Libri selezionati per voi: aprile 2018!

Finalmente la primavera è arrivata: il sole comincia ad alzarsi deciso, la natura si risveglia e i nostri occhi si riempiono di mille colori. Se state programmando le pulizie di primavera non dimenticate di spolverare i libri che decorano il vostro salotto… E concedetevi una pausa letteraria con uno di loro, o con una della nostre proposte.

 

ROMANZI CONTEMPORANEI

sveva-casati-modignani_la-chiave-di-sophiaVaniglia e cioccolato – Sveva Casati Modignani (2013)

Due gusti diversi che si legano bene insieme. Così anche Penelope e Andrea, sposati da diciotto anni e con tre figli. Tuttavia, la magica alchimia si spezza e lei, delusa e umiliata dalle scappatelle del marito, decide di andarsene con una lettera volta a spiegare il suo desiderio di fuga. Penelope dà così inizio ad un cambiamento esistenziale che lascia Andrea ad occuparsi della famiglia e ad affrontare le sue inadempienze coniugali. Per entrambi diviene l’occasione di scavare profondamente dentro loro stessi, con spietata sincerità.

 

a-parigi-con-colette_la-chiave-di-sophiaA Parigi con Colette – Angelo Molica Franco (2018)

Come ogni persona che dalla provincia si trasferisce in città, anche il rapporto di Sidonie-Gabrielle Colette con Parigi è profondo, quasi viscerale. La ville Lumière, insieme con la scrittrice Colette, è la protagonista del romanzo stesso. Una città affascinante in un periodo, quello della Belle Époque, in cui tutto sembrava possibile da realizzare. Una città in cui tutto inizia e tutto si compie. Qui Colette diverrà la scrittrice più apprezzata del suo tempo, amante della libertà e dei salotti della capitale.

 

UN CLASSICO

Schiave-di-sophia-sei-personaggi-in-cerca-dautore-pirandelloei personaggi in cerca d’autore – Luigi Pirandello (1921)

Chi ama le pièce teatrali ricche di ironia, morale e riflessione non può dimenticare di leggere i Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello, un racconto che coniuga gli elementi linguistici di carattere dialogico ad una narrazione vivace e sbarazzina. In un’ambientazione che ha il sapore dell’indeterminato sei personaggi rifiutati cercano disperatamente un capocomico che voglia inscenare la loro vicenda: una storia ricca di drammi, amore, dolore, come potrebbe essere quella vissuta da ognuno di noi. Un’opera che sperimenta la tecnica del teatro nel teatro e che mette a nudo l’essenza della vita quotidiana secondo l’autore: un’inspiegabile commedia nel quale il singolo è chiamato a recitare una parte.

SAGGISTICA

chiave-di-sophia-misure-dellanima-perche-disuguaglianze-rendono-societa-infeliciLa misura dell’anima. Perché le diseguaglianze rendono le società più infelici – Kate Pickett, Richard Wilkinson

Una ricerca complessa e profonda di Kate Pickett e Richard Wilkinson in merito alle diseguaglianze. Il testo è frutto di studi condotti attraverso gli anni riguardo le cause e le implicazioni che la sperequazione dei redditi porta alle varie società. Il dato di diseguaglianza, in particolare quella economica, si riscopre essere alla base di molteplici disagi sociali quali stress, obesità, devianza riproponendo il binomio weberiano di economia e società secondo una stretta relazione dialettica. Un saggio prezioso, ricco di riferimenti e dati che possono far risvegliare la coscienza collettiva.

JUNIOR

chiave-di-sophia-consigli-alle-bambineConsigli alle bambine – Mark Twain, Vladimir Radunsky

Il titolo parla da solo: all’interno di questo libro veloce da leggere troverete una serie di consigli per ottenere delle ragazze a modo. E che modo! Scritto dal conosciutissimo Mark Twain più di un secolo fa, il testo è spassoso e talvolta irriverente. Ideale per un momento di lettura animata, quest’album illustrato è adatto a tutti, maschietti e femminucce, dai tre ai cinque anni. Se ben interpretato, il divertimento è assicurato!

chiave-di-sophia-topo-uccello-serpente-lupoTopo uccello serpente lupo – David Almond, Dave McKean

Un fumetto per i ragazzi della seconda fascia d’età della scuola primaria. In questa storia troverete degli Dei fannulloni che non creano più nulla poiché sono troppo impegnati a banchettare e a contemplare ciò a cui hanno già dato vita. E conoscerete tre ragazzi, che invece considerano il mondo incompleto e che auspicano l’esistenza di nuove forme di vita, come un topo, un uccello, un serpente e un lupo.

 

Sonia Cominassi, Anna Tieppo, Alvise Gasparini, Federica Bonisiol

 

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“Orecchie”: la riscossa del cinema italiano

In una stagione cinematografica a dir poco altalenante, il cinema italiano ha dato finora ben pochi segnali di vita sia a livello artistico che economico. Con l’arrivo del mese di maggio però la situazione sembra destinata a cambiare: sono diversi, infatti, i titoli degni di nota presenti in sala in queste settimane che rischiano però di passare inosservati senza un buon passaparola che li promuova. Basti pensare al caso dell’eccellente documentario di Michele Rho, Mexico! Un cinema alla riscossa, uscito in appena sette cinema in tutta Italia. Una sorte che purtroppo rischia di ripetersi anche per Orecchie, il nuovo film di Alessandro Aronadio, presentato in anteprima, lo scorso settembre, alla settantatreesima Mostra del cinema di Venezia.

Prodotto da Biennale College, Orecchie è uno dei lavori più originali di quest’annata cinematografica. Un road-movie pedestre, fortemente caratterizzato da un’intelligente vena comica e da situazioni a dir poco paradossali. Tutto ha inizio una mattina con il suono di un fastidioso fischio alle orecchie percepito da Lui, un uomo sull’orlo di una crisi esistenziale, costretto a intraprendere un indimenticabile viaggio a piedi attraverso le strade di Roma per scoprire l’identità di Luigi, suo fantomatico amico, venuto a mancare poche ore prima. Partendo da una sceneggiatura impeccabile, dove i tempi comici e narrativi sono calcolati alla perfezione, Aronadio costruisce la sua odissea capitolina valorizzando le impareggiabili eccentricità di un’umanità tanto singolare quanto grottesca. Enfatizzando le nevrosi che caratterizzano buona parte del nostro tempo, Orecchie racconta con leggera intelligenza quel senso di inadeguatezza che tutti noi abbiamo provato almeno una volta nella vita. Il disagio provocato dal sentirsi inadatti traspare tutto negli occhi espressivi e stralunati di Daniele Parisi, straordinario interprete intorno a cui ruotano una serie di indimenticabili personaggi secondari, su cui svettano Rocco Papaleo (in versione sacerdote fuori dagli schemi) e Piera Degli Esposti, nel ruolo di una direttrice sagace e senza scrupoli.

Pur nella sua semplicità, Orecchie colpisce nel segno perché è un prodotto che mancava da tempo al nostro cinema. Grazie ad alcune trovate stilistiche piuttosto raffinate, come l’utilizzo dell’immagine ristretta dello schermo che si allarga di pari passo con il procedere della storia, fino al tema del surrealismo come chiave interpretativa del nostro presente, Aronadio regala al pubblico un film delicato e prezioso, in cui si ride di gusto ma allo stesso tempo si riflette su sé stessi e sulle proprie paranoie. Il fischio alle orecchie diventa così metafora di un malessere contemporaneo che si può curare solo lavorando su noi stessi e sull’accettazione di un presente dominato sempre più dall’assurdo. “Secondo lei c’è ancora speranza per il mondo?” E’ la domanda che apre il film. La risposta, categorica, è un secco “No”. Alla fine della proiezione di Orecchie, invece, provate a chiedervi: “C’è ancora speranza per il cinema italiano?” La risposta potrebbe lasciarvi piacevolmente sorpresi.

Alvise Wollner

[Immagine tratta da Google immagini]

 

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Il declino del cinepanettone: un genere al capolinea(?)

Agli italiani piacciono ancora i cinepanettoni? Guardando i titoli presenti nei cinema di tutto il Paese in questi giorni si direbbe proprio di sì ma, a un’analisi più attenta, la risposta non è proprio così semplice e immediata.

A una settimana esatta dai festeggiamenti del 25 dicembre, sono addirittura cinque i film italiani girati e prodotti appositamente per essere distribuiti durante il periodo natalizio. Qualche anno fa si sarebbero chiamati “cinepanettoni”, un genere inaugurato nel 1983 dallo storico Vacanze di Natale di Carlo Vanzina. Una lunga serie di film divenuti in pochi anni un vero e proprio fenomeno di costume nazionalpopolare. Sale piene, spettatori divertiti e produttori arricchiti all’inverosimile. Con lo scioglimento della coppia Boldi-De Sica però le cose hanno iniziato lentamente a cambiare e l’interesse e l’affetto del pubblico italiano sono scemati sempre più. Il problema è che le grandi case di produzione italiane continuano ancora oggi a pensare che il cinepanettone sia sinonimo di incasso sicuro e garantito e ogni Natale quindi, lo ripropongono in sala con trame sempre più inconsistenti e siparietti a dir poco imbarazzanti. Negli ultimi anni i soldi sono arrivati, ma sono bastati a malapena per coprire i costi di produzione dei film, a fronte dei quasi 30 milioni di euro incassati da Natale sul Nilo nel 2002. Il fatto che l’età aurea di questo genere sia ormai solo un ricordo lontano è un pensiero comune a molti. La vera novità è che il 2016 potrebbe essere ricordato come l’anno che ha sancito il capolinea definitivo dei cinepanettoni. Nel primo weekend d’uscita (fondamentale per capire come saranno gli incassi futuri e complessivi di una pellicola) i cinque film italiani di Natale hanno incassato cifre che non hanno nemmeno sfiorato i risultati degli anni scorsi. Al suo debutto, il nuovo film con Christian De Sica Poveri, ma ricchi ha incassato appena 74 mila euro in tutta Italia. La stessa sera, Un Natale al Sud e Natale a Londra hanno incassato rispettivamente 13,857 euro e 48,737 euro (secondo i dati forniti dal Cinetel, n.d.r), posizionandosi all’ottavo e al sesto posto della classifica italiana. Per carità, le cifre aumenteranno tra Natale e Santo Stefano quando la gente sarà in vacanza e avrà più tempo per andare al cinema, ma le stime finali fanno presagire, già da ora, un fiasco pesantissimo per l’intera industria cinematografica italiana.

L’unico in grado di portare il Paese al cinema sembra essere rimasto Checco Zalone, visto che anche il nuovo film di Aldo, Giovanni e Giacomo, Fuga da Reuma Park, si è rivelato un esperimento fallito sotto ogni punto di vista. Le ragioni del crollo del cinepanettone sono molteplici: il genere è ormai logoro e non ha più nulla da offrire a livello di contenuti e battute, gli spettatori hanno iniziato a scoprire e a utilizzare sempre di più le piattaforme on demand, scegliendo i titoli che amano direttamente dal divano di casa. Se proprio devono andare al cinema preferiscono i grandi blockbuster americani o il cinema d’autore conosciuto e affidabile come Sully di Clint Eastwood. La domanda da porsi allora è: può un fenomeno sociale e di costume arrivare a un epilogo definitivo? Per quanto in crisi, l’industria del cinepanettone potrebbe non morire mai del tutto. Da semplice genere cinematografico ha saputo trasformarsi in una vera tradizione popolare, proprio come il dolce da cui prende il nome. Liberarsene potrebbe essere davvero molto difficile perché, anche se non lo vogliamo ammettere, il cinepanettone è riuscito a diventare, anno dopo anno, una piccola parte di noi.

Alvise Wollner

Café Society: il nostalgico presente di Woody Allen

“La filosofia non è altro che una particolare forma di nostalgia”, parola del poeta e filosofo tedesco Novalis. Stando a questa affermazione, si potrebbe dire che Café Society, nuovo film scritto e diretto da Woody Allen, sia una delle pellicole più filosofiche degli ultimi anni.

Dopo aver aperto con successo l’ultima edizione del Festival di Cannes, la pellicola è arrivata nelle sale italiane poche settimane fa, sancendo il ritorno in grande stile del regista statunitense dopo una lunga serie di passi falsi (Irrational man, Magic in the moonlight e To Rome with love). Nel corso degli ultimi anni in molti erano giunti alla conclusione che l’Allen delle origini e di Match Point fosse ormai solo un ricordo lontano. Niente di più falso:  ciò che ancora oggi riesce a rendere il cineasta americano uno dei più grandi maestri del cinema contemporaneo è la capacità di saper restare al passo con i tempi, pur riproponendo sempre gli stessi temi forti della sua filmografia. Café Society si presenta quindi come un film a due facce. La prima parte, ambientata nella dorata Hollywood degli Anni 30, si distingue per un ritmo leggero e disimpegnato, volutamente privo di spessore. E’ il tempo dei primi amori per Bobby Dorfman e per la giovane segretaria Vonnie, due sconosciuti prima uniti e successivamente divisi da un amore che sembra perfetto, ma che è destinato a non realizzarsi mai. Allen racconta i suoi innamorati in maniera poco incisiva, affidandosi molto alle prove attoriali del pregevole cast e alla fotografia impeccabile di Vittorio Storaro, capace di restituirci l’atmosfera dorata della Hollywood di quel tempo. Nella frivola e opportunistica Los Angeles, Allen non riesce però a esprimere al meglio il suo cinema e così, seguendo le orme del suo innamorato protagonista, si trasferisce a New York. Qui ritrova la vera essenza della storia, costruendo un meraviglioso omaggio dedicato alla forza del passato che ritorna e all’accettazione del rischio di diventare le persone che non avremmo mai voluto essere. Il passato non si può cancellare, Allen lo sa e si crogiola spesso nell’idea di inseguire e raccontare tempi storici ormai lontani dalla nostra attualità. Un’epoca in cui lui stesso avrebbe voluto vivere e che il cinema gli permette ora di esplorare. Woody Allen guarda al passato ma allo stesso tempo si adegua al presente e, per la prima volta in carriera, gira un film in digitale e non in pellicola, lascia spazio a due degli attori più promettenti del cinema americano (Jesse Eisenberg e Kirsten Stewart) e porta lo spettatore a una vivida catarsi nostalgica. Dietro l’apparente spensieratezza e l’allegro cicaleccio della società dei caffè, si nasconde una storia universale, fatta di fantasie romantiche e speranze disattese, nate nella luce rosea di un’alba a Central Park e infine perse e svanite per sempre nel fragoroso frastuono di un cenone di Capodanno. Una commedia dal piacere negato che sembra tradurre in immagini le parole e il pensiero di un grande autore del passato come Arthur Schnitzler: “È la nostalgia a nutrire la nostra anima, non l’appagamento. Il senso della nostra vita è il cammino, non la meta. Perché ogni risposta è fallace, ogni appagamento ci scivola tra le dita, e la meta non è più tale appena è stata raggiunta”.

Alvise Wollner

Inno alla (pazza) gioia

C’è un filo sottile e inaspettato che unisce il regista Paolo Virzì a Victor Hugo, uno dei più grandi autori della letteratura francese. Quel collegamento è composto da una serie di parole che, rilette oggi, sembrano essere state scritte per descrivere alla perfezione La pazza gioia, uno dei film più riusciti degli ultimi mesi. Parole che compongono una frase, divenuta aforisma, e che suonano esattamente in questo modo:  “La più grande gioia della vita è la convinzione d’essere amati.”

Beatrice Morandini,  mitomane logorroica, e Donatella Morelli, madre abbandonata, fragile e introversa, sono due donne disperatamente bisognose d’affetto e attenzioni. Entrambe pazienti dell’istituto terapeutico Villa Biondi, sui colli toscani, si ritrovano a unire i loro tragici vissuti in una rocambolesca fuga on the road, destinata a stravolgere per sempre le loro esistenze. Non capita spesso, al cinema, di trovare un uomo che sappia raccontare con delicatezza e intelligenza l’universo femminile. Paolo Virzì ci riesce grazie al contributo fondamentale di Francesca Archibugi (sceneggiatrice del film) e della compagna di vita Micaela Ramazzotti, qui alla sua miglior interpretazione in carriera. Il film è stato lodato da pubblico e critica, ma c’è da dire che per gran parte della sua durata, La pazza gioia dà l’impressione d’essere un film fastidiosamente mediocre. Molti elementi della messa in scena (dall’interpretazione di un’eccessiva Valeria Bruni Tedeschi, alla scelta di un tema ad alto tasso di banalizzazione) rischiano più volte di rovinare il film di Virzì. Grazie a un finale indimenticabile però, il regista toscano riscatta la sua storia e la trasforma in uno dei lavori più meritevoli di quest’annata.

locandinaNella scena chiave in cui Donatella confessa il proprio terribile passato a Beatrice, il film inizia a sprigionare tutta la sua potenza e ci trascina in un coinvolgimento emotivo che va ben oltre la comune catarsi spettatoriale. Ognuno di noi ne La pazza gioia arriva a immedesimarsi in maniera estrema nel disperato bisogno d’amore e libertà provato dalle due protagoniste. La sofferenza che le attanaglia è tale da farci sperare, fino all’ultimo fotogramma, in una loro possibile “salvezza”. Nonostante la vita abbia fatto di tutto per privarle della felicità, Beatrice e Donatella sono due donne che non vogliono rinunciare al loro diritto alla gioia. Ed è in questo che risiede la loro pazzia: nel saper sperare e gioire laddove tutti noi “normali” ci saremmo arresi. La pazza gioia è una riflessione sulla perdita della ragione, ma al tempo stesso è anche un’opera che ci porta a ragionare su quanto importante sia il nostro diritto alla felicità.  Non è un film perfetto, ma è di sicuro un film necessario per la sua spiazzante capacità di farci vivere attraverso le emozioni. Da un distaccato divertimento iniziale, fino a un’amara riflessione sui concetti di normalità e diversità, in un finale che ci lascia con il volto rigato di lacrime e ci fa sentire finalmente tutti uguali, nel buio magico di una sala cinematografica.

Alvise Wollner

 

Satyricon: il primo romanzo nasce con Petronio

All’interno di una società corrotta, dissoluta, lasciva, dove l’integrità dei costumi è solo un eco dei secoli passati, dove le operette oscene e cafè-chantants dominano la scena culturale e rispecchiano la decadenza morale, nasce del tutto inaspettatamente un nuovo genere letterario: il romanzo. Londra? Parigi? Metà ‘800? Sbagliato. Roma, I secolo d.C.

Ho sempre pensato che tutto quello che si può dire, o pensare, in arte, in politica, in filosofia, insomma nella ‘fabbricazione di idee’, lo abbiano già in qualche modo detto, espresso o almeno abbozzato gli antichi. Vuoi capire Hegel? Studia Platone o Eraclito. Vuoi capire Canova? Studia il canone greco. Vuoi capire Picasso? Studia il canone greco, e pensa il contrario (Picasso senza canone greco sarebbe forse stato davvero un bambino di 5 anni che pocciava una tela. Qualcuno gli disse che lo era comunque. Lui rispose “Magari!”. L’esattezza non la si impara a scuola).

In letteratura, poi, è una battaglia persa. Sai com’è, loro hanno Omero… E’ un po’ come quando, nel campionato NBA ’93-’94, un allenatore si trovava a dover sostenere una conferenza stampa dopo una sconfitta dai Bulls: “Cosa volete che vi dica, loro avevano Michael Jordan…”. Uguale.

Se su Jordan qualcuno ancora dubita (non so con che coraggio ogni tanto sento ancora pronunciare il nome di Wilt Chamberlain), Omero pare mettere tutti d’accordo: tutto quello che è definibile “letteratura” è, in qualche modo, riconducibile a lui. Iliade: il conflitto. Odissea: il viaggio. L’amore e il fato, sempre. Non resta molto altro. E tuttavia, esiste un altro autore che, dopo l’enorme balzo di Omero ha compiuto un decisivo passo verso la modernità. Il suo nome è (probabilmente) Petronio, scrittore del Satyricon.

Il Satyricon, opera a noi giunta gravemente mutilata, è, per la prima volta nella storia, definito ‘romanzo’. Se però consideriamo che il termine ‘romanzo’ è nato intorno al 1400, Petronio ha scritto una cosa che, per più di un millennio, non ha neanche avuto un nome. E anche quando lo ha ottenuto, ha dovuto aspettare altri 300 anni, fino al 1700, perché qualcosa gli assomigliasse davvero (fatta esclusione per Le Metamorfosi di Apuleio, l’unico altro grande romanzo antico). Perché è stato possibile questo? Come ha fatto Petronio a essere precursore, con così largo anticipo, di un genere letterario del tutto nuovo? E’ stato possibile proprio grazie alla distanza che è riuscito a mettere tra la sua opera e quella di Omero, che il filologo Auerbach riassume in tre differenze principali, facendo riferimento al capitolo 37, dove viene descritta Fortunata, la moglie di Trimalchione.

“[…] Certamente esistono anche notevoli differenze nei confronti della maniera omerica. In primo luogo la forma del tutto soggettiva, poiché quella che ci viene presentata non è la cerchia di Trimalchione come realtà obiettiva, ma invece come immagine soggettiva, quale si forma nel capo di quel vicino di tavola, che però di quella cerchia fa parte. Petronio non dice: – È cosi -; lascia invece che un soggetto, il quale non coincide né con lui né col finto narratore Encolpio, proietti il suo sguardo sulla tavolata, un procedimento assai artificioso, un espediente di prospettiva, una specie di specchio doppio che nell’antica letteratura conservataci costituisce non oserei dire un unicum, ma tuttavia un caso rarissimo. La forma esteriore di questo raccontare in prospettiva non è affatto nuova, poiché in tutta la letteratura antica vi sono persone che parlano delle loro esperienze e delle loro impressioni, ma o viene impiegata, come nei racconti di Ulisse presso i Feaci o d’Enea presso Didone, soltanto un’esposizione compiutamente obiettiva, oppure si tratta di presa di posizione d’un personaggio di fronte a uomini o avvenimenti, da cui esso, nella cornice d’un’azione, è per l’appunto toccato, e dove dunque l’aspetto soggettivo è inevitabile e naturale anche senza arte. Qui si tratta invece del soggettivismo più spinto, che viene maggiormente accentuato dal linguaggio individuale da una parte, e per intenzione d’obiettività dall’altra, dato che l’intenzione mira, per mezzo del procedimento soggettivo, alla descrizione obiettiva dei commensali, compreso colui che parla. Il procedimento conduce a un’illusione di vita più sensibile e concreta, in quanto, descrivendo il vicino di tavola la compagnia a cui egli stesso appartiene, il punto di vista vien portato dentro all’immagine, e questa ne guadagna in profondità così da sembrare che da uno dei suoi luoghi esca la luce da cui è illuminata.[1]

“Un’altra distinzione importante nei confronti d’Omero è la seguente. Al vicino di tavola sta molto a cuore, descrivendo quella gente, di mettere in risalto la sua condizione passata in confronto con quella d’adesso. << Et modo, modo quid fuit? >>, così dice di Fortunata; […]. Anche ad Omero piace, come prima abbiamo notato, intercalare notizie sull’origine, la nascita e la vita precedente dei suoi personaggi. Ma i suoi accenni sono di tutt’altra specie, e non ci conducono attraverso il farsi e il trasformarsi dei personaggi, al contrario ci portano a un punto saldo di riferimento. L’ascoltatore greco che ha notizie di mitologia e di genealogia deve riconoscere l’origine e la famiglia delle persone in discorso, deve saperle collocare, proprio come al giorno d’oggi in un chiuso circolo aristocratico o d’alta borghesia si precisa d’un nuovo venuto l’ascendenza paterna e materna. Con ciò si suscita assai meno l’impressione della trasformazione storica quanto piuttosto l’illusione di un’immutabile saldezza della struttura sociale, accanto alla quale il mutarsi delle persone e dei loro destini sembra relativamente senza importanza. Ma in quest’opera di Petronio predomina ciò che è supremamente pratico e terreno, e dunque i cambiamenti di sorte veduti come storia interna; Trimalchione descrive la nascita del suo patrimonio come fatto supremamente pratico e terreno, e anche altrove si trova qualche cosa di simile, ma l’impressione di storia interna È prodotta soprattutto dal metterci innanzi una serie di liberti arricchiti. Difficilmente nelle letterature antiche si trova un brano che come questo mostri con tanta forza un movimento storico intimo.”[2]

E con ciò arriviamo alla terza, e forse più importante differenza dallo stile omerico e alla più importante particolarità del banchetto petroniano: più che qualunque altro scritto dell’antichità esso s’avvicina alla concezione moderna della rappresentazione realistica, e non tanto per l’umiltà dell’argomento, quanto per la descrizione precisa, non schematica, dell’ambiente sociale. La commedia ci dà l’ambiente sociale in modo molto più generico e schematico, in luoghi e tempi molto più imprecisi, ed ha soltanto scarsi accenni al linguaggio individuale dei personaggi; nella satira si hanno parecchi spunti simili, ma la rappresentazione è meno diffusa, bensì piuttosto moralistica e rivolta alla critica di qualche determinato vizio o ridicolaggine; […] infine, la fabula milesiaca, […] nelle opere e nei frammenti pervenutici è così zeppa d’incantesimi, d’avventure, di cose mitologiche, e soprattutto erotiche, che riesce impossibile considerarlo imitazione della vita quotidiana del tempo, per non dir nulla della stilizzazione della lingua anti-realistica e retorica. […] Questi, come un realista moderno, pone la sua ambizione artistica nell’imitare senza stilizzazione un qualsiasi ambiente d’ogni giorno e contemporaneo, e nel far parlare alle persone il loro gergo. Con ciò raggiunge il limite estremo a cui sia arrivato il realismo antico.” [3]

Adesso capiamo da dove arriva il naturalismo francese, il verismo di Verga, addirittura il realismo magico di Marquez. Vuoi capire Dickens? Studia Petronio.

Un’ultima considerazione. Trovo magnifico il fatto che i due “padri” della letteratura mondiale, Omero e Petronio, forse non sono nemmeno esistiti. O comunque non si sa chi sono. Sarà anche una visione un po’ panteistica, ma trovo che un “caso Fosbury” sia un mutamento necessario (dello Spirito, direbbe Hegel) che prescinde dalla persona in cui si manifesta, è più grande di lui. In questo senso, il Fosbury più grande di tutti forse è nato a Betlemme.

Insomma, che Omero e Petronio siano esistiti o no, o che siano spariti dopo poco, non conta. Fosbury, Dick Fosbury, dopo quell’oro non ha vinto più nulla. Oggi, per dire, è ingegnere.

Alessandro Storchi

NOTE

[1] E. Auerbach, Mimesis, pagg. 31-36

[2] Auerbach, op.cit.

[3] Auerbach, op.cit.