all’economia del benessere negli anni passati: oggi siamo oltre 7 miliardi di persone su questa Terra, la smaterializzazione dei lavori, la dismissione dell’uomo-operaio, dell’uomo-lavoratore a fronte dell’online distruggerà posti di lavoro e annienterà vite umane. L’economia e il lavoro si adegueranno certamente: siamo sicuri che la crescita e lo sviluppo debbano seguire una via tanto sregolata? Siamo sicuri che non sia più giusto seguire il vivere bene piuttosto che il vivere meglio?

Flavio Albano

Flavio R. Albano è docente a contratto di Economia e Gestione delle Imprese presso l’Università degli studi di Bari. Dal 2006 collabora con aziende di servizi turistici di tutta Italia nella selezione, formazione e gestione delle risorse umane. Ad oggi ha all’attivo diverse ricerche scientifiche, pubblicazioni e partecipazioni a conferenze internazionali, collabora con diversi enti pubblici e privati sullo sviluppo di analisi di marketing territoriale. Nel 2014 ha pubblicato il libro “Turismo & Management d’impresa” subito adottato all’Università della Basilicata. Nel tempo libero scrive romanzi di narrativa, dipinge, suona la batteria e recitare resta la sua più grande passione.

NOTE:
1. Z. Bauman, La vita tra reale e virtuale, Egea, Milano 2014.

[L’immagine, tratta da Google Immagini, è un fermo immagine di una puntata di Black Mirror]

I piccoli muoiono, nel mondo dei grandi

In questi giorni è sufficiente aprire un quotidiano, sintonizzare la tv su d’un telegiornale oppure accedere al web, per avere notizia del precipitoso avvicendarsi di eventi che stanno coinvolgendo la Turchia. Una delle notizie che – sarebbe parso strano il contrario – stanno avendo maggiore risonanza è quella che riporta l’abolizione del reato di pedofilia per abusi sessuali commessi a danno di persone di età inferiore a 15 anni: alcune fonti ne parlano come di una delle azioni repressive conseguenti al fallito golpe, alcune altre riferiscono di un parere negativo della Corte Costituzionale turca a proposito del primo comma dell’articolo 103 del codice penale turco1. Non ci interessa, in queste righe, stabilire l’origine di un tale atto: le ragioni di quanto sta accadendo in Turchia, probabilmente, non si riveleranno nell’immediato e saranno più profonde di quanto è possibile intendere fino ad ora; inoltre, rischieremmo di ritrovarci in una impasse sterile. Se ci fermassimo soltanto dato attuale, all’abolizione del reato di pedofilia in Turchia, perderemmo di vista il punto cruciale della questione.

Bisogna invece fermarsi a riflettere sulla terribile esposizione dei bambini alle pratiche di violenza che interessano il mondo: la vita degli esseri umani adulti ha un effetto particolare su quegli esseri umani che adulti non sono ancora; e i bambini che abitano al di là della cortina dell’indifferenza, quel confine oltre il quale gli eventi più atroci non ci toccano mai davvero2. Anche prima di questo parere negativo da parte della Corte Costituzionale turca, i diritti dei minori sono stati sistematicamente violati, non solo nei paesi orientali, in cui la situazione è aggravata da un’instabilità politica notevole e dal proliferare di scontri armati.
Basta digitare le parole giuste su d’un qualsiasi motore di ricerca per avere sullo schermo dati preoccupanti; dati che, se correttamente sintetizzati, concorrono a tratteggiare un panorama agghiacciante. I dati dell’Archivio Disarmo3  riferiscono di più di 200.000 bambini utilizzati a vario titolo negli scontri mondiali di tutto il mondo: bambini utilizzati come spie, assassini, esche, molto spesso manipolati anche tramite la somministrazione forzata di droghe; i rapporti Unicef4 raccontano che almeno 200.000.000 di donne subiscono mutilazioni genitali quando hanno meno di 5 anni: nel 2015 si è registrato un aumento dei casi di mutilazioni genitali di vario tipo, causato anche da un concomitante aumento demografico e si stima che, se non si registrerà un’inversione di trend, nel 2030 86 milioni di ragazze nate tra il 2010 ed il 2015 subirà mutilazioni genitali di vario genere5;  nel solo aprile 2014 Boko Haram6 ha rapito 219 ragazze, costrette a matrimoni con i guerriglieri, ne ha usata una di 9 anni come ordigno per un attentato in un mercato del Camerun; le gravidanze precoci cui vengono obbligate le cosiddette spose bambine causano, ogni anno, la morte di circa 70.000 ragazze d’età compresa tra i 15 ed i 19 anni; sono impiegati nel mondo più di 15 milioni di bambini e bambine, molti dei quali costretti a svolgere mansioni pericolose, anche in ambito domestico; 120 milioni di persone, di età inferiore ai 20 anni, dichiarano di aver subito violenze sessuali ad un certo punto della loro vita; un bambino siriano su cinque, tra quelli che hanno raggiunto l’Europa come profughi, soffre del disturbo post-traumatico da stress7.

E poi arriviamo a qualche giorno fa, quando una campagna delle Forze rivoluzionarie siriane mostra alcuni bambini che chiedono di essere trovati e salvati, con lo stesso zelo con cui l’Occidente si è mosso per andare in cerca dei Pokemon nascosti tra le trame della realtà aumentata, da un conflitto che – fino ad ora – ha mietuto più di 400.000 morti ed ha inciso indelebilmente sulle condizioni di vita di quei bambini.

Ogni giorno, accedendo ad internet, ciascuno di noi può osservare coi propri occhi le condizioni a cui costringiamo milioni di bambini; può osservare le sofferenze che contribuiamo a far passare sotto silenzio ogni volta che preferiamo non guardare: cresciamo con un’ostentazione programmata della violenza, con un feticcio per l’estetica del male e della sofferenza che causa; con un’ossessione per lo svelamento e la cronaca minuziosa delle pratiche più oscure, che talvolta scade in forme di perversa celebrazione. Eppure siamo troppo sensibili quando bisogna aprire gli occhi sulla carne e sul sangue dei nostri bambini, che muoiono ogni giorno, che patiscono in questa realtà senza sovrastrutture virtuali o vie di fuga, senza alcuna evasione possibile, nella realtà diminuita, la cui totalità sembra perdere ogni senso o spiegazione.

Dimentichiamoci, allora, di tutti i loro volti: siriani, europei, turchi, statunitensi.
Dimentichiamoci dei loro corpi, non solo di quelli che vengono annientati dalla parte sbagliata del confine, dalla parte dei buoni.
Dimentichiamoci una volta per tutte che i piccoli muoiono, nel mondo dei grandi, e continuiamo a vivere come abbiamo sempre fatto, liberi anche di questo peso che grava sugli affari dei grandi, di quelli che contano, di quelli che ne capiscono.

Emanuele Lepore

Questo articolo viene volutamente pubblicato senza alcuna immagine specifica: ogni tanto, anche agli occhi va dato il loro silenzio.

NOTE:
1. Cfr http://www.davidpuente.it/blog/2016/07/21/annullato-il-reato-di-pedofilia-turchia-amnistia-le-nozze-con-le-spose-bambine/
2. Al limite ci scandalizzano in superficie, per pochi minuti, solo fino a quando non pubblichiamo uno tweet in cui ci diciamo indignati. In relazione all’abolizione del reato di pedofilia in Turchia, la superficialità ha impedito di riportare una notizia pulita, senza stratificazioni politiche che tradiscono un pregiudizio di fondo nei confronti dei paesi orientali.
3. http://www.archiviodisarmo.it/index.php/it/2013-05-08-17-44-50/sistema-informativo-a-schede-sis/231-i-bambini-soldato
4. http://www.minori.it/it/news/rapporto-unicef-sulle-mutilazioni-genitali-femminili .
5. Tra le più cruente e frequenti, spiccano l’escissione e l’infibulazione.
6. Si veda il dossier pubblicato da InDifesa: http://www.terredeshommes.it/dnload/InDifesaDossier_2015.pdf?lang=it; il dossier qui citato propone dati sconcertanti a proposito di varie forme di violenza sui minori: aborti selettivi, violenze sessuali nei campi profughi.
7. La lista di questi dati, liberamente consultabili, potrebbe continuare a lungo e fare da contraltare alla narrazione  quotidiana di un mondo in cui le guerre sono combattute soltanto tra adulti, in cui le conseguenze delle nefandezze di cui siamo abituati ad avere più o meno notizia interessano soltanto gli adulti e sono lette soltanto per il loro peso strategico, militare, geo-politico ed economico. Si tratta, inoltre, di una lista volutamente parziale: non si tiene conto, in questo articolo, delle sofferenze a cui i bambini sono sottoposti specificamente nei paesi occidentali sviluppati.