Una citazione per voi: Socrate e la ricerca di sé

 

• CONOSCI TE STESSO •

 

Conosci te stesso (gnōthi seautón) è una delle espressioni filosofiche più conosciute e diffuse. Sebbene lo si riconduca spesso a Socrate, che incitando a conoscere e seguire il proprio daimon ne fece un vero e proprio stile di vita, il detto risale a ben prima e non se ne conosce la vera origine.

Si dice che conosci te stesso fosse l’iscrizione del Tempio di Delfi in cui chiunque nell’antica Grecia poteva cercare consiglio dall’oracolo sulle azioni migliori da intraprendere. Conosci te stesso è però attribuita anche ad alcuni dei primissimi saggi e filosofi: Talete, Biante, Chilone (che l’avrebbe ricevuta in risposta a una sua domanda proprio dall’oracolo) e altri.

Ciò che resta sicuro di fronte a questi confusi elementi storici è che “conosci te stesso” ha trasceso questo o quel filosofo o e i relativi pensieri. L’espressione non solo si è diffusa nella cultura greca classica ma ne ha plasmato l’identità, permeandone ogni aspetto e mostrandoci ancora oggi quel volto della grecità.

Anche la cultura romana se ne ispirò: nosce te ipsum divenne presto il suggerimento di pensatori e autori per iniziare il percorso verso la verità (pensiamo a quanto ci tramanda sant’Agostino: «è nel profondo dell’uomo che risiede la verità»).

Conoscere se stessi sin dalle origini ha comportato molti altri pensieri ed atteggiamenti ad esso connessi: il vivere secondo misura, la ricerca della realizzazione personale, della connessione con la spiritualità e molto altro. Per questo non mancano nemmeno oggi i riferimenti a questa massima, che continua a ispirare e incoraggiare qualsiasi ricerca verso la verità non solo interiore, ma del mondo stesso.

 

Luca Mauceri

 

[Immagine modificata tratta da Twitter]

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Potrei ma non voglio. A colloquio con il nostro demone socratico

Eravamo quelli della meritocrazia, quelli che volevano che le cose fossero giuste e uguali, uguali per tutti; che tutti avessero gli stessi diritti degli altri, le stesse opportunità. Le abbiamo ottenute. L’istruzione è diventata accessibile a (quasi) tutti; con internet possiamo scoprire tutto quello che ci incuriosisce e le possibilità che sentiamo di maneggiare iniziano a diventare infinite. Infinite, questa non è detto sia una buona cosa, non è un aggettivo che si addice sempre all’essere umano. Sono caratteristiche di Dio, o dell’universo, o dell’immaginazione. Ma mai di qualcosa che si sia concretizzato tra le nostre mani. Nei meccanismi di uno smartphone, nelle effettive possibilità che abbiamo a portata di mano.

Uno dei drammi che l’umanità era abituata a vivere era quello della mancanza delle possibilità, che era certamente legata alla mancanza di soldi, o quantomeno al fatto di avere opportunità direttamente proporzionali al proprio reddito. Oggi la situazione è cambiata: non dico che ogni tipo di possibilità sia nelle mani di tutti, ma poco ci manca. Se desideriamo intraprendere una strada, il modo di realizzarla è accessibile alla maggior parte delle persone. E le strade sono tante, le possibilità pressoché infinite.

Non ci si chiede più quindi quale scuola ci potrà maggiormente garantire un lavoro, ora possiamo permetterci di scegliere, di far venire a galla il nostro gusto, il nostro talento e i desideri più reconditi di realizzazione personale.
Si pone però il problema centrale della confusione dei nostri giorni: sappiamo riconoscere queste tre cose? I nostri gusti, i talenti che abbiamo e i nostri desideri? Dagli incontri che svolgo nelle scuole, con genitori, con ragazzi iscritti da anni o che stanno per iscriversi all’università, mi viene da dire di no. No, dopo le medie è spesso troppo presto. Dopo le superiori anche. Dopo l’università non ne parliamo: con la testa sulle nuvole della teoria senza saper come declinare le nostre conoscenze. Ma anche dopo anni e anni di lavoro quando vogliamo reinventare la nostra carriera non sappiamo dove andare. Eppure è tutto a nostra disposizione, abbiamo possibili orizzonti infiniti davanti a noi, davanti allo schermo di un computer o del telefono.

Internet ci costringe a fare i conti con tutto quello che non stiamo facendo e che vediamo in real time che gli altri stanno realizzando. Studio, serate con gli amici, corsi di aggiornamento, risultati e celebrazioni. Tutti gli aspetti positivi che vengono pompati sui social e che ci fanno rendere conto che noi siamo dall’altra parte dello schermo a guardare, senza poter buttare in risposta qualcosa di simile.

E vorremmo essere al posto di ognuno di questi, fare le loro cose, le loro carriere, le loro esperienze e ci chiediamo da dove cominciare. Tutto questo perché non ci conosciamo abbastanza. Perché non siamo partiti dal “conosci te stesso” del tempio di Apollo a Delfi.

Non ci resta che metterci offline e dedicarci all’interiorità, agli input interni, alla nostra voce interiore che ci può indicare una strada senza vederla già segnata. Possiamo fare appello al daimon (demone) di cui parlava Socrate: una sorta di divinità privata e interiore. L’angioletto sulla spalla che si contrappone alle scelte sbagliate di una persona. Non indicava infatti la strada da seguire, ma dissuadeva dal compiere certe scelte.

Guido Calogero lo descrive così: «Si tratta di una voce della coscienza alquanto strana, poiché il demone distoglie ma non invita, si limita cioè a proibire di fare qualcosa, ma non stimola a determinate azioni»1.

Oggi il daimon – o qualsiasi altra voce interiore – l’abbiamo sostituita perlopiù con la voce di nostra madre che ci dice cosa è giusto per noi, senza neanche dissuaderci dalle scelte sbagliate, perché le sue sono sempre giuste. Non siamo più abituati ad ascoltarci, ma a cedere alle pressioni esterne e alle aspettative degli altri. Il daimon socratico invece ci spinge a discutere con noi stessi. Ad argomentare quando sentiamo venire a galla un desiderio, a domandarci perché e in che modo possiamo realizzare qualcosa.

Il demone ci spinge a scegliere senza essere trainati dalle possibilità (infinite) che abbiamo davanti, ma facendo i conti con il nostro passato e le nostre abilità, ci costringe a scegliere dopo averci dissuaso da decisioni sbagliate. Scegliere, nella prospettiva platonica, significa infatti prendere possesso criticamente del proprio passato per migliorare il presente.

Il demone ci spinge a realizzare la nostra eudaimonìa, ovvero il nostro “spirito buono” (letteralmente), cioè posseduto da buon demone, da quel demone che ci permette di realizzare la felicità che sgomita per farci creare un percorso su misura. Sulla misura di chi siamo e non delle opportunità che altrimenti passeremmo la vita a osservare e invidiare da dietro uno schermo.

 

Giacomo Dall’Ava

 

NOTE
1. G. Calogero, Erasmo, Socrate e il Nuovo Testamento, Accademia Naz. dei Lincei, 1972

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Conosci te stesso. L’imperativo dimenticato

Il tempo presente, dominato dal vivere superficiale, sembra aver dimenticato l’importanza decisiva di un’autentica e profonda conoscenza di se stessi. Alle radici della nostra storia e della nostra cultura vi è proprio il motto socratico “conosci te stesso”. Socrate non l’aveva inventato, ma l’aveva letto, stando a quanto riferisce Platone, sul frontone del tempio di Apollo a Delfi e l’aveva assunto come guida della ricerca filosofica. Il pensatore, passeggiando per le strade di Atene, incalzava i suoi giovani interlocutori mettendoli nelle condizioni di scendere nella propria interiorità, conoscerne ombre e luci, moti profondi della propria anima, così da partorirela verità.

A partire da Socrate la filosofia ha assunto il motto “conosci te stesso” come bordone per la ricerca esistenziale. Una ricerca che suggerisce all’uomo di conoscersi, di operare quindi un cambiamento per pervenire al proprio sé migliore, edificando se stesso secondo il proprio desiderio. Da Agostino d’Ippona che, nel De vera religione, rammenta come la Verità risieda nell’interiorità dell’uomo (in interiore homine habitat veritas) sottolineando l’urgenza di intraprendere un viaggio intellettuale e spirituale dentro se stessi per ri-trovarla. Passando per Kierkegaard, ammiratore dell’esempio socratico, che intende la filosofia non solo come costruzione astratta, quanto piuttosto come ricerca esistenziale su se stesso, al punto da scrivere: «Ciò che in fondo mi manca è di veder chiaro in me stesso, di sapere ‘ciò ch’io devo fare’ [At 9,6] e non ciò che devo conoscere, se non nella misura in cui la conoscenza ha da precedere sempre l’azione. Si tratta di comprendere il mio destino»2. Attraversando il pensiero di Nietzsche che in Ecce homo cerca di penetrare in se stesso e conoscersi per tentare di rivelarci “come si diventa ciò che si è”. Per giungere infine alla psicoanalisi che, agli inizi del Novecento, richiama all’importanza decisiva per la qualità della propria vita, di rendere conscio l’inconscio – che per natura sfugge al controllo e alla percezione dell’Io cosciente – affinché non domini la nostra esistenza impedendoci di realizzare noi stessi con equilibrio e secondo verità.

Un esempio edificante che testimonia quanto sia fondamentale e possibile, conoscere profondamente se stessi per poter condurre in pienezza la propria esistenza, anche in circostanze sfavorevoli, ci giunge dalla vicenda umana di Etty Hillesum. Questa giovane ebrea olandese, al culmine di un disordine psicologico interiore e con l’avanzata inarrestabile delle persecuzioni naziste in Olanda e in Europa, ha scelto di prendersi per mano, conoscersi, per conquistare il proprio sé migliore. Lo ha fatto con l’aiuto dello psicoanalista Julius Spier, raffinato terapeuta, mentore culturale e spirituale, ma soprattutto con il decisivo coraggio e l’imprescindibile volontà personale di costruirsi con nobili materiali, consapevole che per raggiungere la bellezza della sorgente interiore era necessario attraversare le tenebre che la abitavano e che dimorano altresì in ciascuno di noi. Scrive nel proprio Diario: «ecco l’inizio, l’inizio assoluto: prendersi sul serio ed essere convinti che abbia senso trovare una propria forma»3. Questo è stato possibile solo guardando in faccia, ben prima della tragedia esteriore, il proprio abisso interiore, attraversato il quale è pervenuta alla luce della Vita con la sua carica di significato, anche alle porte di Auschwitz. La luce è il proprio desiderio profondo, il proprio amore per la Vita. È la fedeltà alla parte migliore di se stessi. Per questo, al culmine dell’instancabile lavoro interiore, la giovane studentessa di Amsterdam può annotare nel Diario che riesce a sperimentare «una tale intensità di vita, la sensazione di diventare sempre più coscienti e al tempo stesso di vivere più profondamente, nell’intimo, sottraendosi sempre più al caos e acquisendo la propria forma»4.

L’itinerario interiore di Etty Hillesum non è un idillio. È un cammino lungo – che «non può tener conto del tempo»5 – faticoso, irto di difficoltà, che richiede perseveranza e volontà. Poiché, come afferma il coro nell’Agamennone di Eschilo «non c’è conoscenza senza sofferenza», conoscere se stessi ha un prezzo che può consistere in un’iniziale fatica psicologica e spirituale, essenziale per abbandonare una modalità esistenziale mal funzionante. Così infatti si può pervenire ad un nuovo e fruttuoso equilibrio interiore, una nuova saggezza, una nuova luce, che si riverbera poi in una maggiore consapevolezza della propria esistenza, unica e irripetibile e della possibilità di incidere positivamente su di essa, se non esteriormente, almeno e sempre interiormente. Per edificare se stessi con nobili materiali è dunque fondamentale «mettere ordine nel caos»6, comprendere la propria storia, le proprie gioie, le proprie ferite, le proprie dinamiche interiori evitando che ci impediscano di restare fedeli al nostro desiderio, non aderendo al quale «la vita si ammala»7. E se, come afferma Recalcati parafrasando Lacan, «c’è un solo peccato, un solo senso di colpa giustificato: cedere, nel senso di indietreggiare sul proprio desiderio»8, è quanto mai fondamentale riabilitare l’imperativo delfico “conosci te stesso”, come massima che ci conduca alla scoperta del desiderio che ci abita. Quest’ultimo non è capriccio o irrefrenabile impulso ma guida e condizione per la realizzazione di una vita bella e ricca di significato.

 

Alessandro Tonon

NOTE
1. Socrate, paragonandosi alla madre Fenarete che faceva la levatrice,  esercitava l’arte della maieutica per risvegliare nei propri interlocutori il gusto di conoscere se stessi e la verità.
2. S. Kierkegaard, Diari 1834-1842 I, tr. it di C. Fabro, A. G. Quinzio e G. Garrera, Morcelliana, Brescia, 20104, p. 67.
3. E. Hillesum, Diario, tr. it. di C. Passanti e T. Montone, Milano, Adelphi 2013, p. 586.
4. Ivi, p. 309.
5. Ivi, p. 116.
6. Ivi, p. 120.
7. M. Recalcati, La forza del desiderio, Magnano, Qiqajon, 2014.
8. Ivi, p. 51.

 

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Siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni?

Illudersi è piacevole.
Il lavoro dei nostri sogni. La macchina, la casa, il compagno o semplicemente una bella giornata di sole.
Crogiolarsi nelle sensazioni che deriverebbero da un certo accadimento è un hobby che condividiamo in quanto umani.
Si chiama aspettativa, e regola le nostre decisioni. In due modi.
Il primo − più banale − è di ponderare la nostra scelta sulla base di questo sentimento.
Il secondo − che puntualmente ci ricordiamo di dimenticare − è che si tratta di un’arma a doppio taglio. Infatti, quanto più alte sono le nostre aspettative, tanto più grande è la distanza che ci separa dal suolo della non realizzazione nella caduta.
L’equazione è così chiara da essere trasparente. Proprio questo è il punto: ciò che è trasparente non è facile da vedere.

“Volere è potere”. Identità sentita e risentita in cui confidiamo con molto piacere. Pensare che dal nostro volere dipenda il dispiegarsi dei fatti è una convinzione che spesso ci permette di seguire un desiderio.
Peccato che qualcuno da quella frase abbia cancellato una subordinata ipotetica: “Volere è potere, se possibile”.
Questo maestro del bianchetto non ha però agito con malizia. Semplicemente non ha inteso cosa significasse quella possibilità.
Se per possibile intendiamo l’orizzonte delle possibilità infinite, la sua arte del cancelletto avrebbe agito perfettamente, eliminando l’ovvio superfluo.
Ma quel “possibile” ha un’accezione diversa. Indica una possibilità condizionata.

Mi spiego meglio con un esempio.
Mettiamo che io voglia diventare un grande calciatore. Mettendo da parte le difficoltà che ciò comporta (il dedicarsi con costanza allo sport, i possibili fallimenti e la volontà di rialzarsi e realizzare il sogno, sacrifici economici ecc.) se ho le capacità, l’agonismo e la forza d’animo necessari può essere che realizzi il mio obiettivo. Già questo “può essere” contraddice la frase cancellata. Non è infatti sicuro che io diventi un calciatore famoso. Nonostante le condizioni favorevoli fisiche e personali, infiniti accadimenti esterni potrebbero ostacolarmi: un infortunio grave, la non-conciliazione della mia bravura con il riconoscimento di chi può lanciarmi, la sfortuna di una palla sbagliata nel momento cruciale di un provino ecc.
Se fossero però solo accadimenti esterni ad essermi di fronte, potremmo identificare il gran cancellatore come un inguaribile ottimista: ha fiducia nel Fato, crede che il merito premi, e con un sorrisetto potremmo spiegargli che il Mondo è più complicato di ciò che ci raccontano da bambini.
Ma quel “possibile” indica qualcosa che − invece − da noi dipende, eccome.
Infatti, riprendendo l’esempio calcistico, è come se io volessi diventare un grande calciatore pur essendo nato senza una gamba. Certo, esistono gli sport per portatori di handicap e in quel frangente potrei diventare uno dei più bravi, ma non è ciò che sognavo.
Tradotto in termini generali, spesso non riconosciamo un a-priori che rende impossibile ciò che vogliamo.
Quindi siamo tutti stupidi?
No, è questo il punto. Lo facciamo per ignoranza, non per mancanza di intelletto.
La massima socratica del “conosci te stesso” ha un ruolo fondamentale nelle nostre vite.
Molte volte ci intestardiamo con il rincorre sogni che non sono altro da ciò che il loro nome significa: sogni. E la causa può variare: può essere semplicemente il momento sbagliato, può essere la persona sbagliata, il lavoro sbagliato oppure, più tristemente e radicalmente, il sogno sbagliato.

Ora il colpo di scena contraddittorio: non penso che chi abbia riconosciuto il proprio sogno come impossibile debba per forza smettere di rincorrerlo o continuare a sperarci.
Questo è il significato del titolo di questo breve monologo. Sogno o son desto è il punto di partenza. Riconoscersi per quello che si è − nulla di più ma anche nulla di meno − è l’inizio di una vita vera e consapevole.
A quel punto però non c’è una regola che stabilisce come io debba comportarmi. È questo il bello della vita: nessuno ha ancora (per fortuna) inventato una legge che regoli i comportamenti dopo una presa di coscienza di questo genere.
Non si può dimostrare che chi smetta di inseguire i propri sogni perché li ha individuati come irrealizzabili sia più felice di chi invece li insegue perché irrealizzabili.
Fin dai tempi dell’Iliade è stato messo in luce come la polemos che contraddistingue la vita umana sia una condizione irrisolvibile. E l’avversario con cui tutti, nessuno escluso, dobbiamo rapportarci è la morte.
Guardarla in faccia e continuare lo stesso a inseguire un’impossibilità può essere visto come incomprensibile, sembra che quel qualcuno stia sprecando la propria vita senza rendersi conto di come ciò lo spinga alla fine inevitabile senza nulla aver realizzato.
Ma se questa azione viene compiuta in modo consapevole, se cioè si ha chiaro il punto di arrivo e l’inconciliabilità della sua tensione con il traguardo, allora questa pulsione assume tutt’altro significato.
Si trasforma nella stessa identica scelta di chi si arrende all’impossibilità e cerca di convivere con questo fardello. Anzi, forse − e qui l’ipoteticità è d’obbligo − risulta una scelta vitale più forte dalla sua controparte. Assume i connotati dell’accettazione umana verso ciò che da lui non dipende, e viene messa in atto con un sorriso per nulla ironico. Si trasforma in un sì alla vita − tanto caro a Nietzsche − che ha riconosciuto come questa affermazione tenga conto di ogni accadimento possibile − bello o brutto, giusto o ingiusto che sia.

 

Massimiliano Mattiuzzo

[Immagine tratta da Google immagini]

 

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L’esperimento sociale della bombetta

La psicologia ci dice che mediamente impieghiamo dai sette secondi fino a quattro minuti per costruire un’idea della persona che ci sta di fronte. Tu quanto ci metti? Sicuramente ti sarà capitato di impiegarci quell’indicazione minima, quei brevissimi sette secondi all’interno dei quali pensi di aver capito tutto del comportamento, del carattere e delle intenzioni del tuo interlocutore. In un lasso di tempo così ristretto è impossibile cogliere la vera essenza di una persona (inutile dirlo), eppure inconsciamente ci costruiamo delle idee, delle immagini mentali che con forza si impongono nel nostro sguardo verso qualcuno. Il primo impatto si fa così pesante e determinante che spesso facciamo fatica ad essere noi stessi, tendiamo a presentarci al meglio delle nostre possibilità tra linguaggio del corpo ed abbigliamento. Quanta superficialità viene permessa! Quanto terreno che viene conquistato dall’apparenza! Un completo elegante, un viso curato, un orologio di classe al polso pronto a mostrarsi in una stretta di mano. Siamo tutto questo? Sei solo questo? La risposta deve essere “No!” in nome dell’amor proprio.

«Tu non sei il tuo lavoro. Non sei la quantità di soldi che hai in banca; non sei la macchina che guidi né il contenuto del tuo portafogli. Non sei i tuoi vestiti di marca».

Lo afferma Tyler Durden nel romanzo Fight Club di Chuck Palahniuk; forse un po’ banalmente, si potrebbe controbattere. Eppure ci vestiamo di un habitus non nostro, improprio per quel che possiamo davvero mostrare, lo indossiamo e lentamente lo diventiamo. È un’etichetta, un costrutto che non si genera a partire da noi, bensì da una vox populi che si presenta come verità, come via corretta da intraprendere in massa. Il risultato che ne consegue è un non-essere, o meglio una via di mezzo tra quello che essenzialmente siamo e ciò che non è assolutamente parte di noi. Siamo e non siamo allo stesso tempo, una sottile contraddizione che va a minare l’iscrizione sul tempio di Apollo a Delfi «gnōthi sautón» ovverosia conosci te stesso. Se mi faccio carico di un comportamento, di un essere tramandato dalla società, da un qualcosa di altro da me, annichilendomi e togliendo ciò che sono, la conoscenza di me viene assolutamente deviata. La mia essenza verrà data e presentata in modo eteronomo, non più autonomo direbbe Kant, divenendo secondo una volontà altrui, un’influenza esterna.

La verità è che non facciamo realmente ciò che vogliamo, non siamo veramente chi vorremmo essere, assoggettandoci ad una massa capace di includerci, inglobarci e farci omologare. Grandi marche, mode preimpostate, salotti ed interi appartamenti preimpostati. Formazione unilaterale, sempre più iper-specializzata, dalle tabelline all’ingegnere scontento, dalle bocciature al lavoratore manovale sottopagato. Anche la scuola stessa, un percorso obbligatorio, almeno in parte, ci conduce verso una via che si fa sempre più strettoia, sempre più povera di possibilità, di potenzialità secondo l’accezione della dynamis. Il lunedì inietta una prima dose di insoddisfazione, di lamentela generale da maturare sempre di più nel corso della settimana, il tutto in attesa di un sabato sera o di una domenica allo stadio per sfogare tutto quel risentimento, in realtà, diretto verso noi stessi, per non essere davvero sereni, per non essere noi stessi e felici. Il libero arbitrio crolla sempre più sotto il peso di questo parole, il tempo si fa Grande Inquisitore, ogni soggetto si rivela assassino di se stesso, della propria essenza. È una visione tragica, molto interpretativa, che non va posta come accusa al genere umano, come critica dall’alto di un piedistallo che non potrei proprio reggere, che non fa per me.

La soluzione, o meglio la confutazione da promuovere, può trovare ragione o almeno divertimento nel titolo di questo articolo. La bombetta a cui mi riferisco in realtà è solo un escamotage, una metaforica rappresentazione di un possibile atteggiamento. Uscire di casa con un bombetta in stile Charlie Chaplin o Hercule Poirot, poiché si presta bene per la propria assurdità e stravaganza agli occhi curiosi e giudicanti dei passanti, a meno che non ci si ritrovi in Inghilterra. Proprio ritornando da Londra, mi resi conto di quale cambiamento di sensazione poteva esserci nell’andare in giro con una bombetta, passando da un contesto all’ altro. L’obiettivo, però, è arrivare all’ indifferenza rispetto al contesto, slegarsi dalla dipendenza del giudizio, o meglio, del pregiudizio altrui, rivelandone il peso assolutamente inconsistente. Il risultato non può che essere un alleggerimento esistenziale, una leggerezza pari a quella che descrive Kundera ne L’insostenibile leggerezza dell’essere, promuovendo se stessi come essere che corrisponde realmente alla sua essenza ultima.

Dunque, come esperimento, la prossima volta che uscirai di casa prova ad esser davvero chi vorresti essere, vestiti dell’habitus che senti davvero tuo, prova ad indossare la bombetta anche solo per un giorno.

Alvise Gasparini

 

La nuova rivista La Chiave di Sophia #2 dedicata al rapporto tra Uomo e Ambiente. Speciale intervista a Zygmunt Bauman prima della sua scomparsa: "L'arte del dialogo".

 

 

Invece che questuare la politica

Sempre più spesso ci si affida alla politica per la risoluzione di problemi essenziali (addirittura a volte non semplicemente chiedendo ma pretendendo tale risoluzione) – sintomo di uno spaesamento generale che innalza la richiesta di pater familias. Ma una simile richiesta, pretesa, supplica è giustificata? La politica può e/o deve soddisfarla?

Innanzi tutto, per avere almeno una chance di soddisfarla i politici dovrebbero essere degli uomini di cultura e pensiero, cosa oggi sempre più rara, basti notare la pochezza culturale e la piattezza argomentativa di molti di loro.

Ma soprattutto, i politici non possono e non devono soddisfare quella questua di senso, perché la politica – che evidentemente prendo qui in termini istituzionali – è mera amministrazione dell’esistente.

L’amministrazione è il tratto distintivo della politica. Esattamente a questo si riferiva la Arendt in Vita Activa quando comparava il modello politico antico con quello moderno. La teorica della politica notava infatti come nelle poleis la vita domestica, da lei definita come “sfera privata”, era nient’altro che gestione delle necessità biologiche per la sopravvivenza, oikonomia nel senso di amministrazione della casa, mentre la vita pubblica, che si esercitava in quello che lei definiva come “spazio pubblico”, era la sede deputata al perseguimento dell’eccellenza, e l’eccellenza non è amministrabile, è al di là di qualsiasi amministrazione – en passant, ecco il perché del disprezzo per gli schiavi nell’antica Grecia: essi preferiscono aver salva la vita rinunciando al perseguimento dell’eccellenza, possibile solo per gli uomini liberi, anziché rischiare di perdere la vita nel ricercare quella libertà che è conditio sine qua non per il perseguimento di qualcosa di eccellente, e in quanto tale degno di essere ricordato dalle future generazioni. Successivamente (attraverso uno sviluppo per la Arendt imputabile sostanzialmente al cristianesimo ed al marxismo), la politica ha assunto i caratteri che erano in precedenza della sfera privata, trasformandosi in ciò che la pensatrice tedesca chiama il “sociale”, divenendo così mera amministrazione dell’esistente; ed ecco che scompare dal mondo un luogo deputato al perseguimento dell’eccellenza.

A questo punto possiamo chiederci: perché mai la politica come amministrazione non è in grado di affrontare le questioni essenziali?

In sintesi, per almeno due ordini di motivi, uno generale ed uno particolare.

In generale, perché l’amministrazione delle cose lascia le cose essenzialmente come sono: non inserisce fratture nel divenire, non muta l’ordine stabilito delle cose, essendo anzi essa stessa a definirlo, non permette che si diano deviazioni, anomalie, differenze, anormalità ma le riconduce a sé amministrandole; invece, perseguire un’eccellenza, ovvero mettere al mondo il proprio talento, significa proprio eccedere l’ordine stabilito delle cose.

Nel particolare, perché la specifica forma di amministrazione di oggi è dettata dalla razionalità strumentale, esito di un certo rapporto che intratteniamo con la tecnica. Ovvero, è un’amministrazione informata dal criterio della pura efficienza, dell’efficienza per l’efficienza – che in quanto tale, si badi, è efficienza cieca. Prova ne sia il fatto che i politici si vantano di essere efficienti, ad esempio nell’amministrazione di una città o di un Paese, e criticano chi appare non tale.

Eppure, di un’amministrazione c’è pur sempre bisogno. Infatti, cercando di integrare il discorso della Arendt, si può affermare come anche l’antico spazio pubblico fosse retto da un certo tipo di amministrazione. E allora come si può uscire dalla problematica di un’amministrazione senza la quale non si può stare e che però al tempo stesso tende ad impedire l’eccellenza che si dà nella messa al mondo del proprio talento?

Con un tipo speciale di amministrazione, che sia finalizzata alla creazione di luoghi e tempi, contingenze, propedeutici alla realizzazione del proprio talento. Ma come sviluppare un simile tipo di amministrazione?

Assolutamente non chiedendo, pretendendo o implorando che i politici facciano ciò (e così mi ricongiungo all’inizio di questo breve articolo). La politica si può orientare alla realizzazione di talenti solo se e quando le persone, in primis, vivono il proprio talento. Nel Simposio Platone afferma che tutti gli uomini nascono gravidi ma che solo alcuni riescono a sbloccare la propria gravidanza. Bene, coloro i quali partoriscono il proprio talento non vi riescono certo perché un politico, o chi per lui, lo ha fatto in loro vece. Il parto di qualcosa che è dentro di sé avviene sempre in prima persona, o non avviene affatto. E se ciò avviene su larga scala, la politica si adeguerà a tali circostanze: l’amministrazione amministra quel che trova da amministrare.

Invece che questuare la politica, dunque, ci si dovrebbe dedicare alla coltivazione di se stessi. I problemi che emergono nella politica odierna non sono altro che il frammento terminale di una mancanza ben più originaria: artisti e pensatori che accettano di non essere tali, poeti che non poetano, filosofi che non filosofano…

Ma per riuscire a realizzare ciò per cui si è nati – quindi, tanto per farlo quanto per non illudersi che lo si stia facendo solo perché i risultati sociali possono essere buoni e/o perché si sta facendo qualcosa di eccentrico – l’inaggirabile punto di partenza resta sempre il socratico gnothi seauton, conosci te stesso.

Impresa ardua sempre, soprattutto nell’epoca della dismisura strumentale e mediatica.

Federico Sollazzo

[Immagine: Google Immagini]