La responsabilità tra Tolstoj, Manson e Godard

«[…] e, quel che è peggio, la causa di tutto quanto sono io, io che non ho colpa alcuna!» (L. Tolstoj, Anna Karenina, 2017).

È il lamento che risuona nelle pagine di apertura di Anna Karenina. Le infedeltà di Oblonskij sono appena state scoperte dalla moglie, provocando uno scompiglio non da poco; e ciononostante il lettore è mosso da una certa simpatia verso questo libertino un po’ pingue, dal corpo ben curato, che tende le braccia al servo Matvej affinché lo vesta. Forse il motivo è da ricercarsi proprio nelle parole dell’aristocratico russo, e in particolare in quel contrasto, decisamente significativo, tra i concetti di “causa” e di “colpa”: Oblonskij è consapevole di aver provocato con le sue bugie uno scisma familiare, ma non si colpevolizza, anzi afferma vigorosamente la sua innocenza ed è possibile che qualche lettore, e qui viene il bello, gli dia anche ragione.

Il “caso Oblonskij” è solo un esempio tra i molti (letterari, cinematografici, artistici) che si possono citare di (presunta) responsabilità non colpevole: possiamo riconoscere di essere la causa di qualcosa, cioè ammettere di aver giocato un ruolo in un certo evento per il solo fatto di aver compiuto delle azioni, qualsiasi esse fossero; e allo stesso tempo rifiutare di farci inchiodare nel ruolo di “cattivi della situazione” che hanno agito con l’unico scopo di causare intenzionalmente del male. Si tratta della stessa idea implicita nella cosiddetta presunzione di non colpevolezza, principio giuridico che conferma, in certa misura, la validità della distinzione tra colpa e responsabilità allusa dal personaggio tolstojiano.

Se puntare automaticamente il dito non è una strada di analisi sempreverde, anche a tentare un confronto aperto con la realtà, di indagine della complessità, sfugge ancora il concetto di responsabilità: che cosa indica esattamente questo termine, e quali nuovi orizzonti o ruoli potrebbe inglobare? È possibile ripensare un’idea di responsabilità da abitare concretamente, ogni giorno?

Secondo Mark Manson, blogger, scrittore e imprenditore americano, la responsabilità è potere esistenziale, inteso come effettiva possibilità di influire sul proprio benessere, anche e soprattutto in quei frangenti che appaiono fuori controllo. Non è vero, dice Manson, che ci sono cose che non possiamo cambiare: è inutile crogiolarsi nell’autocommiserazione e ripetere “non posso farci niente, non l’ho deciso io”. Decido sempre io, in un certo senso: «scegliere di non interpretare coscientemente ciò che accade nelle nostre vite è pur sempre un’interpretazione. Scegliere di non reagirvi è comunque una reazione» (M. Manson, La sottile arte di far quel che ti pare, 2017).
Non si può cambiare la situazione, ma si può cambiare se stessi in quella situazione; ogni cosa può sempre caricarsi di una certa luce piuttosto che di un’altra. Il che non significa, ribadisce il blogger americano, essere ossessivamente positivi e negare il male esistenziale, ma assumersi la responsabilità di se stessi di fronte ad esso; non significa rifiutare le emozioni negative, ma assumersi la responsabilità di elaborarle, per quanto tempo si possa impiegare, per quanta fatica e passi indietro si debbano affrontare, per poter scegliere con consapevolezza l’atteggiamento che può garantire maggior benessere.

La responsabilità verrebbe allora a coincidere con il potere di cambiare (in meglio) la vita di tutti i giorni. Con questo non si vuole negare l’imprevedibilità della vita e le sue istanze incontrollabili; di continuo avvengono cose che non abbiamo scelto… ma su cui sì abbiamo scelta: è possibile cambiare approccio a qualsiasi situazione, che l’abbiamo voluta o meno; ed è vitale farlo, perché cambiare punto di vista vuol dire di fatto integrare la propria visione della realtà con qualcosa di nuovo, arricchendosi anche in modi inaspettati. Assumersi la responsabilità di se stessi, sempre, vuol dire letteralmente farsi carico del proprio io: scegliere di stare bene, o se non di stare bene almeno di sfruttare l’occasione per aggiungere alla propria cassetta degli attrezzi uno strumento nuovo e crescere come esseri umani.

L’idea di accettare tutto e sfruttare ogni occasione per crescere spiritualmente e vivere più pienamente è presente anche nei film di Godard: «Io credo che siamo sempre responsabili di quello che si fa, e liberi», riflette Nana in Questa è la mia vita, e continua: «Alzo una mano, sono responsabile. Giro la testa a destra, sono responsabile. Sono infelice, sono responsabile. Dimentico di essere responsabile, ma lo sono. In fondo le cose sono come sono e nient’altro».
Oblonskij del resto concretizza questa idea in una vera e propria filosofia esistenziale: ammette di aver avuto un ruolo nel dolore della moglie e riconosce responsabilità e conseguenze ad esso connesse, e tuttavia non si colpevolizza ma sceglie come reagire, in una piena consapevolezza di se stesso.

Cecilia Volpi

[Photo credit Sander Sammy via Unsplash]

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Arendt, Freud e il Covid-19 tra senso di comunità e responsabilità

Il 2020 sarà certamente ricordato per essere stato l’anno della pandemia mondiale che ha profondamente cambiato le abitudini degli esseri umani, privandoli della cosa più preziosa: la libertà. In questo periodo il mondo sta facendo i conti con la coercizione e con la limitazione di ciò che qualche mese fa sembrava scontato e gli esseri umani ne stanno risentendo nel profondo.

È vero, non siamo di fronte a una guerra mondiale e nessuno ci sta chiedendo di imbracciare le armi per amor di patria, ci viene solo chiesto di rimanere nelle nostre case, in quanto alle prese con un virus aggressivo, che ha dilagato inesorabile e spietato, rendendo le nostre città palcoscenico per le passioni di un’umanità a cavallo tra solidarietà e istinto primordiale di trasgredire le regole imposte. Questo accade perché gli individui si sentono braccati, poiché l’iper-modernità ci ha portato ad assoggettarci a una “dittatura della società”, che potremmo ricondurre a quello che Freud definiva «Il disagio della civiltà», che ha portato le individualità a conformarsi a determinati schemi, rendendole inconsciamente schiave di essi. Questo fa sorgere alcuni quesiti interessanti, quesiti che si era già posta la filosofa Hannah Arendt in relazione ai totalitarismi e ai loro crimini: siamo davvero liberi anche quando ci sentiamo tali? E, relativamente all’istinto di trasgredire le leggi, siamo responsabili delle nostre azioni? E se sì, lo siamo collettivamente in quanto parte di una società, o individualmente?

Arendt differenzia in maniera sostanziale i concetti di colpa e responsabilità, nonostante essi abbiano certamente una correlazione. La prima afferisce alla sfera etica e si riferisce alle azioni compiute da un singolo soggetto agente, a scapito della propria legge morale; mentre la seconda afferisce alla sfera politica, laddove per politica si intenda la sfera sociale. Arendt indaga il concetto di responsabilità studiando in quale misura il popolo tedesco potesse essere ritenuto corresponsabile degli atroci crimini commessi dal regime nazista; tuttavia la questione può essere estesa a qualsiasi contesto storico e, dunque, anche a questo momento particolare che stiamo condividendo a livello globale; si pensi alla similitudine, seppur forte, della dittatura con le limitazioni alla libertà personale e collettiva che ci sono state imposte in questi mesi e ai concetti di colpa e responsabilità di coloro che non rispettano tali norme, ma anche di chi invece si fa portavoce e attore del rispetto verso l’umanità facendo in modo che il virus possa essere in qualche modo contenuto. Quando ci viene chiesto di sottostare a delle restrizioni è un’autorità a farlo, motivo per cui viene meno la libertà come noi la intendiamo, ma contravvenendo alle leggi imposte e nel caso specifico del Covid-19, uscendo di casa senza giustificato motivo, mettendo in potenziale pericolo la propria vita e quella altrui, ci comportiamo secondo una nostra personale morale, divenendo, quindi, colpevoli per la nostra azione. Tuttavia, secondo la prospettiva arendtiana, l’intera comunità sarebbe responsabile per le azioni compiute dai cittadini della sua nazione, pur non essendo moralmente e, dunque, individualmente colpevole, questo perché l’azione avviene inevitabilmente nello spazio intersoggettivo; infatti, nel momento in cui il soggetto agisce, rivela se stesso agli altri, divenendo responsabile delle sue parole e dei suoi gesti in relazione alle alterità. Chiaramente se agiamo in una dimensione monadica, solipsistica, privata, possiamo fare i conti solo con la nostra etica individuale, senza che nessun altro acquisisca una corresponsabilità per le nostre azioni, giuste o sbagliate che siano.

Freud, prima della Arendt, aveva affermato in Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921) che la socializzazione fosse in un rapporto di dipendenza dall’individualità e che quindi una distinzione netta tra società e individuo fosse superflua, in quanto la prima si compone essenzialmente della molteplicità degli individui che la costituiscono. Secondo Freud, le azioni negative compiute da una massa e dunque la negatività della stessa, dipendono dalle individualità che la compongono, che possono essere più o meno negative in base a quanto incidano i fattori oggettivi, inconsci, sull’Io del singolo. Con l’esperienza della Grande guerra si è assistito a quella che Freud ha definito esternalizzazione dell’inconscio, ossia all’oggettivazione dei moti pulsionali primordiali che si sono esteriorizzati nella massa, poiché, in accordo con Arendt, è solo all’interno della società che il singolo può agire e dunque sbarazzarsi delle rimozioni pulsionali inconsce.

È dunque necessario riflettere sul senso di appartenenza alla società e alla responsabilità che abbiamo in un momento storico come questo, di comportarci individualmente nella maniera più etica possibile per fare in modo di renderci collettivamente e positivamente responsabili della rinascita del mondo che torneremo ad abitare dopo l’esperienza del virus, nella speranza che possa essere un mondo migliore, nel quale tornare ad essere, per dirla con Aristotele, degli animali sociali.

 

Federica Parisi

 

[Photo credits Ryoji Iwata su unsplash.com]

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Sei libero?

«Sì… non so. Forse…» Una triade che ben descrive le emozioni umane a riguardo. Una cosa però è da notare: dubbiosi, certo, ma di esserlo, non di non esserlo.

Non si può negare che, almeno istintivamente, ci crediamo liberi. Un esempio lampante per dimostrarlo è il sentimento della colpa: perché lo proviamo? Si tratta di un movimento interiore che può assumere infinite forme ed essere caratterizzato da altrettante sfaccettature; ma che individua una qualità comune al genere umano. Ci si sente in colpa perché ci si rende conto che si sarebbe potuto agire diversamente, quindi evitando quell’offesa, quel danno, magari quell’involontaria azione che ora fa star male noi o qualcun altro. Dunque perché ci si crede liberi: la colpa nasce dalla convinzione di esserlo, altrimenti perché mai si dovrebbe provare questa emozione? Se le mie azioni − o almeno i loro risultati − fossero già determinati, non avrebbe alcun senso provare rimorso. Paradossalmente, saremmo forse più felici in catene.

La libertà, invece, impone una presa di responsabilità e coscienza, o almeno questo è quello che anche il cristianesimo ci ha insegnato. Se sei libero, allora la tua volontà è collocata all’interno di un’oscillazione tra alternative, dunque va giustificata la scelta per l’una o l’altra. Ecco perché se compi azioni “giuste” sei ricompensato con il paradiso o, viceversa, punito con l’inferno: avevi la possibilità di scegliere e hai agito in modo giusto o sbagliato. C’è quindi un’implicazione da notare a riguardo: nella visione predominante, il libero arbitrio si colora di connotati morali. Fa sorridere pensare che l’uomo sia punibile per le sue libere scelte “sbagliate” mentre Dio possa tranquillamente stare a guardare milioni di Ebrei uccisi, stuprati, trucidati, mutilati, torturati e vivisezionati. «Eccoti i principi morali, Adamo. Attenzione però: ogni più piccolo sgarro può condurti all’inferno. Te li voglio donare. A me hanno proprio rotto i cogli**i»1.

Lasciando le contese teologiche ai teologi, si potrebbe riflettere e collocare la morale non all’interno dell’alternativa ma al livello superiore. Cioè: non esistono scelte giuste o sbagliate, perché sono libero; ciò che è corretto è che io abbia compiuto una scelta, dato che ho la capacità di farlo. A questo punto però entriamo in un circolo: se sono libero di scegliere, allora significa che lo sono anche di non scegliere. Ovvero, le alternative non si hanno più nel compiere una determinata azione piuttosto che un’altra (che divengono a questo punto indifferenti) ma tra decidere o non decidere. Non diventa, però, anche quest’ultima una decisione? E dunque, perché dovrebbe essere moralmente giusto scegliere piuttosto che non farlo?

Una possibile interpretazione del problema potrebbe essere di rendere trasparente la tonalità morale della libertà; considerando quest’ultima, quindi, a livello logico. Non abbiamo qui lo spazio per approfondire adeguatamente la questione, basti per ora tenere in considerazione l’esistenza di questa alternativa: la libertà è possibile se consideriamo la realtà contingente. In questo modo si può garantire il libero arbitrio, proprio come l’oscillazione tra alternative in-differenti nei confronti dell’esistenza (ovviamente stiamo masticando il linguaggio ontologico, dunque dedicandoci ad una libertà “superiore” a quella umana ma che inevitabilmente si riflette nella nostra condizione).

Ritorniamo alla colpa, utile strumento − a mio parere − per sciogliere la questione, concentrandoci su un esempio che ad una prima occhiata potrebbe sembrarne totalmente slegato. Nel momento in cui lancio una moneta non posso sapere quale faccia “vincerà”, ci sono il 50% di probabilità sia per l’una che per l’altra, giusto? Nì. In realtà, se conoscessi tutte le variabili in gioco (inclinazione della mano, direzione e velocità del vento, gravità specifica ecc.), il risultato non sarebbe indeterminabile ma l’esatto opposto: assolutamente necessario. Dunque − ecco la colpa − se conoscessi la catena causale che ha portato ad un determinato evento saprei con certezza che esso non è stato casuale (ovvero: frutto di un libero arbitrio umano, per esempio). Spinoza aveva messo brillantemente in luce la questione:

«Se infatti, per esempio, una pietra cade da un tetto sulla testa di qualcuno e lo uccide, a questo modo dimostreranno [i sostenitori della finalità naturale] che la pietra era caduta per uccidere l’uomo. Poiché se non fosse caduta, con la volontà di Dio, a quel fine, come sono potute concorrere tante circostanze […] con la caduta? Si potrà forse rispondere che ciò è accaduto perché soffiava il vento, e perché quell’uomo passava per di là. Ma, insisteranno, perché il vento soffiava allora? e perché proprio allora passava di là quell’uomo? Se di nuovo si risponderà che il vento si è sollevato allora perché il giorno prima […] il mare aveva incominciato ad agitarsi, e che quell’uomo era stato invitato da un amico, insisteranno ancora, dato che non c’è un termine alle domande: ma perché il mare si era agitato? e perché quell’uomo era stato invitato proprio allora? e avanti di questo passo non smetteranno di chiedere le cause delle cause, fino ad andarsi a riparare nella volontà di Dio, ossia nel rifugio dell’ignoranza»2.

Ricondurre la catena causale ad una volontà (libera) sarebbe dunque il risultato dell’ignoranza (o incapacità?) umana di riconoscere la realtà come determinata.

Eppure ci sentiamo liberi. Questo non significa necessariamente che lo siamo, come abbiamo visto: teniamo almeno aperta la domanda. Chiediamoci però: siamo liberi o semplicemente ci piace sentirci tali?

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

NOTE
1. Genesi, 66, v. 6. Scherzo, non esiste.
2. B. Spinoza, Etica, P. Cristofolini (a cura di),  Pisa, Edizioni ETS, 2010, p. 75 (corsivo mio).

[immagine tratta da Google immagini]

 

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Si può comunque passeggiare

Una sera d’inverno mi addentro incespicando nel bosco, tutto imbacuccato nel parka e travolto da mille pensieri che si affollano. Avvolto nel gelido amnio e protetto dal silenzio secolare degli alberi, combatto ancora per sedare quegli assilli inconcludenti, le voci dei morti che rammentano quel che passa senza l’intervento dei vivi. Cercano risposta, pretendono soluzione, vogliono che mi riappacifichi con le loro nenie per poter finalmente riposare in pace. Mi avvio lungo un sentiero di fango rossiccio per ammansire i tormenti con la semplicità ristoratrice di una passeggiata.

Sono colpe di quel che siamo stati, rimproveri per quel che potremo essere, sono i mesti sussurri di una storia che non ci appartiene e impera coi suoi sproloqui sulla miseria del mondo umano. La responsabilità del passato germina sulle nostre schiene, le incurva sotto il peso dei suoi fiori e ci fa ciondolare come tartarughe afflitte e incupite che vorrebbero per una volta sollevare lo sguardo. Ci toglie il diritto di vivere l’eterno presente, di sputare sulla tomba del tempo e di danzare liberi come gli animali che siamo. La libertà biologica è in catene e ci vediamo costretti a scandire l’intero arco della nostra permanenza nel mondo in brevi scadenze dal ritmo tartassante, che uccidono e innervosiscono la nostra primigenia indifferenza verso lo scorrere inesorabile dei giorni. Non possiamo più disfarci della maledizione cronologica perché portiamo gli orologi ai polsi, perché i doveri devono riempire la nostra vita anche quando si tratta di accendersi una sigaretta pur di fare qualcosa, perché le ore vengono indicate sugli schermi lampeggianti dei cellulari, sulle insegne che campeggiano per le città, la radio, la televisione, ogni dispositivo di comunicazione ci rinfaccia il ticchettare delle lancette con insistenza; persino il campanile coi suoi rintocchi ci ricorda quanto sia veloce e ineffabile questo inarrestabile fiume di secondi, che dobbiamo sbrigarci a inseguirlo se non vogliamo perdere il percorso che traccia. Non possiamo più prescindere da quest’autorità perché nasciamo in un mondo dove essa è venerata, considerata alla stregua di una divinità ambigua e amorale, un mondo che non ricorda più come quell’autorità beffarda si è conquistata il suo trono pacchiano ed è totalmente incapace di proporre una qualche alternativa al suo dominio aprioristico. Quel brulicare chiassoso della società odierna è solo l’eco amplificata di un fragore scoppiato in un passato remoto e l’ovvietà del presente ne paga lo scotto.

Nella volta inizia a brillare Venere, col suo ardore giallognolo, e sotto la luna è possibile scorgere il flebilissimo bagliore di Marte. Gli alberi anneriti frusciano e dai cespugli fuoriesce zampettando un gatto randagio, che mi avvicina miagolando e con la coda rizzata. Mi passa accanto quasi con indifferenza e si corica nell’erba alle mie spalle, fingendo di non guardarmi coi suoi occhi sornioni. Sorridendogli proseguo il cammino e m’incanalo sotto un arco di rami intricati, quando il gatto all’improvviso mi affianca strusciandomi tra le gambe e mi accompagna fedelmente lungo l’intero sentiero. Come due banali creature viventi, ognuna filtrante il mondo coi suoi parametri, silenziose e recidive che perdono tempo insieme, passeggiamo vuotamente.

La passeggiata è l’emblema della perdita di tempo, la premessa indiscutibile di una riflessione fresca e brillante, intuitiva come il più semplice dei silenzi. La passeggiata è l’espressione del minimalismo attivo, della semplicità di un agire cosciente che interagisce costante con lo spettacolo dischiuso della vita. È sincera e puntiforme, capace di uccidere il tempo e condannarne la memoria alla dannazione perché arresta il dinamismo artificiale della nostra corsa disperata. Dove il tempo ancora esiste il passato è nostalgia pura, il futuro fa vacillare le gambe, il presente è un istante inafferrabile, il nunc una leggenda utopica. Dove il tempo permane l’umanità è oppressa e avvilita, è spronata con le fruste ad affrettarsi lungo i canali di una macchina gigantesca e colossale, che sbuffa e digrigna i suoi ingranaggi sognando solamente di poter accelerare la sua corsa senza senso. Dove il tempo esiste il cuore è dominato dalla speranza e anela quindi a quel momento imminente che può esser latore di benefici quanto di malanni, la mente è indecisa, traballa su un suolo terremotato. La speranza è fomentata dall’incertezza, è imparentata col dubbio, sorge dal terrore per il fallimento e la morte, vive solo là dove è risaputo che si potrebbe stare meglio, ma altrove, in quelle mitiche zone in cui il tempo non esiste e non ossessiona, i vivi e i morti convivono senza differenze e il mondo passeggia per dare respiro a un universo più sereno, lento, e raccolto, dimentico della speranza e dei sospiri da innamorati.

Cala la notte e il buio gelato striscia tra le fronde e gli arbusti. Nell’aria risuonano le risate crudeli delle anatre e le cadute acquatiche dei loro ultimi tuffi. Il gatto mi sorpassa e sembra volermi fare strada lungo il sentiero oscurato, come uno spirito boschivo in soccorso di un vagabondo sperduto. Arrivati all’uscita che introduce al mondo luminoso degli umani, il felino sparisce dentro una baracca polverosa sgattaiolando in una fessura della parete e come pago della sua azione ‘virgiliana’ si accomiata magico e muto tornando nella selva. Il ritmo monocorde è spezzato e la vita passeggiante si rintana nell’intimità oscura, trascinando con sé lo stupore sognante e lasciandoci nelle grinfie degli ululati angosciati dei morti. Avere il tempo di dimenticarci del tempo, questo ci renderebbe finalmente felici.

Leonardo Albano

Hannah Arendt: come la banalità genera il male

Il modo in cui Hannah Arendt descrive il momento della condanna a morte di Adolf Eichmann è impeccabile. Impeccabile nel peso che ogni singola parola espressa, acquista. Impeccabile nel valore che riesce a comunicare nella descrizione di alcuni particolari e di quei gesti che, anche durante il processo del 1961, hanno fatto la differenza, mettendo a nudo le contraddizioni di una mentalità perversa, incarnata in quell’essere umano, accusato di essere uno dei responsabili di uno dei più tragici crimini contro tutta l’umanità.

«Eichmann andò alla force con grande dignità. Aveva chiesto una bottiglia di vino rosso e ne aveva bevuto metà. […] Percorse i cinquanta metri della sua cella alla stanza dell’esecuzione calmo e a testa alta, con le mani legate dietro la schiena. Quando le guardie gli legarono le caviglie e le ginocchia, chiese che non stringessero troppo le funi, in modo da poter restare in piedi. “Non ce n’è bisogno”, disse quando gli offersero il cappuccio nero. Era completamente padrone di sé, anzi qualcosa di più: era completamente se stesso»1.

Quello che possiamo percepire anche attraverso una prima e veloce lettura è il ritratto di un protagonista, la rappresentazione di un uomo che, fino all’ultimo, si è sentito al centro della scena. Anzi, egli non solo ha fatto in modo che le luci fossero rivolte su di lui fino alla chiusura del sipario, ma ha inoltre contribuito alla stessa costruzione della rappresentazione di quella scena teatrale finale che, attraverso la sua condanna a morte, lo proclamava e lo innalzava quasi come se, i suoi, fossero stati dei gesti eroici.

Nessuna colpa, nessun rimorso. Per lui quelli commessi non erano crimini orrendi, senza pietà e dei quali doveva essere ritenuto responsabile.

D’altronde, sostenne Eichmann, egli si occupava solamente del trasporto dei deportati verso i campi di concentramento: personalmente, non aveva mai ucciso nessuno, aveva solo rispettato gli ordini ed era diventato un piccolo ingranaggio di quella macchina infernale2, alimentata dall’odio verso il diverso, l’altro. Chi poteva dunque essere considerato il vero responsabile dell’uccisione degli ebrei? Poteva Eichmann definirsi innocente, solo per il fatto di aver rispettato le decisioni e gli imperativi di un comando superiore cui aderiva e cui non poteva in alcun modo sottrarsi? Che fine fanno la responsabilità e la colpa?

Hannah Arendt in Responsabilità e giudizio spiega come talvolta, quando un crimine commesso coinvolge un grande numero di attori, si finisce con il sostenere il valore di una responsabilità collettiva, in altre parole, una dimensione globale alla quale nessuno può sottrarsi. È importante ammettere tuttavia che l’idea di una responsabilità universale non solo impedisce che vengano definiti gradi di colpevolezza differenti a seconda del crimine commesso da ogni singolo individuo; ciò che è ancora più grave è che questo possa essere utilizzato come strumento attraverso il quale ciascuno, attraverso la logica del “se nessuno è colpevole, nemmeno io lo sono”, riesce a sentirsi innocente e ad uscirne “pulito”.

Strumentalizzare un concetto di responsabilità collettiva al fine di decolpevolizzarsi in quanto membro di una collettività in cui il dovere kantiano doveva ad ogni costo essere ascoltato e rispettato, in onore di un’ideologia, non può tuttavia permettere di dimenticare il valore di una responsabilità particolare che, anche Eichmann, avrebbe dovuto ammettere. Sotto il regime nazista, come nel caso di molte altri sistemi basati su una forte struttura ideologica, le norme imposte venivano assimilate come naturali e giuste e il loro rifiuto non era mai stato oggetto di una presa in considerazione. Gli ordini pertanto erano corretti e giusto era eseguirli. Al contrario, l’ingiustizia nasceva nel loro rifiuto.

In Banalità del male3 Hannah Arendt esprime chiaramente il suo giudizio a proposito dell’accusato: egli era una persona totalmente normale, a tal punto che perfino gli psichiatri lo avevano definito tale. Qualsiasi altra persona, dunque, avrebbe potuto prendere il suo posto ed essere accusato dello stesso crimine; ciò non toglie che, se solo lo avesse voluto, avrebbe potuto fare in modo che le cose cambiassero. Malgrado ciò potesse significare opporsi al sistema o costituisse una negazione del suo solito e profondo dovere morale. Nonostante un tale atto avrebbe potuto costargli la morte. Ma Eichmann no: fino all’ultimo si è dichiarato innocente.

Secondo Arendt, i giudici avrebbero dovuto sostenere che solo potenzialmente i cittadini di uno Stato avrebbero potuto compiere i crimini più inauditi, e che c’è un abisso tra ciò che egli ha fatto realmente e ciò che gli altri avrebbero potuto fare, tra l’attuale ed il potenziale4Eichmann doveva dunque essere ritenuto responsabile poiché attualizzò quegli ordini che, dall’alto, vegliavano su di lui come un imperativo categorico il cui valore assoluto era indubitabile e il cui rispetto non solo era necessario, ma per di più naturale.

Quanto può influire un’ideologia nella formazione della propria persona? Come fare in modo di poter preservare e custodire quella libertà che, attraverso un giusto utilizzo della ragione, ci permette di prendere delle scelte adeguate, secondo le circostanze? Il male commesso da Eichmann è stato sì, terribile. Malgrado ciò e senza giustificarlo, le azioni da lui commesse sono state frutto del rigoroso rispetto di un volere naturalmente reputato corretto.

Anche oggi, nel momento degli attentati terroristici in Francia e nel resto d’Europa ma anche in numerose altre occasioni, siamo diventati e continuiamo ad essere spettatori delle numerose manifestazioni della banalità del male. Adolf Eichmann è stato l’incarnazione di questa banalità. Una banalità che può provenire dall’ignoranza, sia volontaria, sia frutto di un’abitudine le cui profonde radici costituiscono le fondamenta di un’ideologia, la cui mostruosità non può essere percepita da chi, crescendo, è stato educato secondo il rispetto di particolari valori, credenze e imperativi morali.

Rilevare il peso che le circostanze esterne a noi può avere rispetto alle scelte che prendiamo, certo, è importante. Una cosa, tuttavia, è ammettere la loro influenza, tutt’altra è non prendersi carico, nonostante tutto, delle responsabilità dei propri atti e definirsi, come nel caso Eichmann, non colpevoli di una tragedia contro tutta l’umanità.

 

Sara Roggi

 

NOTE:
1. H. Arendt, La banalità del male, Feltrinelli Editore, Milano, 2011, p. 259.
2. H. Arendt, Résponsabilité et jugement, Editions Payot & Rivages, Paris, 2009.
3. Ibidem.
4. Ibidem.

[Immagine tratta da Google Immagini]

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