Incontrare se stessi: l’impegno etico di un medico tra fatto e significato

Poco più di mezzo secolo fa, viene redatta una raccolta di cinque saggi dal titolo Il medico nell’età della tecnica: a crearla è il filosofo e medico tedesco Karl Jaspers il quale, con quest’opera tenta di analizzare la trasformazione della figura professionale del curante nel contesto contemporaneo, nell’imperante espansione e dominio di una tecnica senza limiti né ostacoli. Si tratta di un’ epoca in cui lo sguardo clinico, attenendosi prettamente all’oggettività dei dati clinici offerti dalla strumentazione tecnica, pone in ombra la sfera soggettiva e intima della malattia vissuta e rifugge la dimensione più umana che in un qualsiasi contesto ospedaliero dovrebbe fondarsi su una onesta comunicazione e relazione di comprensione tra la figura di chi cura e di chi invece riceve una diagnosi ed è, conseguentemente, sottoposto a terapia. Eppure, secondo Jaspers, la figura del medico dovrebbe trovare equilibrio su due solidi pilastri: l’abilità tecnica e la conoscenza scientifica,ma guidata e arricchita dall’intimo potere di quel radicato ethos umanitario che ricorda al medico di non dimenticare la dignità, l’autonomia decisionale del paziente, nonché il suo peculiare e insostituibile valore. Se con l’ideale del medico nell’antichità si prospetta una figura che, come Ippocrate delineò, facendosi filosofo (e nel divenire dell’esistenza pensa “secondo norme eterne”) assume le sembianze della divinità (iatros philosophos isotheos) servendosi del potere fornito dalla tecnica non con tracotanza ma, al contrario, con l’umiltà di chi è ben consapevole dei limiti di ogni forma di sapere (e che proprio per questo non si propone come sapiente bensì come colui che “semplicemente” si cura della sapienza, e che verso di essa è ben disposto), al contrario nella contemporanea dimensione tecnica, l’ars medica procede verso una oggettivazione dell’individuo.

Jaspers vuole far capire come tanto la conoscenza scientifica quanto l’abilità tecnica,  se lasciate senza redini, non possono portare a comprendere come una determinata malattia viene vissuta: e questo perché la spiegazione, che può dare informazioni solo sul modo in cui una specifica alterazione psico-fisica emerge, non porta alla comprensione del motivo per cui la stessa si è originata: e questo, a sua volta, in quanto il motivo in questione non si riferisce ad una causa bensì a un senso. Quindi, seguendo le osservazioni del filosofo, il modo in cui l’uomo si pone nell’esistenza e il senso che attribuisce al mondo sono causa di malattia tanto quanto i dati clinici che lo sguardo scientifico ritiene essere le “uniche cause”. Analizzando una cartella clinica, pur nella sua ricchezza di dati e informazioni, si possono accertare solo dei fatti ma non dei significati, solo la successione causale e non la produzione di senso: quindi solo l’ordine della spiegazione, non approdando così a quello della comprensione. In questo modo:« […] Conoscenza scientifica e abilità tecnica si trovano sempre nella condizione di spiegare qualcosa senza nulla comprendere, a meno di non considerare compreso un fenomeno per il solo fatto che gli si è assegnato un nome[1]».

Il medico che si abbandona ad un approccio univoco e senza intermediari può fornire una spiegazione di fatti ma non arriva alla comprensione dei significati, privandosi di un contatto con la dimensione più intimamente umana dell’individuo malato, e questo perché un fatto derubato del proprio significato non possiede nulla di umano. Il fatto da solo non può esprimere il suo significato. D’altra parte, il significare non è forse riferirsi a qualcosa che va oltre il fatto stesso (quindi il trascenderlo)? Non è forse quel qualcosa che si rivela analizzando il senso cui il fatto rinvia e non il modo con cui il fatto si verifica? Non a caso Jaspers ricorda che «fatti fisiologici, considerati in se stessi, ci sono, ma non significano nulla. Il corpo che li registra è puro organismo, è cosa, non intenzionalità dispiegata in un mondo. Finché la medicina considera il corpo nel suo isolamento, come corpo (Körper) e non come corpo vivente in un mondo (Leib), finché si limita a raccogliere fatti, invece di interrogare i fenomeni, […] la medicina non potrà che collegare una serie di “dati insignificanti”, aver scelto quel terreno delle scienze positive dove i significati sono esclusi, perché il metodo esige che ci si attenga esclusivamente ai fatti[2]

Il rischio di rendersi ciechi di fronte all’insieme dei significati porta all’impossibilità di capire l’intimo legame tra la corporeità vissuta nell’esistenza e l’organismo che la medicina, attraverso la sua applicazione tecno-scientifica, va a descrivere. Anzi, Jaspers, come sottolinea il filosofo Galimberti (curatore della prefazione e introduzione del libro di cui si sta parlando), dice ancora di più «la coincidenza di corpo ed esistenza è in quel “ben-essere” in cui l’Io aderisce al suo stato corporeo. […] Non è una parte dell’organismo che soffre, ma è il rapporto con il mondo che si è contratto, è la mia distanza dalle cose, la successione del tempo, l’ordine della presenza[3]

Il malessere provato  dal paziente, tramite il proprio corpo, che è un’apertura originaria al mondo della vita è soprattutto «uno squilibrio dell’esistenza costretta a vivere nel proprio corpo la sua impossibilità o incapacità a progettarsi in un mondo[4]».

Ciò che in questo continuo processo di “evoluzione” tecno-scientifica e di iper-specializzazione dell’applicazione medica risulta essere una constante è la trasformazione, quando non il sacrificio, del pensiero umano nella sua globalità: infatti «nella pratica dell’intervento biologico, diretta al mero corpo e guidata dal pensiero della sua utilizzabilità come strumento di lavoro, l’uomo va perduto e distrutto[5]». Jaspers pare sottolineare che la medicina incaglia proprio dove dovrebbe estendersi e cioè dinnanzi ad una semplice dato, qualcosa di oggettivo (solo un qualcosa appunto, non un persona), per renderlo accessibile ad un intervento tecnico[6].

Jaspers  ricorda allo stesso tempo che, oggi  più che mai, la scienza medica offre “soluzioni tecniche” così straordinarie, dinnanzi a numerose cartelle cliniche, che «per la prima volta nella storia, come malati, non si può più razionalmente aggirarla[7]». Anche in virtù di questo il filosofo ricorda che il medico nell’etica della tecnica servendosi della concretezza offerta dai dati clinici può realizzare grande opere se assume la sua vocazione nel suo filosofare, cioè nella forza della propria ragione, nello sguardo alla dimensione umana che si trova dinnanzi. Nel suo essere realista è consapevole dei propri limiti, della propria ignoranza. Ma grazie alla reciprocità che può scoprire nel rapporto con il paziente, egli raggiunge, nella sua sobrietà, l’esperienza umana. Riconoscendo e dando senso alla richiesta di aiuto che si trova davanti, egli arriva, nella sua attività, alla visione filosofica, all’eterno, quella visione che, sola, sa volgere in bene il progresso.

«Il medico che costringe il ricercatore presente in lui a essere cosciente dei propri limiti, che non lascia sussistere in maniera ovvia e incontrollata alcunché e che, attraverso la riflessione, cede la guida al filosofo che è in lui, di fronte ai pericoli provocati dalle conseguenze della tecnica e dai fuochi fatui, potrebbe trovare, per conto di tutti, la via che conduce fuori dalla prigione del limitato pensiero intellettivo. Forse è ai medici che spetta lanciare il segnale[8]

E, forse, allo stesso tempo, spetta ad ogni individuo coglierlo e promuoverlo, credendo nelle possibilità che proprio la reciprocità, nel rapporto tra medico ed ammalato, può proporre. Un atteggiamento attivo da parte del paziente si rende, ora, altrettanto importante. Egli è chiamato a dare il proprio contributo, nella costruzione di questa relazione di cura di cui è, bisogna sempre ricordarlo, protagonista.

Riccardo Liguori

NOTE

[1] Umberto Galimberti, Introduzione, in Il medico nell’età della tecnica di Karl Jaspers, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1991, IX.
[2] Ivi, pag. X.
[3] Ivi, pag. X-XI.
[4] Ivi, pag. XIV.
[5] Karl Jaspers, Der Arzt im technischen Zeitalter, R. Piper, Monaco, 1986; tr. it. a cura di Mauro Nobile, Medico e paziente, in Il medico nell’età della tecnica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1991, pag.24.
[6] Ibidem.
[7] Ivi, pag. 45.
[8] Ivi,pag. 69.

Bhegel

Di recente il mondo della filosofia è stato scosso dalla pubblicazione dei Quaderni neri di Heidegger. Gli intellettuali stavano ancora dibattendo sull’appoggio del filosofo al Nazismo e sul suo antisemitismo, quando un altro, inaspettato evento – un’altra relazione pericolosa – è arrivato a scuotere le accademie di tutto il mondo. Karl Nasestecker, dottorando in filosofia teoretica, ha ritrovato nel sottoscala della casa del giovane Hegel a Tubinga degli appunti raccolti sotto il titolo Das absolute Bagel.

Scritto tra il 1788 e il 1790, Das absolute Bagel – “Il Bagel Assoluto” – dimostra un fatto prima d’ora sconosciuto: Hegel aveva cercato la risoluzione del proprio sistema nella pasticceria. All’epoca l’austero mondo accademico respinse stizzito l’empito filosofico-dolciario del giovane filosofo direzionandolo verso lidi ben più oscuri e speculativi. La vergogna fece molto, ma, per fortuna, non abbastanza: Hegel nascose il testo, ma non lo distrusse. Il caso, o chi per lui, ha fatto sì che rimanesse intatto attraverso i secoli, permettendoci oggi di presentarvelo nella traduzione italiana.

Non storcete il naso se ci abbandoniamo all’entusiasmo davanti a questa scoperta: Hegel fondò la pasticceria filosofica. Sebbene il timido studente di Tubinga abbia lasciato in fretta questa strada, per diventare il filosofo che Friederich Förster, durante la sua orazione funebre, definì «la stella del sistema solare dello spirito del mondo», ora sappiamo che prima di tutto ciò fu “la stella polare della pasticceria filosofica”. Noi di Aristortele ringraziamo commossi.

DAS ABSOLUTE BAGEL di G. W. F. Hegel

Il bagel come superamento del dualismo kantiano: fenomeno-noumeno, io-mondo, soggetto-oggetto, ma, soprattutto, dolce-salato.
La forma del bagel come immagine della circolarità e infinità della realtà – nel Seicento veniva offerto in dono alle partorienti della comunità aschenazita polacca: forma ad anello = ciclo della vita […]
Il bagel puro in sé è quello inventato dalla religione ebraica. Puro pane salato, per il quale è impensabile l’avvicinamento con il dolce e con l’inconoscibile meraviglia che il dolce porta con sé. L’uomo è relegato alla sola dimensione terrena e salata.

Il momento di negazione del bagel puro avviene con il Cristianesimo, che vede nella dolcezza il principio unico delle cose. Il Cristianesimo nega l’inconoscibilità del dolce per il salato: il dolce è intuibile dall’uomo, ma è posto comunque in una sfera altra, inarrivabile per l’uomo stesso.

Il superamento (Aufhebung) avviene con l’idealismo del Bagel assoluto. Esso supera il divario fra dolce e salato – l’unità ritenuta impensabile – e rende il dolce conoscibile e reale, mantenendo l’in sé, il salato, ma rendendo il Bagel in sé e per sé, e dolce e salato.

La pasticceria risolve il sistema dello Spirito. Il sapere assoluto è il Bagel che si sa come Bagel.

«Soltanto
Dal forno di questo regno dei lievitati
cresce fino a lui la sua infinità».
(F. Schiller)

Piccola postilla: Hegel, per tutta la sua futura carriera, cercò di spiegare a parole il proprio sistema, parole che, non è un gran segreto, sono sempre state assai difficili da interpretare. La nostra ricetta del Bhegel assoluto ha l’intento di farvi afferrare il pensiero hegeliano senza, appunto, le parole, bensì attraverso le papille gustative. Ispirati dal suo saggio giovanile, abbiamo creato il dolce-salato che vi permetterà di comprendere attraverso il gusto la soluzione del sistema di Hegel e il superamento dell’imperante dualismo kantiano. Non riuscirete comunque a tradurre il termine Aufhebung, ma forse qualche parte di voi ne intuirà il significato.

BHEGEL ASSOLUTO ALLA BANANA E PREZZEMOLO

Persone: 12 apostoli del superamento;
Tempo di preparazione: idealisticamente 2 ore

Ingredienti:

Bhegel - La chiave di Sophiaper l’impasto:
250 gr farina forte
200 gr farina medio-forte
8 gr sale
12 gr lievito di birra
225 gr latte tiepido (max 30° c)
8 gr zucchero semolato
8 gr malto (o miele)
35 gr acqua tiepida (max 25° C)
50 gr uova
30 gr burro morbido
30 gr fecola di patate

per la farcitura:
200 gr panna fresca
20 gr prezzemolo fresco
1 banana
succo di limone

Preparazione:

Sciogliete nel latte tiepido il lievito di birra, lo zucchero e il malto (o il miele). Impastate le due farine con latte, lievito e zuccheri sciolti e le uova, fino a che il composto non risulti liscio ed elastico. Aggiungete quindi l’acqua tiepida in cui avrete sciolto il sale. Reimpastate fino a che i liquidi non vengano assorbiti e si ricrei un impasto elastico. Infine mettete il burro ammorbidito e continuate a impastare fino a che l’impasto non risulti completamenti liscio.
Lasciate lievitare nel forno spento per circa 30 minuti o comunque fino a che l’impasto non abbia raddoppiato il suo volume. Reimpastate quindi velocemente, togliendo l’aria che si sarà formata all’interno della massa e create delle sfere di circa 65 gr l’una. Cercate di rendere liscia ogni piccola sfera e bucatela al centro per creare la forma Assoluta della ciambella.
Riponete le ciambelle a lievitare, abbastanza distanziate fra loro, per circa 30 minuti nel forno spento su una teglia. Nel frattempo mettete a bollire in una pentola due litri d’acqua con la fecola di patate e un cucchiaio di malto (o miele). Al termine del tempo di lievitazione immergete ogni ciambella nell’acqua bollente per circa 10 secondi per lato, scolatela e mettetela sulla teglia con la carta forno.
Infornate per circa 25-30 minuti a 210°C, finché i Bhegel non risultino dorati in superficie.
Preparate il burro al prezzemolo: montate la panna con una frusta elettrica fino a che non sarà a neve ben ferma, a questo punto aggiungete il prezzemolo tritato e continuate a montare finché non si separi il grasso dalla parte liquida, chiamata latticello. Scolate bene il burro formatosi.
Una volta intiepiditi, tagliate a metà i Bhegel e farciteli con il burro e la banana precedentemente tagliata a rondelle e passata nel succo di limone.

L’avete intuito l’Assoluto?

Maddalena Borsato

Riscoprire l’importanza dell’empatia per la propria umanità

Ho riletto da poco L‘eleganza del riccio di M. Barbery. Ho affrontato il romanzo con occhi diversi, alla luce di una domanda che mi perseguita ormai da tempo: in una realtà in cui il tempo e lo spazio hanno perso ogni corrispondenza possibile con l’ “umano” e dove la realizzazione del “Sé” è diventata la principale ossessione di ogni individualità, è ancora possibile parlare di un autentico ascolto e rapporto con l’altro?

All’inizio del romanzo la solitudine domina le vite delle due protagoniste: Paloma, una bambina che detesta la sua famiglia e l’ambiente borghese in cui vive e Renée, portinaia colta e sensibile costretta a dissimulare costantemente la propria identità per impersonare il ruolo che le è stato imposto dai condomini.

I desideri e le emozioni di Renée e Paloma rimangono inascoltate fino al loro incontro. Le due protagoniste si muovono in totale autonomia al numero 7 di Rue de Grenelle, ma tutto intorno a loro sembra ignorarle. La piccola Paloma è una bambina molto acuta e intelligente per la sua età, ma proprio per questo rimane totalmente incompresa dai suoi famigliari che la giudicano “diversa” dalle altre bambine. Neanche i pensieri di Renèe vengono accolti, dal momento che nonostante la sua cultura e la sua sensibilità la rendano una donna interessante e unica, essa resta pur sempre agli occhi dei condomini la portinaia della palazzina e nulla di più. Ogni pensiero ed emozione di Renèe e Paloma non riceve ascolto, rimane nel silenzio della loro coscienza: esse possono dialogare soltanto con se stesse, il resto del mondo sembra non riconoscere la loro presenza, la loro autenticità.

Spesso l’“io” e il “tu” assumono significato solo all’interno di una dinamica di potere. La ragione strumentale ha reso tutti facilmente “intercambiabili” all’interno di un sistema dove sembra valere solo il principio dell’utile: tu esisti fintanto che servi al mio scopo. Anche dove sembra non attecchire, questa norma che regola l’ agire spesso manifesta indirettamente i suoi effetti sopratutto nei rapporti interpersonali.

Siamo ormai molto lontani da quell’imperativo categorico che Kant aveva formulato per fondare la sua etica:

Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di legislazione universale.

La cultura in cui siamo immersi ha reso l’oggettivazione lo specchio del reale. Ogni azione, emozione e comportamento non si compiono più all’interno di uno “scambio” reciproco. Ogni rapporto tra individualità, essendo appunto una relazione che si esplica solo attraverso un’autentica vicinanza tra l’Io e il tu, dovrebbe manifestare la reale profondità dell’uomo. Questo ormai è diventato difficile, dal momento che le stesse individualità vengono reificate e comprese solo “oggettivando”. Ciò che sei (il tuo vissuto, il tuo carattere e ciò che ti rende unico) è stato appiattito banalmente su ciò che fai, ovvero ciò che rappresenti e manifesti all’interno della realtà sociale. Questo ha coinvolto anche le relazioni interpersonali, generando una vera e propria trasformazione non solo delle singole individualità, ma soprattutto di come quest’ultime vengono percepite e comprese all’interno di un meccanismo dove la sofferenza, la fragilità e il limite non trovano posto. Ciò che cogliamo dell’altro non coincide con il suo vissuto, con il suo sentire e il suo essere, ma con ciò che fa, con la posizione che ricopre, con il ruolo che incarna all’interno del tessuto sociale. L’altro, da soggetto diviene così oggetto “disumanizzato”.

La comprensione e l’ascolto della soggettività estranea si trovano quindi subordinati all’utilità che l’altro riveste per me; in tal senso, ciascuno di noi, sempre più chiuso in uno spazio costruito ad hoc per se stesso, accetta di uscire difficilmente da sé per scandagliare quella separazione che lo allontana dalle altre soggettività.

Allora mi chiedo: si può ancora sperare in una comprensione empatica dell’alterità?

La filosofa tedesca Edith Stein aveva riconosciuto l’importanza dell’empatia, delineandone i tratti essenziali con originalità e acume. La Stein, partendo dalla metodologia fenomenologica, aveva descritto l’empatia come un rendersi conto della realtà psichica dell’altro. Tuttavia, questo “rendersi conto” non si presenta come originario, dal momento che la realtà psichica di chi mi sta di fronte non viene vissuta in prima persona dal soggetto che empatizza, ma soltanto ripresentato nella forma della riflessione. La filosofa tedesca mette in luce, non solo come l’altro sia indispensabile per la costituzione della mia identità (ciò che il suo maestro Husserl aveva riconosciuto come carattere fondamentale dell’empatia), ma come ciò che determini l’autentica comprensione empatica sia lo scambio vero e proprio fra due individualità. Solo l’empatia, infatti, permette la costituzione del “noi”, ovvero la possibilità di una vera coscienza morale.

Secondo la filosofa tedesca, “essere empatici” significa, quindi, allargare la propria esperienza, accettare e accogliere le emozioni dell’altro ed esperirne in forma non originaria la gioia e il dolore, poiché solo così l’alterità può attraversare l’orizzonte della mia coscienza. La partecipazione emotiva è una fattore che può subentrare anche in un secondo momento. Ciò che è importante e che determina l’atto empatico, invece, è il voler “disporsi all’altro”, voler riconoscere e relazionarmi con qualcosa che mi trascende e che mi sta di fronte, ma che non è semplicemente oggettivabile, dal momento che questo “altro da me” è anch’esso un uomo e non una res. Ciò con cui io entro in relazione è la realtà psichica dell’altro. Proprio per questo, l’empatia si differenzia dalle altre forme di conoscenza: non corrisponde né a una conoscenza di tipo intellettuale, né a una semplice “riproduzione” di un proprio dolore vissuto in precedenza. Tutte queste forme di conoscenza, infatti, rimanendo per così dire legate al Sé, non trascendono l’esperienza soggettiva e non si aprono alla conoscenza empatica dell’altro, restano lontane, quindi, da quella costruzione del noi che sola può definire l’autenticità di ogni rapporto che scandisce la nostra esistenza.

È evidente che il concetto di empatia analizzato dalla Stein e da sempre al centro di numerose ricerche psicologiche e filosofiche, non sia del tutto ancora comprensibile e afferrabile nella moltitudine delle sfumature che porta con se.

Ciò che però possiamo cogliere immediatamente dalla sua analisi dell’empatia, è che il rapporto intersoggettivo si rivela cruciale per l’arricchimento e la completezza della nostra individualità. Non bisogna tentare di dare un senso solo al proprio microcosmo, è necessario invece aprire gli occhi e raccogliere nell’altro ciò che può costituire un significato per la comprensione di me stesso. L’empatia, infatti, cogliendo le forme specifiche delle altre individualità psichiche, permette un confronto sempre aperto tra la struttura della mia persona e quella degli altri. Ciò significa che solo il processo empatico permette una reale apertura alla psiche dell’altro che può rendermi pienamente consapevole di ciò che non sono e forse di ciò che potrei essere.

Io credo che l’empatia come autentica accettazione e profonda apertura all’alterità sia uno degli aspetti fondamentali che ci rende propriamente umani. Ecco allora che Paloma e Renée, distanti per età e per appartenenza sociale, si incontrano e si riconoscono reciprocamente senza alcun fine, riuscendo a sperimentare quella “vicinanza empatica” che sconvolge le loro vite, cambiandole per sempre. I pensieri e i sentimenti che fino ad allora erano rimasti celati nel silenzio della loro coscienza ora si rivelano nel dialogo con l’altro.

Greta Esposito

Nata a Bologna nel 1989, mi sono diplomata al liceo classico Marco Minghetti di Bologna e laureata in Scienze Filosofiche all’università di Bologna. Appassionata di arte e letteratura, viaggio, scrivo e fotografo cercando sempre di esplorare con attenzione quel che mi circonda, per poterlo poi tradurre in immagini e parole. Mi sono occupata e mi interesso principalmente di ermeneutica filosofica e di fenomenologia, con un occhio di riguardo per la psichiatria fenomenologica. Non comprendo chi ritiene che ogni azione o pensiero debba essere rivolto a un fine tangibile e possibilmente quantificabile, perché credo che non sia tanto la destinazione ciò che conta, ma il cammino che si compie per raggiungerla: “filosofando cerchiamo di tenere una direzione senza conoscerne la meta” (K. Jaspers).

Il mondo ed io con lui

È solo un estivo giovedì sera nel West End e io sono semplicemente seduta sulla poltrona vellutata del Queen’s Theatre in attesa che cominci la magia. Alle sette e mezza in punto le luci calano, l’orchestra comincia con quel potente “mi-laaaa, mi-laa” e sullo schermo, un attimo prima di scomparire per aprire la vista sul palco, appare la scritta “Paris 1815”: è l’inizio di Les Misérables, con ogni probabilità il musical migliore di tutti i tempi, e io scioccamente penso di essere l’unica a sentirmi dentro il cuore che, battendo, fa anche lui “mi-laaaa, mi-laa”. Sì perché in verità questo per me non è solo un giovedì: è anzi una di quelle sere specialissime che si aspettano per mesi. Comunque, ci vogliono quasi due ore per farmi capire che non è affatto così, cioè che non sono affatto la sola ad avere il fiato sospeso e le dita intrecciate in grembo che si stringono quasi dolorosamente. Ne avevo avuto un sentore con la straziante “I dreamed a dream” e dopo la morte del piccolo Gavroche il sospetto era quasi fondato, ma quando il corpo esanime di Enjolras è comparso in bilico sulla barricata disfatta di un moto rivoluzionario caduto nel vuoto (Parigi 1832) ne ho avuto la conferma.

C’era chi tirava su col naso e chi invece era riuscito a recuperare un fazzoletto da chissà dove, soffocando in questo modo dei rumori non proprio dignitosi; in alcuni piccoli momenti, quelli in cui la musica era meno intensa, si potevano anche udire dei “sob” sfuggiti da labbra inconsolabili e potevo  percepire le silenziose lacrime della mia vicina a destra come anche della mia amica a sinistra; sentivo infine scorrere le mie di lacrime, silenziose lungo il viso. Soprattutto quando Marius, unico sopravvissuto tra tutti i suoi amici, un nutrito gruppo di speranzosi rivoltosi, cantava la sua solitudine seduto al tavolo di una taverna divelta. In quella sala c’erano certamente persone che lì dentro ci erano state trascinate, e magari quasi a peso, mentre altre forse erano semplicemente un po’ meno sensibili a quella trama tragica enfatizzata da musica e testi potenti e toccanti; può anche darsi che altri ne fossero persino schifati, chissà; io però lì dentro ho saggiato un momento corale del mondo. Un momento in cui le persone dividono lo stesso pensiero, la stessa emozione: lo spazio che ti circonda ne è pieno tanto quanto tu ne sei pieno.

Solo un mese fa ragionavo sul concetto di unicità della persona. Siamo in effetti continuamente portati a pensare di dover essere differenti, che essere come gli altri sia sbagliato, che fare come gli altri sia un inequivocabile segno di debolezza della personalità, se non di totale mancanza di personalità. Abbiamo deciso di prendere sempre alla lettera quel “vitandum […] turbam” di Seneca¹ senza aspettare di leggere e comprendere la successiva esegesi di quel monito; perché noi siamo sempre di fretta ed abituati a soffermarci sugli slogan, a proposito dei quali non si può non pensare con scherno ad un famoso “Think different” che marchia oggetti che praticamente tutti hanno e tanti vogliono. Per carità, questo è solo uno dei risvolti della massa, è in effetti quello che identifica la massa come sostantivo femminile singolare; ma se ci guardiamo dentro a questa massa, possiamo comunque trovarci una pluralità di nomi singolari, maschili e femminili: un insieme di persone che mantengono una propria individualità nonostante condividano qualcosa in comune. È crudele pensare che persone che si muovono insieme non abbiano personalità. In “One day more”, canzone anch’essa tratta da Les Misérables, la cosa è particolarmente evidente poiché obbedendo alle stesse leggi metriche e musicali tutti i personaggi partecipano alla stessa canzone con la propria personalità e voce, con i loro problemi, speranze e sentimenti, alternandosi ma anche sovrapponendosi gli uni agli altri, fino a convergere nel finale nelle medesime parole². Ognuno di quei personaggi ha una propria e chiara individualità, eppure per ciascuno di loro c’è la medesima speranza del domani, condividono (alcuni di loro senza saperlo) la stessa trepidazione ed aspettativa, trovano gli uni negli altri la comprensione, perché in verità possiamo capire a fondo un’emozione, un momento, un battito, soltanto quando la condividiamo. Capirsi non è brutto; direi anzi che è fondamentale, soprattutto perché ormai ad ascoltare non si ferma quasi più nessuno. Trovo che pensare di essere migliori perché speciali sia segno di grande tracotanza da parte nostra, perché ci sono sempre infiniti momenti della nostra vita in cui siamo parte di un insieme, che lo vogliamo oppure no. E io penso che infondo lo vogliamo. Secoli fa John Donne sostenne che nessun uomo è un’isola³; penso che quello che ci unisca agli altri siano i sentimenti, molto più dei risultati delle leggi del consumo e del mercato: sono quelli che ci tengono uniti al continente. Purtroppo oggi va di moda il cinismo e grazie ad esso noi di questo semplice e puro fatto finiamo col non accorgerci.

Ricordo che l’anno scorso, sotto il cielo di un cimitero nel primo pomeriggio di novembre ho cantato il Padre Nostro, senza conoscerne la melodia, ma stringendo le mani a persone sconosciute mi sono sentita capita: quel mosaico di voci dissonanti mi ha consolata perché ho sentito in quel canto che si disperdeva attorno a me lo stesso sentimento che mi sentivo dentro. In un modo del tutto simile, nemmeno un mese fa ho pianto senza preoccupazioni mentre ascoltavo la reprise finale di “Do you hear the people sing” al Queen’s Theatre, ma ho anche esultato, qualche anno prima, davanti alla tv per ogni medaglia italiana conquistata a Londra 2012, ho urlato canzoni in mezzo alla folla di un concerto e sbuffato mille volte chiusa e compressa dentro un treno dopo l’ennesimo annuncio metallico “Ci scusiamo per il disagio”: perché è consolante anche sapere di dividere con gli altri anche delle situazioni spiacevoli, e incrociare in quel momento due occhi sconosciuti ma altrettanto seccati e rassegnati non è poi così male. Non mi sono sentita senza personalità, mi sono sentita dentro un sentimento condiviso. Unendo tutte queste esperienze, sono portata a pensare che infondo potrei essere originale quanto voglio, ma difficilmente proverò la stessa piacevole sensazione di essere parte di un mondo che gira, corre, si emoziona e comprende questa stessa emozione. Ed io ero con lui.

 Giorgia Favero

[Immagine tratta da Google.]

 

Note

1. Seneca, Epistulae ad Lucilium, VII,1: “Mi chiedi che cosa dovresti evitare in modo particolare. Rispondo, la folla”.

2. “Tomorrow we’ll discover what our God in Heaven has in store / One more dawn / One more day / One day more”, da Les Misérables. –> https://www.youtube.com/watch?v=aqo2uHQ6Jz0

3. John Donne, XVII meditation: “Nessun uomo è un’isola / intero in se stesso. / Ogni uomo è un pezzo del continente, / una parte della Terra. / Se una zolla viene portata via dall’onda del mare, / la terra ne è diminuita, / come se un promontorio fosse stato al suo posto, / o una magione amica o la tua stessa casa. / Ogni morte d’uomo mi diminuisce, / perché io partecipo all’Umanità. / E così non mandare mai a chiedere per chi suona la Campana: / Essa suona per te”.

 

 

Il conflitto positivo

Il conflitto è un fenomeno che ci accompagna per tutto l’arco dell’esistenza: dall’infanzia all’adolescenza, dall’età adulta alla senilità, come elemento inevitabile dell’esperienza umana.

Esso può scaturire da una molteplicità di fattori: diversità di interessi ed esigenze, diversità di sistemi valoriali, difficoltà di comunicazione o semplicemente da equivoci.

Il conflitto è un fenomeno fisiologico di natura soggettiva, in esso hanno un ruolo essenziale l’interpretazione e a rappresentazione che le diverse parti danno della situazione o dell’evento in atto e , pertanto, verrà percepito in maniera dissimile in base alle personalità coinvolte, al loro orientamento emotivo in gioco, ai loro interessi , alle loro esperienze passate, e alla volontà o meno di mantenere la relazione con l’antagonista. Read more

L’empatia come comprensione dell’altro e di sè

Empatia, come il suo equivalente tedesco, Einfühlung, è una parola complessa, da usare con cautela perché molto spesso viene usata a sproposito, equivocando e inducendo in equivoco. Simpatia, compassione, comprensione, partecipazione, sono espressioni che si avvicinano molto ma possiedono un senso decisamente più debole.

Empatia sembra indicare un qualcosa in più, un qualcosa di più profondo, un “entrare dentro” negli stati d’animo degli altri, più che un semplice partecipare.

Con Husserl l’empatia “viene a costituire la via per mezzo della quale il soggetto sperimenta l’esistenza di soggetti altri” definendo la parola un penoso enigma. Read more