Tra le interazioni solitarie nella comunicazione quotidiana con Renato Guttuso

Ogni giorno ognuno di noi ha a che fare con la comunicazione nel senso più ampio del termine. Viviamo, in effetti, in un’epoca nella quale comunicare sembra essere diventata una necessità assoluta e, allo stesso tempo, il nostro pane quotidiano. Soprattutto la comunicazione on-line regna sovrana sulle nostre giornate, il suo trono fatto di aggiornamenti e di notifiche campeggia in un regno nel quale il flusso di notizie non ha più argini e, come un fiume in piena, fluisce senza sosta con buona pace di orologi e calendari. Le notizie, in questo modo, sembrano rincorrersi vorticosamente fino quasi a fagocitarsi l’una con l’altra in un grande caos. La sensazione per gli utenti è, spesso, di essere in ritardo o in bilico, come tanti funamboli sul filo degli hashtag in tendenza. Così si affaccia il dubbio, a volte timido, a volte più forte, della qualità di questo tipo di comunicazione che coinvolge anche il nostro modo di comunicare con le altre persone, siano esse conoscenti, sconosciuti o amici intimi. Infatti, non importa se il calendario indichi con un colore diverso dal nero i giorni festivi, tentando, maldestramente, di farci interrompere le nostre ritualità e separarci dalle nostre routine, compresa quella digitale: siamo, tutti, sempre e comunque, perennemente connessi. Varrebbe forse la pena, a questo punto, di chiederci: esattamente con chi siamo connessi? Stiamo, davvero, perennemente comunicando?

La riflessione sul paradosso tra la grande quantità di mezzi a nostra disposizione e le difficoltà nel comunicare con gli altri e uscire dalla solitudine sembra essere tutta dei nostri tempi. In particolare, dopo la pandemia molti sono stati i dibattiti intorno a questo tema e, i più giovani, sono stati e sono tuttora oggetto d’attenzione in questo senso. Infatti l’altra faccia dell’ipercomunicazione si è rivelata essere molto più problematica di quanto si potesse immaginare, restituendoci un quadro a tinte piuttosto fosche di un’intera generazione che fa i conti con lunghe ore di solitaria interazione. In verità, però, questo tipo di riflessione ha radici lontane e anche l’arte pittorica l’ha rappresentata, in modi diversi, soprattutto lungo il ‘900. A tal proposito mi ha sempre affascinata, tanto da diventare per me quasi ipnotica, un’opera di Renato Guttuso. Si tratta di un quadro, del 1980, probabilmente molto meno conosciuto rispetto ad altri lavori di uno dei più importanti artisti italiani del XX secolo. Il titolo è, già di per sé, emblematico: Telefoni (o l’Incomunicabilità); qui Guttuso si ritrae di schiena e la postura sembrerebbe indicare una certa tensione fisica, l’artista tiene la cornetta di un telefono ben attaccata all’orecchio mentre di fronte a lui altri telefoni creano con i loro fili, tutti staccati così come le cornette, un groviglio caotico. Il tentativo che compie – cioè quello di mettersi in contatto con qualcuno – sembra vano, come a voler suggerire che non sarà la moltiplicazione dei mezzi di comunicazione a spazzare via le problematiche legate alla comunicazione stessa tra gli esseri umani. La figura al centro del dipinto resta, così, “appesa”: impossibilitata nello stabilire un contatto; solitaria pur tra tanti colori.

Per tornare ai nostri giorni, quell’immagine pare rappresentare molto bene l’impotenza e l’impossibilità di sentirci realmente connessi e in comunicazione con qualcuno, una sensazione che potrebbe coglierci proprio avendo, di fronte a noi, sterminati mezzi di comunicazione. Soprattutto se pensiamo ai social network: da un lato, la percezione è quella di avere tra le mani un potere nuovo (siamo infatti padroni di un’esperienza senza precedenti, in fondo possiamo scegliere cosa comunicare, cosa eliminare quasi totalmente dai nostri profili, costruirci un piccolo universo a nostro piacimento e così via); dall’altro, potremmo sentire una sorta di smarrimento nella difficoltà di riuscire, realmente, a comunicare in maniera sincera davvero qualcosa. Restare in contatto facilmente con conoscenti e sconosciuti nello stesso, pressoché identico, modo potrebbe, paradossalmente, portare a sentirci molto soli nonché isolati, ognuno nella sua bolla di confortevole alienazione. Le cerchie intorno a noi, intanto, non fanno che estendersi inglobando parenti, amici di vecchia data, persone che frequentiamo ogni giorno, personaggi famosi, influencer, completi sconosciuti ecc., e noi ci sentiamo sempre più muti, fermi sulla soglia dell’incomunicabile. È importante non ignorare questa sensazione ma prenderne atto e cercare delle possibili soluzioni; non si tratta di condannare né le vecchie né le nuove forme di comunicazione quanto di affinare la capacità di non smettere di interrogarci, di capire cosa va bene per noi come individui nella società e continuare la nostra indagine quotidiana dentro e fuori di noi.

 

Veronica Di Gregorio Zitella

 

[Photo credit Volodymyr Hryshchenko via Unsplash]

 

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Connettere p(e)r educare

Questa è solo una delle tantissime storie di innovazione che provengono da un luogo che non si chiama Silicon Valley e per questo fanno meno notizia.

Nonostante questa pregiudiziale un continente come quello africano sta dimostrando di potersi affacciare sulla scena con una miriade di progetti e startup, anche se ci sono ancora non pochi ostacoli da superare. Uno di questi è la connessione ad internet, ancora un sogno per moltissimi e una difficoltà per quasi tutti in Africa, dove l’energia elettrica è spesso un miraggio. Per ovviare a ciò e connettere i 2/3 del mondo che è ad oggi è offline si sono messi in moto vari progetti, come quello, già discusso, di Mark Zuckerberg, ma una più piccola e non meno interessante idea ha preso piede da una realtà totalmente africana. Il progetto, che è in definitiva l’oggetto stesso, si chiama BRCK. È opera di Erik Hersman e Juliana Rotich, già creatori di Ushahidi, la piattaforma di crowdmapping più usata al mondo, nata e sviluppata all’indomani dei conflitti in Kenya con l’intento di tracciare i combattimenti, come risorsa open source per la popolazione.

Ushahidi ora è una non profit tech-company con sede a Nairobi, Kenya, importante centro e incubatore di startups, e si occupa tra le altre cose di promuovere progetti di design e di hi-tech del tutto africani mettendoli in contatto con gli investitori.

BRCK, da leggersi brick, mattone, è uno di questi: consiste in un router mobile di forma rettangolare, del peso di 500 grammi, che semplicemente non ha bisogno di energia elettrica per funzionare e consente una connessione internet stabile anche in condizioni non agevoli. Ha un hard disk da 16 gigabyte, un’autonomia di otto ore ed è capace di passare dalla connessione WiFi a quella ethernet alla banda larga in automatico. Questo compatto mattoncino di 13x7x5 centimetri di  dimensioni può connettere fino a dieci dispositivi ed è stato pensato proprio per le regioni subsahariane nelle quali la connessione va e viene molto frequentemente e non sono rari i black out.

Ed è proprio questa l’obiettivo di fondo: connettere e mantenere la connessione, cosa fondamentale in un continente così vasto e in via di sviluppo in cui le comunicazioni e le risorse della rete stanno diventando necessarie per lo sviluppo stesso e per l’innovazione. Garantirle è garantire un futuro.

BRCK è stato lanciato a fine 2013 ed ha ottenuto copiosi finanziamenti prima su Kickstarter e poi da investitori, e vari premi, vendendo più di 2500 esemplari in 54 paesi.

Ora è tornato con l’iniziativa collaterale BRCK Education e con Kio Kit, un kit per la scuola presentato recentemente, che è un’espansione dell’idea originale. Non più solo connettere, ma connettere per educare. Attualmente in Africa ci sono 400 milioni di bambini in età scolare e la grande maggioranza di loro ha un limitato accesso ad internet. Il cuore di Kio Kit infatti è lo stesso router portatile BRCK a cui sono stati aggiunti 40 tablets, con materiali pre installati e altri scaricabili, resistenti a cadute e all’acqua, e 40 cuffie. Il tutto permette quindi, nelle intenzioni degli ideatori, agli insegnanti di creare una classe multimediale in pochi minuti, potendo collegare a una rete stabile molti dispositivi.

Sicuramente abbiamo di fronte un progetto importante per questa regione a livello sia etico che funzionale. Inoltre il valore aggiunto è dato dal fatto che il prodotto BRCK è totalmente pensato e prodotto in Africa, per l’Africa certo, ma non solo, come recita il testo della campagna: “Born in Africa. Made for anywhere”.

Potrà questa piccola idea vincere la corsa alla connessione dell’Africa o quantomeno dare un contributo alternativo e utile? In molti se lo chiedono.

Tanti sono infatti sono i progetti e gli investimenti per garantire una connessione di qualità in Africa, ma anche in altri paesi in via di sviluppo, come Project Loon di Google e Free Basics di Facebook. Una prima differenza è però che questi lavorano a livello infrastrutturale mentre BRCK si pone come un’alternativa più immediata e vicina alla gente, dato il costo non eccessivo del suo prodotto. Il progetto di Facebook poi è stato criticato perché ad ora permette l’accesso solo ad alcuni siti selezionati. Mentre l’obiettivo dei creatori di BRCK è appunto garantire la connessione internet libera e  per tutti, e grazie a ciò provare anche a vincere una delle grandi sfide dei nostri giorni: un’educazione altrettanto democratica e garantita. Se sarà questo progetto africano a dare una svolta decisiva non si può sapere, ma quello che si può intravedere è che sempre più persone iniziano a credere davvero che la rete possa essere un veicolo dalle possibilità illimitate. Sarà questa la vera democrazia della rete?

Tommaso Meo