Quando un computer ha confutato la dimostrazione dell’esistenza di Dio

<p>3D illustration. Artificial neuron in concept of artificial intelligence. Wall-shaped binary codes make transmission lines of pulses and/or information in an analogy to a microchip.</p>

La storia del pensiero filosofico dell’ultimo millennio può essere raccontata attraverso l’approccio dei diversi filosofi al celebre argomento ontologico. Da Anselmo fino ai giorni nostri passando per Spinoza, Leibniz, Kant e Gödel, grandi menti si sono date battaglia intorno alla sua validità.
L’argomento, tanto semplice quanto geniale, si compone di due premesse e di una conclusione.

  1. Dio è ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore (in perfezione);
  2. Ciò che esiste è maggiore (in perfezione) rispetto a ciò che non esiste;
  3. Di conseguenza Dio esiste necessariamente.

La fascinazione esercitata da questo argomento è dovuta al fatto che a differenza delle prove a posteriori come quelle di Aristotele e San Tommaso, e a differenza degli argomenti su base probabilistica come quella di Pascal, essa è deduttiva, ossia se corretta dimostra una volta per tutte in modo decisivo l’esistenza di Dio. Sarebbe così risolto l’enigma che più di tutti si è affacciato alla coscienza umana.

Nel dibattito contemporaneo senza dubbio la formulazione che ha riscosso maggior successo è dovuta a Kurt Gödel (1970), meglio noto per i due famosissimi e spesso male interpretati teoremi di incompletezza. La formulazione gödeliana ha il vantaggio di tradurre l’argomentazione in termini formali, ottenendo così maggior rigore ed eleganza ed evitando espressioni vaghe presenti nella versione originale che ne inficiavano l’esito.  

Un’altra storia – molto più recente – è invece quella degli automi capaci di computare, cioè di eseguire calcoli matematici o deduzioni logiche. Dall’ideale di Turing alla macchina di Von Neumann fino ai nostri computer, la semplice manipolazione di simboli ha permesso di trasformare in mille modi, alcuni più evidenti di altri, il nostro modo di vivere. La filosofia come qualsiasi altra dimensione della vita contemporanea non rimane esente dal confronto con le nuove tecnologie. Da un lato la filosofia fa ciò che le è proprio: riflette sui limiti di applicazione, sul buon uso, sulle implicazioni etiche; dall’altro se ne serve, come di utili strumenti che servono ad arrivare là dove la capacità umana di calcolo si scontra coi suoi limiti e ben oltre.

Queste due storie apparentemente così estranee si incrociano proprio a questo punto: qualcuno infatti ha pensato di utilizzare un calcolatore programmato allo scopo di verificare la coerenza della dimostrazione logica dell’esistenza di Dio da parte di Gödel. Talvolta infatti alcuni assiomi – le fondamenta sui cui si basano le dimostrazioni – si scoprono inconsistenti: ciò avviene quando derivano teoremi tra loro contraddittori.

Solo così nel 2013 un calcolatore ha derivato due teoremi contraddittori a partire da un assioma su cui si regge l’argomento gödeliano. Ciò lontano dall’essere la prova definitiva dell’inconcludenza dell’argomento ontologico, aperto sempre ad esser riformulato in modo da evitare contraddizioni, ci annuncia – in modo abbastanza appariscente – l’importanza che possono avere le nuove tecnologie di questo tipo applicate alla filosofia.

Questi strumenti, come protesi del pensiero nella sua forma meccanica e formale, possono essere d’aiuto nello svelare alcuni errori che l’uomo, anche il più esperto, può lasciarsi sfuggire. Tuttavia sarà di nuovo compito dell’uomo interpretare i risultati che ci fornisce il calcolatore, capirne il perché ed eventualmente trovare una soluzione se ciò è possibile.

 

Francesco Fanti Rovetta

NOTE:
Per i dettagli tecnici della scoperta cliccate qui.

 

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Riconsiderare il concetto stesso di intelligenza: verso una politica degli algoritmi

Potrà un algoritmo gestire le nostre relazioni? Qual è realmente il progetto umano nelle società che si stanno sviluppando in quei Paesi tecnologicamente avanzati? È fondamentale porsi queste domande perché gli algoritmi ci circondano, in molti casi possono aiutarci ad avere una vita meno complicata, a salvare il nostro tempo ma, soprattutto, come afferma Luciano Floridi (direttore di ricerca di etica presso l’università di Oxford), un algoritmo potrà essere in grado di strutturare anche la politica: politica che purtroppo è fatta in gran parte di comunicazione e decisioni.

Gli algoritmi in questione sono in grado di fare entrambe le cose: vengono infatti utilizzati per comunicare e decidere meglio, non solamente per la comunicazione su Facebook. Questo significa che la tentazione di sostituire la politica degli esseri umani con quella degli algoritmi è molto forte, soprattutto se questa non è delle più democratiche! È importante, dunque, chiedersi se queste due “forze” siano in grado di coordinarsi tra loro.

Ad oggi, in molti Paesi, la voglia è quella di sostituire le decisioni e la comunicazione umana con quella digitale, di fronte a una società che, d’altro canto, sembra essere abituata ad avere timore difronte all’onnipresente Grande Fratello, orwellianamente parlando, ma che può anche essere definito come figura di controllo. In realtà si può arrivare a parlare di un vero e proprio orientamento dei comportamenti e quindi non solo di controllo-punizione per un comportamento negativo. Questo può essere considerato molto più pericoloso per una democrazia in quanto gli algoritmi e i dati digitali sono in grado di monitorare le persone in ogni momento, all’interno del loro cosiddetto “profilo”e decidere che per sempre saranno quel tipo di persona, ma soprattutto sono in grado d’influenzare silenziosamente, a seconda delle varie direzioni. Il nostro comportamento viene in questo caso sicuramente modificato perché, analogamente, è come se fossimo sempre intercettati. Anche per questi motivi è difficile pensare a una democrazia della libertà o a quella politeia priva di personalità autonoma al di fuori della persona stessa; piuttosto, come afferma il sociologo A. Aneesh, ci si avvicina sempre più ad una “algocrazia”.

C’è chi sostiene che l’intelligenza artificiale sia un’estensione di quella umana o che un giorno i robot prenderanno il nostro posto, pensieri che si possono definire naturali proprio perché nascono spesso da una scarsa conoscenza e informazione scientifica. Piuttosto diventa decisivo chiedersi se problemi come questi possono ricadere su temi importanti come quello della giustizia o dell’autonomia, che sono sicuramente più vicini a noi. Gli algoritmi e l’intelligenza artificiale da un lato aiuteranno a gestire le relazioni ma, dall’altro, tratteranno tutti allo stesso modo, senza preferenze. Quando qualcosa non funziona di chi sarà la responsabilità se la decisione verrà presa da un sistema artificiale indipendente? E dal punto di vista dei conflitti sarà giusto riservare le decisioni e le relative responsabilità alle macchine invece che a noi?

E ancora, se pensiamo alla prospettiva di essere visti in ogni angolo della strada, in ogni parte del mondo, si aprono altrettanti interrogativi perché, con lo sviluppo delle tecnologie, sicurezza e privacy saranno destinate a entrare in conflitto. L’algoritmo anche in questo caso struttura la politica: saremo più sicuri ma anche meno liberi.

Pensare che tutto ciò sarà messo in discussione in futuro richiede una grande partecipazione umana poiché questioni come queste, in molti casi, stanno determinando la natura della nostra società. Se ci troviamo difronte ad un’era talmente complessa, all’inizio di una grande rivoluzione tecnologica onnipresente e sempre in connessione, ma soprattutto se noi umani in realtà siamo già diventati interfaccia di tutto questo, diventa fondamentale riconsiderare il concetto stesso di intelligenza e chiedersi: quale sarà il vero algoritmo che regolerà il rapporto tra noi e l’Altra intelligenza?

Come scriveva Pariser in un articolo pubblicato su Internazionale: «Quando la personalizzazione riguarda anche i nostri pensieri, nascono altri problemi. La democrazia dipende dalla capacità dei cittadini di confrontarsi con punti di vista diversi. Quando ci offre solo informazioni che riflettono le nostre opinioni, la tecnologia, può spesso limitare questo confronto. Anche se a volte ci fa comodo vedere quello che vogliamo, in altri momenti è importante che non sia così».

 

Martina Basciano

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

 

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Pornografia tecnologica: meccanismi a nudo

Un’antica storia racconta di un tempo in cui i primi uomini, ancora innocenti e liberi dal peccato, vivevano in una terra dalle sembianze di un paradiso: senza sforzo o lavoro alcuno potevano godere di ogni frutto, senza conoscere fatica.
In molti, dopo una giornata di lavoro, con la schiena dolorante per la cattiva postura sulle sedie dell’ufficio o con la testa ancora pesante per lo studio, avranno fatto fatica a non pensare a questa storia come a una bella favola, un mito lontano. Ma forse questo stesso travaglio quotidiano, l’essere distratti dai piccoli grandi problemi di ogni giorno, li sta distogliendo dal notare che la nostra realtà concreta, apparentemente tanto lontana da quell’ideale paradiso terrestre, lo rievoca invece in alcuni tratti.

Anche se non ha l’aspetto di un giardino, in un certo senso siamo ancora immersi nell’Eden. Un Eden artificiale.

Tra i ripiani di un supermercato, conservati al fresco da luminosi marchingegni frigoriferi, possiamo trovare ortaggi e frutti provenienti dai raccolti di ogni parte del mondo, trasportati su ruote, ali meccaniche o scafi metallici, giunti fino a noi. Non dobbiamo far altro che allungare la mano, per coglierli. Nelle nostre case: tiriamo una leva, e immediatamente scorre acqua fresca. Per dissetarsi o lavarsi. Azioniamo un’altra leva e quei rifiuti sgradevoli alla vista e soprattutto all’olfatto che il corpo produce con naturale regolarità vengono risucchiati via, risparmiando la vista e la nostra delicata sensibilità, e scompaiono senza lasciare traccia.
Un bottone, musica. Un bottone, risaliamo 10 piani di un edificio alto 100 metri. Un altro bottone, per parlare con una persona dall’altra parte del mondo. Siamo alla distanza di un bottone dalla maggior parte degli effetti che inneschiamo ogni giorno. Prima il televisore, poi i computer, e alla fine (fine?) gli smartphone. Nel palmo della mano effetti mirabolanti sono messi in atto da gesti molto semplici. E la fruizione è sempre più raffinata, meno grezza. Non tiro leve, né giro manopole. Basta accarezzare delicatamente con un dito.
A volte neanche è necessario scomodare l’uso degli arti: è sufficiente il comando della voce, e la tecnologia pensa al resto.

Comodità quasi miracolose. Eppure tutti quanti ci ricordiamo che il paradiso è ancora lontano, che niente è veramente gratuito. Ci si potrebbe chiedere allora quale sia il prezzo di questa delega a meccanismi invisibili. Nulla ci dice che sia sbagliato pagarlo, ma forse può essere interessante sapere che lo stiamo facendo.

A differenza dell’Eden biblico, i cui abitanti privi di malizia mostravano le proprie nudità, privi dell’urgenza di nascondere alcunché, il nostro paradiso tecnologico cela i suoi segreti dietro foglie di fico di design fatte di materiali scintillanti. Il meccanismo che collega la causa all’effetto rimane celato agli occhi, e solamente lo specialista conosce il trucco segreto che si nasconde dietro a questa miracolo apparente. La tecnologia che utilizziamo si copre con grande pudore, avvolta in involucri seducenti ed appaganti, che celano la complessità, rilassano la contemplazione estetica dell’oggetto e facilitano l’utilizzo privo di distrazioni, essenziale.

Questo approccio bigotto alla tecnologia rischia di ridursi ad una fruizione superficiale, o di sublimare la goduria dell’utilizzo dei prodotti artificiali in un esercizio di vanità. E rischia di portare con sé un altro messaggio, implicitamente: se ti nascondo, significa che l’importante non è capire, non c’è bisogno che tu sappia come funziona. L’importante è che tu utilizzi, o godi nel possedere.

Come si può accogliere questo messaggio?

Una possibilità è quella di mangiare deliberatamente il frutto proibito dell’albero della conoscenza, per ricadere nella realtà, per riappropriarsene, e allargare il senso dei nostri gesti. Al fine di riuscire a dare valore allo sforzo che la tecnologia svolge al posto nostro, provare a immaginare come si starebbe senza. Capire iTunes, dopo aver messo in moto un giradischi meccanico. Capire un calorifero solo se di notte in una foresta ci siamo riscaldati con un falò. Capire la luce elettrica se con il sole oltre l’orizzonte non abbiamo visto altro che oscurità per una notte intera. Scoprendo la catena dei meccanismi che arrivano a costruire le nostre abitudini, e dare spessore all’immediatezza dei nostri gesti.

E senza fermarsi, perseverare nel peccato, peccare una seconda volta, peccare di lussuria, consumando pornografia. Una pornografia tecnologica per smanettoni. Che metta a nudo quello che c’è sotto, quello che c’è dietro, quello che c’è dentro. Per riparare, modificare, hackerare, riimmaginare nuove combinazioni e possibilità.
Con questo atteggiamento ribadire che se qualcosa non ci è dato nell’immediato, non ci viene posto a facile presa, o non è di facile comprensione, non significa che non sia alla nostra portata. La distanza è sempre colmabile, osservando un meccanismo dopo l’altro, smontando, fino a rompere se necessario, per praticare un’attiva comprensione, al posto di un passivo utilizzo.

Ugualmente degna è la scelta di conferire delega completa alla tecnologia. Non lasciarci distrarre dal meccanismo, impegnandoci a ricostruire nella nostra comprensione quello che ci è stato consegnato come già montato. A questo punto però la domanda diventa un’altra: come vogliamo investire diversamente la nostra attenzione? Se non ci interessa considerare i vecchi problemi per riuscire ad apprezzare le soluzioni contemporanee, quali sono i nuovi problemi con cui decidiamo di avere a che fare?

Matteo Villa

P.S.: A volte ci vuole un’artista per ricordarci la bellezza del meccanismo. Goditi questo video.

 

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In memoria di Aaron Swartz, il figlio di internet

Lo scorso mese si sono commemorati, forse non abbastanza, i tre anni dalla morte di Aaron Swartz, il bambino prodigio, programmatore, blogger, startupper e attivista americano, suicidatosi a soli 26 anni.

Swartz si è tolto la vita l’11 Gennaio 2013, impiccandosi nel suo appartamento di New York. Era indagato per aver scaricato file scientifici dal sito Jstor e rischiava 35 anni di prigione e una multa fino a 4 milioni di dollari. Ma non è stato dimenticato. Ecco perché è importante ricordare lui e le sue battaglie.

“L’informazione è potere. Ma come con ogni tipo di potere, ci sono quelli che se ne vogliono impadronire.”
Aaron Swartz (1986 – 2013)

Quando nasci nei sobborghi di Chicago, hai pochi amici, ma sei estremamente brillante e curioso fin dai primi anni d’età e il tuo primo giocattolo è un computer, allora la strada è ben indirizzata, come racconta egli stesso in varie interviste.

Aaron inizia a programmare all’età di 10 anni insieme ai due fratelli nel garage di casa e a 14 è già un affermato informatico, attivo in forum e convention geek, collaborando alla creazione di siti internet. Come raccontato nel documentario del 2014 The Internet’s Own Boy (online gratuitamente su Youtube e sottotitolato in italiano), Aaron aveva progettato per un concorso scolastico un sito simile a Wikipedia, prima della nascita di questa; “Quando mi dicevano: bello questo Wikipedia vero? io rispondevo: si ma noi ce l’avevamo in casa già cinque anni fa.” racconta uno dei fratelli. Questa infinita curiosità e volontà di conoscenza che si delineava già da allora sarà sempre il filo conduttore dei lavori e delle campagne del ragazzo prodigio di Chicago.

Swartz ha preso parte attiva nella creazione di molte cose che usiamo quotidianamente sul web. Nel 2001, sempre a 14 anni, ha contribuito a creare la prima versione della specifica RSS, il formato per la distribuzione dei contenuti web, sì proprio quella cosina con la quale possiamo aggregare i feed di vari siti e ricevere notizie proveniente da più canali. Con il suo mentore e poi amico Lawrance Lessing ha anche sviluppato l’idea dei Creative Commons (Cc): ovvero le licenze che stanno riformando il mondo del diritto d’autore, nate per la distribuzione gratuita delle opere, garantiscono all’autore solamente la proprietà intellettuale dell’idea. Il successivo sito per creare e aggregare contenuti fu Infogami, di cui Swartz fu cofondatore e che confluì in Reddit, sito di social news, che arrivò a raggiungere i 9 milioni di utenti al mese, prima di essere venduto. E sempre lui si celava dietro a Tor2web.

Ma Swartz non fu solo un genio informatico o meglio non si limitò a questo, poiché intrattenne anche una saltuaria carriera giornalistica e una prolifica attività di blogging, i cui scritti sono da poco raccolti nel libro “Il ragazzo che poteva cambiare il mondo”. Ma lo resero una vera e propria icona e un paladino della rete le battaglie che condusse in prima persona nella parte più matura della sua breve vita e che hanno come comune denominatore il libero accesso alle informazioni che il web può garantire e che non sempre invece garantisce e la democrazia di internet. Ha preso parte al progetto Open Library dell’Internet Archive: una specie di Wikipedia che raggruppa schede di informazioni sui libri, tutto open source, e si è battuto come attivista e portavoce contro la SUPA, una legge del congresso sul copyright e la pirateria che rischiava però di oscurare indiscriminatamente moltissimi siti, riuscendo a bloccarla grazie al larghissimo sostegno della rete e delle piazze.

Il suo attivismo, che dicono molti suoi intimi era diventata la sua vera vocazione, tanto da fargli pensare a una carriera politica, lo portò ancora di più a lottare in tutti i modi per un internet migliore che nella sua equazione significava un mondo migliore. Nella fattispecie ha lavorato per la creazione di una piattaforma di whistleblowing, Whatchdog.net che permette ai dipendenti di denunciare abusi o corruzioni che accadono nelle aziende sotto i loro occhi, mantenendo l’anonimato. Questo sito si espanderà poi in Demandprogress.org altro sito che raccoglie petizioni per migliorare internet, e come già accennato, la battaglia, cruciale per Swartz, dell’open acces, il libero accesso alla scienza e alle informazioni. A questo proposito scrive il Guerrilla Open Access Manifesto, un vero e proprio piano d’azione nel quale in particolare indica il libero accesso alla scienza, che molte volte è invece messa sotto chiave e resa disponibile solo a coloro che sono disposti e possono pagare per essa, come vero veicolo di democrazia.

Nel 2011 Swartz prese di mira la compagnia Jstor, che possiede un archivio di articoli scientifici a pagamento, e tramite i server del MIT di Boston hackerò il sitema per scaricare documenti scientifici.

Venne scoperto e l’FBI, insieme ai servizi segreti preposti ai reati informatici istruisì un caso per furto e possibile ricettazione di documenti.

Sebbene Jstor stesso non ritenne di sporgere un accusa contro Swartz, il procuratore del Massachussetts Carmen Ortiz decise di portare avanti il caso. Swartz venne arrestato e poi rilasciato su cauzione, quindi invitato ad ammettere le sue colpe e patteggiare, cosa che non farà mai. Gli si contestava infatti la possibile vendita di questi documenti, cosa altamente improbabile, e infatti questa indagine che trattava con tale sproporzione un incensurato suscitò molto scalpore. “Rubare è rubare” disse il procuratore, ma Swartz non danneggiò niente e nessuno, voleva solo “liberare” quei documenti per metterli a disposizione o servirsene lui; documenti datati tutti prima del 1923 che in seguito Jstor rese comunque pubblici. Il processo ad Aaron Swartz fu un atto che aveva lo scopo di servire come deterrente contro dei possibili futuri criminali informatici. Aaron che per buona parte della sua vita aveva lottato per un web più aperto e più libero era stato messo alle corde da una vecchia legge, il Computer abuse and fraud act (CFAA) entrata in vigore prima dell’avvento del World Wide Web. Aaron Swartz non ce la fece a superare due anni di battaglie legali e una probabile depressione, e questo ci ha portato via prematuramente non solo un genio dei computer ma, a detta di moltissimi, una delle menti più brillanti della sua generazione, uno che il mondo poteva cambiarlo davvero, perché, in fondo, era quello che voleva.

Dopo la morte di Aaron, un gruppo di deputati, capitanati da Ron Wyden, ha presentato una proposta di modifica al CFAA, per attualizzarlo dopo 30 anni di politiche anacronistiche, con il nome di Aaron’s Law.

Tommaso Meo