Clima, ecoansia e bias cognitivi: intervista a Luca Mercalli

Ciò che sta accadendo in Emilia Romagna è certamente tragico, ma è una conseguenza di una serie di azioni e inazioni umane che a livello collettivo dobbiamo deciderci ad affrontare se vogliamo davvero evitare che si ripetano, se vogliamo davvero dare dignità e valore al dolore e alla disperazione che stanno attraversando le persone colpite da questo evento estremo causato dalla crisi climatica. Alle persone che hanno perso la vita o che hanno perso la casa, la macchina e degli affetti dobbiamo almeno questo: la presa di coscienza della verità e una concreta azione conseguente.

Proprio su questi temi abbiamo recentemente dialogato con Luca Mercalli, meteorologo e climatologo, presidente della Società Meteorologica Italiana, responsabile dell’Osservatorio Meteorologico del Real Collegio Carlo Alberto di Moncalieri e docente in varie università. È direttore della rivista “Nimbus” e collabora con testate giornalistiche come “Il fatto quotidiano”. La sua attività di divulgazione scientifica l’ha portato alla pubblicazione di molti libri, ad essere ospite assiduo del programma RAI di Fabio Fazio Che tempo che fa e conduttore di un suo programma, Scala Mercalli, andato in onda nel 2015-16 su RAI 3.

 

Giorgia Favero – Ondate di caldo in febbraio e poi ritorno repentino del freddo, improvvisi e continui temporali e poi ritorno a settimane di calma piatta e arida; “bombe” d’acqua e siccità, caldo e freddo accostati come sulle montagne russe. È facile a volte per i giornali titolare con l’espressione ormai classica “meteo pazzo”: ma non sarà che, più che il meteo, siamo noi i pazzi?

Luca Mercalli – Certamente è una definizione anche un po’ di tradizione storica: “il tempo è impazzito” lo si diceva anche prima del riscaldamento globale nei momenti in cui si verificavano fenomeni anomali. Questo andava bene finché si trattava di essere spettatori di una variabilità naturale: la nostra vita è breve – soprattutto in un tempo passato in cui non c’erano osservazioni satellitari e banche dati – quindi è chiaro che la memoria storica di una vita poteva essere al massimo di un secolo e di conseguenza riscontrare anomalie che ogni tanto si ripetono giustificava quest’espressione: il tempo è pazzo. Oggi sappiamo che oltre che alla normale variabilità del tempo per motivi naturali – che ci sta per motivi naturali –, si è sovrapposta una variazione nuova indotta dalle attività umane: il riscaldamento globale. Direi quindi che ci dovremmo interrogare sulle sue cause, e questo significa prendere coscienza del danno che le attività umane stanno compiendo su tutti i processi che governano il pianeta, non solo sul tempo atmosferico. Certamente le attività umane cambiano il clima, ma cambiano purtroppo anche tutti gli altri processi che governano la natura: la perdita di biodiversità, l’inquinamento, la plastica negli oceani, la cementificazione, la deforestazione… sono tutti fenomeni che poi si traducono in cambiamenti irreversibili che portano effettivamente a qualcosa di nuovo sotto il sole rispetto a queste definizioni di “meteo pazzo” che potevano andare bene come battuta fino a un secolo fa, oggi sono da analizzare con maggiore responsabilità individuale. Adesso infatti abbiamo una parte di responsabilità relativamente a questa pazzia, e si chiama Antropocene

 

GF – Nella sua duratura e preziosa attività di divulgazione relativa al cambiamento climatico, ha parlato più volte di bias cognitivi che ci ingabbiano puntualmente nella sottovalutazione dei rischi, dunque una vera e propria distorsione nella nostra capacità di ragionare di fronte a una situazione. Quali sono questi bias cui accenna?

Luca Mercalli – Ci sono due elementi quando parliamo di clima che ci allontanano dalla presa di coscienza: uno è legato al fatto che dei cambiamenti climatici cominciamo a vedere i sintomi ma i danni peggiori li vedranno probabilmente le generazioni più giovani, coloro che verranno dopo di noi. Come sempre, quando c’è un rischio a lungo termine, proprio la fenomenologia del comportamento umano è quello di rimuoverlo. Lo vedo spesso anche in situazioni più semplici, banali e individuali, come quella del fumatore. Chi fuma, anche se avvertito dall’impatto che il fumo ha sui polmoni, tende a ignorare questa prevenzione perché il momento nel quale sperimenterà il danno sanitario è molto lontano nel tempo. Con il clima è ancora peggio perché i tempi possono essere più lontani ancora rispetto alla possibile formazione di un tumore per un fumatore e il clima è anche più astratto rispetto al fumo. Se già il malanno da fumo non convince il fumatore a smettere di fumare, pur essendo un danno su se stesso, a maggior ragione il clima convince ancora meno a prendersi delle responsabilità perché è un danno fuori da se stessi.
Il secondo motivo è invece al contrario legato alla dimensione del problema. Il problema è così grande e così globale che spesso il bias cognitivo è un modo di rimuoverlo. È qualcosa di così fuori dalla mia portata che è meglio ignorare: lo ignoro così non ho un’ansia o una nuova responsabilità generata dal prenderne coscienza.
Questi sono i due grandi elementi che fanno sì che le persone o ignorano il problema, quindi ne sono indifferenti, o addirittura lo negano con grande veemenza. Pensiamo infatti al negazionismo climatico, è una forma di difesa interiore, o almeno per chi non lo fa per interessi economici: sappiamo benissimo che c’è anche un negazionismo mosso da una precisa difesa degli interessi di parte, ma ce n’è anche uno molto più banale che è legato al tentativo dell’individuo di rimuovere e allontanare da sé un’ansia.

 

GF – Sul versante opposto c’è anche chi la gravità della situazione l’ha compresa e non solo riesce a individuare la follia di uno stile di vita totalmente incurante del pericolo imminente – direi già presente – ma ha sviluppato quella che oggi chiamiamo “ecoansia”, un termine coniato attorno al 2009 ma accolto solo nel 2021 nel lessico dell’autorevole American Psychological Association. Ritiene che questo fenomeno, che oltretutto riguarda soprattutto la popolazione più giovane, sia destinato ad aumentare?

Luca Mercalli – Tenga presente che io studio il clima e non ho certamente le competenze e la conoscenza per giudicare con i mezzi di chi studia la psiche umana, anche se questi diventano via via dei temi che sto cercando anche io di comprendere. Posso solo osservare che l’ecoansia può essere di due tipi: c’è un’ecoansia paralizzante e una che invece promuove l’azione. Io penso che un po’ di ansia sia necessaria, perché se non ci rendiamo conto della dimensione enorme del problema che abbiamo davanti poi è anche facile non occuparsene. Se tutto è sotto controllo, se non appare grave come realmente è, io non prendo dei provvedimenti, perché è molto più facile pensare che ci sarà qualcun altro a risolvere questo problema, oppure pensare che non sia così grande e urgente da risolvere. Io credo che sia necessario un livello minimale di ansia e di preoccupazione che però non deve essere panico, non deve essere qualcosa che blocca o che produce depressione o disfattismo. Una via di mezzo. Quella che vivo su me stesso: anche io ho un’ecoansia ma diciamo che l’ho mutata in azione, nel compiere concretamente delle scelte che migliorino il mio bilancio ambientale. Se ho fatto l’isolamento termico della casa e ho messo i pannelli solari credo di aver fatto qualcosa di giusto e utile a me stesso e alla collettività, quindi ho anche diminuito la mia ecoansia, perché ho potuto trasformarla in un atto concreto. Ho comprato la macchina elettrica e la carico con i miei pannelli solari, ho installato una cisterna per la raccolta dell’acqua piovana (invece della piscina), non utilizzo più l’aereo, mangio meno carne. Queste sono le cose che sono alla portata di un individuo. Sull’ecoansia legata alle decisioni sbagliate dei leader mondiali non ci possiamo fare molto: non siamo eroi. La psicologia ci insegna anche che dobbiamo essere consapevoli pure dei nostri limiti, altrimenti ci facciamo sopraffare dall’impotenza. Io dico, la via di mezzo è: comincia a fare tu quello che puoi.

 

GF – Nel suo libro Non c’è più tempo. Come reagire agli allarmi ambientali (Einaudi, 2020) scrive che in una ipotetica realtà parallela in cui lei fosse il Presidente del Consiglio promuoverebbe «un grande sforzo di sintesi tra scienze dure e scienze umane, con un nuovo ruolo della filosofia». Quale dovrebbe essere questo ruolo?

Luca Mercalli – Proprio quello che abbiamo detto finora. Tutta la nostra conversazione di adesso mette insieme questi mondi. Io in fondo rappresento più il mondo delle scienze naturali, però, chiedo e mi piacerebbe, l’aiuto delle scienze umane. Mi piacerebbe parlare di queste cose con l’antropologo, con lo psicologo sociale, con il sociologo e con il filosofo e trovare insieme delle soluzioni.

 

Grazie davvero a Luca Mercalli per questa chiacchierata!

 

Giorgia Favero

 

[Photo credits Wikimedia Commons]

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Risposte globali per problemi globali

Il mondo contemporaneo si trova sul limitare di un crepaccio. Sotto di lui, come un torrente impetuoso all’interno di un canyon, scorrono i problemi e le sfide della nostra epoca; con un’azione di erosione, lenta ma continua, essi minano la stabilità della nostra posizione, facendoci rischiare la caduta nello strapiombo. Fuor di metafora, le Nazioni, la società e tutti noi – singoli individui – siamo di fronte a un bivio: trovare soluzioni per affrontare, o arginare, i problemi e le sfide del mondo contemporaneo o arrenderci e consegnarci nelle mani dell’inevitabile.
Per alcuni il punto di non ritorno è stato già superato: la crisi climatica avrebbe raggiunto una radicalità tale che le azioni che possiamo operare non possono fare nulla per evitare il declino dell’umanità. Per altri la situazione è drammatica ma, impegnandoci con decisione, potremmo essere in grado di limitare il problema nel presente e trovare soluzioni per risolverlo nel futuro. Per altri ancora, infine, un insanabile ottimismo li convince che l’apparato tecnico/tecnologico sia sicuramente in grado di affrontare la sfida, come in parte ha già mostrato di saper fare nel corso della storia umana.

Ma non esiste solamente la crisi climatica. L’uomo contemporaneo è accerchiato da una quantità tale di difficoltà, preoccupazioni e questioni da ritrovarsi la maggior parte delle volte disarmato e indifeso. Terrorismo, crisi migratoria, guerre economiche, assetti geopolitici instabili, scarsità di risorse, impoverimento culturale e crisi demografica sono solo la superficie di questa condizione terrificante.

Innanzitutto non bisogna lasciarsi sopraffare, analizzando con spirito critico ciò che ci si pone davanti. La prima riflessione che potrebbe emergere sarebbe quella di riconoscere la sostanziale interdipendenza che caratterizza questi problemi. Ciò è conseguenza necessaria della caratteristica sempre più complessa del mondo contemporaneo. “Complesso” non significa “complicato” ma intrecciato profondamente in un insieme di nodi, a formare una struttura resistente e compatta. Ciò significa che la prima azione da compiere è quella di riconoscere questa complessità, accettarla e capire che per affrontarla è necessario tenere conto delle infinite interconnessioni che formano – e non esauriscono – questo insieme.

Proprio questa caratteristica di complessità trascina la nostra seconda riflessione: questi problemi formano una matassa globale che nei suoi intrecci impatta sulla vita di tutti, nessuno escluso. Questa è anche una conseguenza necessaria della globalizzazione che ha contraddistinto lo sviluppo della società umana negli ultimi tempi e, riconosciuto questo fatto, dovrebbe allora risultare immediatamente chiaro che le azioni intraprese per affrontare queste questioni non possono che essere conseguenza di una risposta globale. Con buona pace dei sovranismi – la cui caratteristica intrinseca antistorica dovrebbe essere immediatamente visibile dopo la nostra, seppur breve, descrizione – risulta chiaro che risposte messe in campo a livello regionale, nazionale e “continentale” non possono più essere sufficienti per affrontare i problemi della contemporaneità e, anzi, si costituiscono esse stesse come nuovi problemi in quanto ostacolano una (se possibile) soluzione.

Ma come ottenere una risposta globale? Tentativi sono stati fatti – pensiamo alla COP21 a Parigi del 2015 e alle successive, come la COP27 che si sta svolgendo in questi giorni in Egitto – ma è evidente a tutti che finché gli accordi saranno siglati seguendo le disponibilità dei singoli Stati e con condizionalità ben difficili da far rispettare (basti vedere il ritiro degli Usa, sotto l’amministrazione Trump, dagli accordi di Parigi o, più recentemente, le posizioni di India e Cina) questi tentativi non faranno altro che rimanere tali. Il problema sostanziale è che non esiste una reale autorità che determini e regoli il gioco delle parti. Ogni singola Nazione (giustamente) tiene da conto i propri interessi individuali ma ciò la porta a mettere sul “piatto dei doveri” le minori risorse e il minor impegno possibili e a dedicarsi alla minor intraprendenza possibile. E può fare questo proprio perché non esiste un garante globale che obblighi ad un serio impegno i singoli Stati, avendo l’autorità di imporre reali sanzioni per il non rispetto degli impegni. In sostanza, un’unione globale di stati, che si articoli nei tre poteri fondamentali – legislativo, amministrativo e giudiziario – con tutte le controversie e proporzionalità del caso. Tentativi verso un’unione delle nazioni sono già stati intrapresi dopo la prima e dopo la seconda guerra mondiale, rispettivamente la SDN (Società Delle Nazioni) e l’ONU. La prima è già stata sciolta, mentre i problemi del mondo contemporaneo stanno sancendo il definitivo fallimento della seconda: il peso degli ammonimenti, delle (relativamente poche) azioni e delle indicazioni delle Nazioni Unite sono il più delle volte insignificanti su larga scala. Gli interessi particolari dei singoli Stati costituiscono una forza motrice troppo forte per essere minata da un organismo la cui autorità non è possibile da far rispettare, proprio perché non dispone né di sufficienti apparati volti allo scopo né di un reale principio valido per imporre quell’autorità.

La questione è ovviamente enormemente complessa ma risulta fondamentale iniziare a riflettere sulle sfide della nostra epoca a partire da un dato di partenza incontrovertibile: esse necessitano di risposte globali, essendo i problemi stessi globali.

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

[Photo credit NASA via Unsplash]

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Un grado e mezzo e forse più: è tempo di una presa di coscienza

Perché contrastare il cambiamento climatico è un dovere sempre più urgente di cui la politica non si fa carico.

 

Ha avuto molta eco la notizia del nuovo report1 pubblicato dal Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) delle Nazioni Unite, il più importante organismo scientifico dedicato alla ricerca su questo tema. Il rapporto, redatto da 91 autori e che cita migliaia di studi scientifici, fa passare in sostanza due messaggi abbastanza chiari: il primo è che bisogna limitare l’aumento della temperatura media del pianeta a non più di 1.5 gradi per scongiurare rischi catastrofici, il secondo è che bisogna fare presto. Quanto presto? Il rapporto parla di 12 anni: si devono intraprendere da subito misure che limitino l’aumento di temperatura entro il 2030, o per molte aree sarà troppo tardi.

Cosa succederebbe in concreto? Aumenterebbe il numero delle persone colpite da ondate di calore, oltre a estati torride e eventi estremi che renderebbero anche più difficile la coltivazione dei cereali, prima fonte di nutrimento per miliardi di persone. Scomparirebbero le barriere coralline e i loro ecosistemi. Gli oceani si alzerebbero in media di 10 centimetri, rendendo difficile o impossibile la vita a milioni di persone che vivono sulle coste. Tutto ciò comporterebbe migrazioni di massa.
In via teorica quindi la soglia da non oltrepassare sarebbe di 1.5 gradi centigradi rispetto all’epoca pre-industriale, ma la realtà è diversa. L’accordo di Parigi sul clima, il più grande patto tra paesi firmato nel 2015, prevedeva di ridurre le emissioni entro il 2050 in modo da non far aumentare la temperatura più di 2 gradi. L’accordo sul clima è stato un grande passo, ma da allora gli Stati Uniti di Trump si sono sfilati e adesso anche il Brasile potrebbe farlo considerando le posizioni del suo nuovo presidente eletto, il populista di estrema destra Bolsonaro. Ora, alla luce del rapporto IPCC, anche quello che è stato uno storico traguardo, seppur indebolito, appare come non più adeguato.

Ridurre le emissioni ed evitare che il nostro pianeta si scaldi sopra la soglia del grado e mezza è al momento possibile solo se tutto il mondo iniziasse a lavorarci immediatamente. Cosa che comporterebbe un drastico cambio nei metodi di produzione dell’energia, nella gestione dell’agricoltura e dei trasporti. Il rapporto stima che per raggiungere l’obiettivo virtuoso sarebbe necessario una spesa annua pari al 2,5% del Pil mondiale, per 20 anni. Le emissioni così dovrebbero dimezzarsi in soli 12 anni e azzerarsi entro il 2050, per rimanere entro gli 1,5 gradi, o non oltre il 2075 per stare sotto i 2. Ma potrebbe non bastare. Secondo il rapporto i paesi di tutto il mondo dovrebbero inoltre sviluppare una tecnologia, non ancora testata su larga scala, per rimuovere ogni anno miliardi di tonnellate di anidride carbonica dall’atmosfera. Per questo stime ottimiste danno infatti già per sforati i 2 gradi nei prossimi decenni, altre addirittura i 3.

Alla luce di questi dati il riscaldamento globale è ancora più chiaro essere la grande minaccia di questo secolo per la Terra. Il fatto è che lo si sa e lo si dice da tempo. Il problema si conosce dalla fine degli anni ’60, ma tra contro rapporti commissionati e confezionati ad arte da giganti degli idrocarburi come Exxon e amministrazioni apertamente contrarie, la sensibilità collettiva si è formata, con difficoltà, in un periodo abbastanza recente.
Non sembra però essere ancora un problema così sentito, da mobilitare masse di elettori e spostare voti. Non è un tema da mettere in agenda e da cavalcare per quasi nessuno. L’Italia ne è la conferma: nell’ultima campagna elettorale le tematiche ambientali sono sparite da programmi e dibattiti. E poi c’è il problema dei media. Si fanno un paio di pagine quando esce una notizia sul riscaldamento globale, in alcuni casi neppure quelle, e poi silenzio. Non fa vendere, e un settore in crisi non se lo può permettere. È un problema perché se la politica non se ne occupa dovrebbero essere i media a formare le coscienze e fa servizio pubblico su una questione così importante.

In un lungo e documentato articolo su Valigia Blu, Angelo Romano ripercorre la storia del dibattito sul clima e dei momenti che potevano essere risolutivi e non lo sono stati. Romano cita una frase dura e illuminante di un giornalista del New York Times, Nathaniel Rich, che già 30 anni fa, occupandosi della questione ambientale, scriveva: «Gli esseri umani, che si tratti di organizzazioni globali, democrazie, industrie, partiti politici o individui, non sono in grado di sacrificare la convenienza attuale per prevenire un danno imposto alle generazioni future». Decenni dopo continua a prevalere l’agenda dell’immediato, non una visione di futuro. E meno male che sarebbe la sfida del nostro tempo.

 

Tommaso Meo

 

NOTE
1. Questo il rapporto del IPCC – Intergovernmental panel on climate change.

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Per uno sviluppo sostenibile: intervista all’ex ministro Enrico Giovannini

Abbiamo raggiunto telefonicamente Enrico Giovannini sulla via del ritorno dal Festival di Internazionale a Ferrara, svoltosi dal 29 Settembre al 2 Ottobre scorso. Giovannini, economista e statistico, già presidente dell’Istat, ex ministro del Lavoro e delle Politiche sociali del governo Letta, da sempre attento ai temi della sostenibilità, è ora fondatore e portavoce dell’ASviS (Alleanza italiana per lo Sviluppo Sostenibile): si tratta di una rete di associazioni del mondo civile ed industriale italiano con l’obiettivo di sensibilizzare la società e la politica italiana rispetto agli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’ONU in materia di sviluppo sostenibile. L’abbiamo contattato il giorno dopo il suo intervento dal titolo Un’altra idea di mondo al Teatro Nuovo di Ferrara, gremito di giovani, nel quale ha parlato delle varie proposte della sua associazione e del futuro dell’Italia.

 

Giovannini, lei è portavoce dell’ASviS (Alleanza italiana per lo Sviluppo Sostenibile): ‘sviluppo sostenibile’ oggi ci sembra un termine quasi abusato, malamente applicato all’interno dei contesti, probabilmente perché il concetto non è realmente capito. Ce lo può spiegare?

Per molti anni il concetto dello sviluppo sostenibile è stato declinato  fondamentalmente in una dimensione ambientale. Per fortuna non è più così. Dalla commissione Bruntland, che aveva parlato di uno sviluppo sostenibile articolato in quattro dimensioni – economica, ambientale, sociale e istituzionale – è passato gradualmente un concetto che è più esteso della pura dimensione ambientale. Dopodiché, l’anno scorso, con l’assunzione dell’agenda 2030 dell’ONU e la fissazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile, questa visione – come si dice in modo abusato – a 360 gradi, è stata riconosciuta come l’unica possibile. Sul piano della misurazione da molti anni gli statistici internazionali hanno fatto presente che la sostenibilità di un modello di sviluppo ha a che fare con la quantità di capitale fisico, sociale, naturale e umano che ogni generazione trasmette alla generazione successiva; quindi effettivamente ormai, nonostante il rischio di abuso di cui lei parla, penso che il concetto sia stato almeno definito in modo chiaro.

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Quali possono essere i mezzi e le strategie più efficaci affinché si generi una maggior sensibilità, una sensibilità condivisa nei singoli a queste tematiche, che sono dunque estese oltre il problema ambientale?

Abbiamo creato l’ASviS, l’Alleanza italiana per lo Sviluppo Sostenibile, proprio per sostenere in Italia l’applicazione dell’intera agenda 2030, di tutti i 17 goals e i 169 targets che vanno dalla povertà alla pace, alla violenza, alle disuguaglianze, all’educazione alla salute, alle tematiche ambientali, ma riguardano anche l’occupazione e la crescita del benessere. Noi di ASviS abbiamo sposato proprio questa logica nel rapporto che è stato presentato il 28 Settembre alla Camera dei Deputati, e che è accessibile sul sito www.asvis.it. Ecco, queste 126 organizzazioni della società italiana che formano ASviS, rappresentano complessivamente più di duemila associati che si sono messi insieme per delle proposte molto concrete. Per esempio abbiamo suggerito di inserire il principio di sviluppo sostenibile nella parte prima della Costituzione, come è stato fatto in Francia e come è stato fatto in Svizzera, perché, se lo sviluppo sostenibile deve guidare non solo le politiche ma anche i comportamenti dei singoli e delle imprese, trovo questo uno dei principi cardine su cui vogliamo che si basi tutto, quindi anche le future leggi. Abbiamo inoltre proposto che il Presidente del Consiglio prenda in mano l’agenda complessivamente, trasformando il comitato interministeriale per la programmazione economica in un comitato interministeriale per lo sviluppo sostenibile proprio per marcare un cambiamento di paradigma, in cui non ci si concentri soltanto sulla crescita economica. E poi ci sono altre iniziative istituzionali tra cui l’avvio di una campagna informativa continua su questi temi, ma soprattutto l’educazione allo sviluppo sostenibile nelle scuole. Per questo siamo in contatto con il MIUR per sviluppare dei programmi in tale direzione. È importante che le università italiane, tramite la conferenza dei rettori, abbiano creato la rete delle università per lo sviluppo sostenibile, volta non solo ad applicare i principi di sostenibilità alla mobilità degli studenti, ma che condivide anche una strategia a tutto campo che ha a che fare con la ricerca e con i programmi didattici. Per ciò che riguarda invece le proposte di politiche concrete, queste sono articolate intorno a sette assi: il primo asse ruota intorno al cambiamento climatico e all’energia, il secondo riguarda le disuguaglianze, non solo di reddito o di ricchezza ma anche di accesso, di opportunità e di genere, il terzo asse riguarda l’innovazione e il lavoro, il quarto asse ha a che fare con il capitale umano (che vuol dire salute, istruzione stili di vita), il quinto riguarda il capitale ambientale e quindi le dimensioni ambientali, poi ancora le città, le infrastrutture, il capitale sociale e infine la cooperazione internazionale.

Esiste una differenziazione a livello strategico nel loro coinvolgimento alle politiche sostenibili? Qual è il loro ruolo sia in termini ricettivi che attivi?

Le rilevazioni che sono state fatte in Italia (ma non solo), mostrano come i giovani siano molto più ricettivi su queste tematiche, hanno molto più la consapevolezza dell’interdipendenza nel nostro Paese rispetto ad altri Paesi, e sono più sensibili ai temi della sostenibilità ambientale. Trasformare tutto questo in azione è credo uno dei grandi interrogativi che le società in particolare occidentali hanno, perché è evidente che questo nuovo paradigma non promette necessariamente umori meravigliosi e per definizione migliori del passato.

Questo è un cambio importante. Vuol dire passare da un concetto di crescita quantitativa a uno di benessere anche qualitativo. Però è evidente che in questa prospettiva la disoccupazione giovanile, che in Italia è così alta, non aiuta, anzi taglia le gambe a quella che sappiamo essere la generazione più istruita che questo Paese abbia mai avuto. Quindi come riuscire a coinvolgere i giovani è uno dei temi anche per l’ASvis  e stiamo prendendo contatto in particolare con associazioni studentesche e soggetti che mettano i giovani sul mercato del lavoro, per coinvolgerli attivamente, non semplicemente come ricettori, ma come attivi partecipanti. Ieri a Ferrara sono stato molto lieto che il teatro fosse pieno di giovani interessati e anche al termine dell’incontro ho avuto modo di conversare con loro. Insomma credo che questa, essendo un’agenda per il futuro, sia un’agenda che le giovani generazioni debbano usare per cambiare un modello di vita insostenibile.

Lei ritiene che oggi si possa parlare di un’etica della sostenibilità?

Sempre di più ci sono persone che a causa della crisi di questi anni hanno scoperto di consumare in modo superfluo. E questa è una ragione per cui, in Italia e non solo, gli stili di consumo stanno cambiando. Certamente negli altri Paesi europei c’è una disponibilità molto maggiore, per esempio per una mobilità non basata sul mezzo privato. Nelle città italiane il mezzo privato è ancora considerato fondamentale; in quelle spagnole, danesi, nel nord Europa, sono invece considerati prioritari altri strumenti, in nome di una condivisione dei mezzi. Quindi è molto difficile dare giudizi in modo così generalizzato. L’ultima considerazione da fare è che molte imprese stanno effettivamente cambiando approccio. Alcune si stanno facendo semplicemente un new dressing: usano cioè il concetto di ‘sviluppo sociale’ o ‘sostenibilità’ come uno specchietto per le allodole in termini pubblicitari; molte altre invece hanno intrapreso veramente delle trasformazioni importanti. Il fatto che a fine anno finalmente l’Italia dovrebbe recepire la direttiva europea per la rendicontazione non finanziaria (cioè l’obbligo per le imprese di rendicontare attraverso bilanci che non guardino solo alle dimensioni economiche, ma anche a quelle sociali e ambientali) può aiutare a cambiare questa cultura. Dicevo, molto sta cambiando ma troppo lentamente perché il tempo che abbiamo davanti per cambiare modello di sviluppo non è molto, prima di avere il collasso di alcuni sistemi.

Concludiamo con una questione che ci è (ovviamente) cara: che cosa pensa della filosofia? Ritiene che possa predisporre l’apertura mentale giusta per accogliere ed anche attuare delle politiche più consapevoli?

Quand’ero ragazzo, dovendo scegliere che facoltà frequentare, l’alternativa era tra Filosofia ed Economia. Alla fine scelsi Economia, ma ritenendo che l’economia (soprattutto moderna) non debba essere pura matematica applicata attraverso modelli rigidi, ma che la componente umana sia assolutamente fondamentale per capire comportamenti e movimenti che nella società sono molto più profondi di quelli insiti nei modelli economici. Se filosofia vuol dire la riflessione sui fini ultimi dell’uomo, della società, e vuol dire anche l’elaborazione di modelli che aiutino in modo più complessivo, olistico, a trattare le problematiche che oggi abbiamo davanti, indubbiamente la filosofia può contribuire a questo modello di sviluppo, a questo nuovo modo di concepire le relazioni tra economia, ambiente e società, e soprattutto a rendersi conto che i singoli non sono tali ma sono sempre parte di una società che è viva, che evolve ma non necessariamente nella direzione giusta. Quindi tutti sono chiamati a contribuire a questo sforzo di portare il mondo su un vero e proprio sentiero di sviluppo sostenibile.

 

Dalle parole di Giovannini si evince quindi il volere di unire un forte spirito umanistico a politiche economiche e sociali concrete per cambiare il modello di sviluppo che conosciamo oggi. Importante è anche la visione di sostenibilità che comprende tantissimi ambiti interconnessi tra loro: dall’ambiente in primis, all’istruzione, alla salute, al lavoro. Non bisogna pensare di cambiare singoli ambiti della nostra vita, ma di cambiare il nostro modello di vita affinché sia più sostenibile in tutti i sensi e garantisca maggiore giustizia e inclusione sociale. Le premesse e le volontà popolari sembrano esserci, come testimonia la nascita di Asvis. Ora la palla, come sempre, passa alla politica.

Tommaso Meo

[Le immagini sono tratte da Google Immagini e da www.onuitalia.com]

Se la primavera non tornasse… Intervista a Luigi Emmolo

L’acqua alta non è più solo un problema di Venezia, né di tutti i pendolari che la frequentano con gli stivali sempre a portata di mano. L’innalzamento del livello dell’acqua sta diventando una realtà che riguarda il mondo intero, o, se non vi piace osservare ciò che succede a troppi chilometri di distanza, riguarderà quasi tutta la pianura padana. Probabilmente tutti abbiamo sentito parlare della situazione problematica del clima, dello scioglimento dei ghiacciai, ma nessuno di noi ha mai sentito come personale questo problema, né l’ha mai tastato con mano.

Per capire qual è la situazione in cui si trova effettivamente il nostro territorio, abbiamo parlato con Luigi Emmolo, professore di Biologia e Chimica e autore del romanzo “Se la primavera non tornasse…”.

  • Luigi, parlaci in breve del tuo racconto, di cosa tratta?

Si tratta di un libro di sensibilizzazione sulle problematiche ambientali e sociali che caratterizzano i nostri tempi. Racconta la storia d’amore e d’avventura di un’ape e una farfalla che nascono nella Foresta Amazonica e che, scoperta una triste verità, decidono di affrontare l’oceano per raggiungere la Terra degli umani e parlare all’uomo per cercare di convincerlo a cambiare il suo stile di vita così impattante sull’ambiente e sulla sua stessa salute. È il racconto di un viaggio, di un sogno, di una commovente e indimenticabile storia d’amore che ha per protagonisti Noan e Flò, un’ape e una farfalla che decidono di affrontare l’oceano con l’intento di parlare agli umani, informarli delle conseguenze che potrebbero derivare dagli abusi nei confronti della Natura.

  • Come è nata la tua opera? Cosa ti ha spinto a scrivere questo libro?

Ho scritto questo libro per lo stesso motivo per cui ho deciso di fare l’insegnante, rinunciando tra l’altro alla possibilità di realizzare un sogno che coltivo sin da ragazzino: il sogno di diventare ricercatore. Il motivo è questo bisogno, questa necessità che sento di parlare a chiunque della natura, delle sue bellezze e dei rischi che essa corre a causa dei nostri comportamenti incuranti che sempre più stiamo portando avanti in un’ottica inconsapevolmente autodistruttiva. Notava Nicolas Georgescu-Rogen, padre fondatore della bioeconomia: “Mai, in tutta la sua storia, l’umanità si è trovata in una situazione più difficile. Parliamo di questa o quella specie in pericolo, ma evidentemente non ci si rende conto che forse quella in maggior pericolo è proprio la razza umana.”  Ecco, questo pensiero riassume perfettamente la motivazione che mi ha spinto a scrivere questo racconto: svegliare le coscienze umane, rendere la gente consapevole dei rischi che corriamo e del ruolo che ognuno di noi gioca, nel bene e nel male, rispetto a quanto sta accadendo a livello sociale e ambientale.

  • In che modo cerchi di svegliare le coscienze umane?

Mi dedico attivamente a campagne di sensibilizzazione rivolte soprattutto ai giovani, al fine di educare le persone a un corretto stile di vita e al rispetto dell’ambiente: punti di partenza per condurre una vita sana e felice. Con questo racconto, per quanto triste e realistico sia, cerco soprattutto di dare un segnale di speranza. Vorrei, infatti, che il mio messaggio arrivasse il più lontano possibile, che cambiasse il cuore della gente, per generare consapevolezze e cambiamenti capaci di migliorare il mondo.

  • “Se la primavera non tornasse…” è una favola che racchiude in ogni sua parte un livello simbolico-metaforico, raccontacene qualcuno!

51Fmxz2wxCL._SX355_BO1,204,203,200_Flò, la farfalla, simboleggia la “Natura”; bella, elegante nelle sue forme e colori, ma anche e soprattutto fragile, proprio come i delicati equilibri che tengono in vita il Pianeta.

Noan, l’ape, è invece il simbolo della “Speranza”; le api ricoprono infatti un ruolo importantissimo nella biosfera: esse impollinano i fiori consentendone la riproduzione e la diffusione sulla terraferma, garantendo così, a tutti gli animali del Pianeta, il cibo e l’ossigeno di cui hanno bisogno per vivere. Anche i luoghi descritti sono densi di significato: la Foresta Amazzonica simboleggia infatti il mondo puro e incontaminato, incantevole, com’era una volta.

  • La situazione del nostro pianeta è così grave?

Ci rimane meno del 20% delle Foreste, l’80% delle riserve ittiche viene oggi sfruttato al limite o oltre la massima capacità di rigenerazione, entro il 2025 il 50% della popolazione mondiale potrebbe sperimentare delle gravi carenze idriche, e infatti è già stato lanciato l’allarme per una migrazione planetaria che potrebbe interessare dai 250 milioni a 1 miliardo di individui, produciamo più di 4 miliardi di tonnellate di rifiuti all’anno, la temperatura del Pianeta è in aumento e potrebbe salire di 4-5 gradi nei prossimi decenni, la produttività dei terreni sta diminuendo per tutta una serie di concause e la barriera corallina sta scomparendo ad una velocità spaventosa.

  • Nel libro affronti tantissimi problemi ambientali e sociali, però ce n’è uno che riguarda ancor più da vicino le zone della provincia di Treviso, ricche di vigneti e di coltivazioni

Sì, è il delicato ed attualissimo problema dei pesticidi: sostanze utilizzate in agricoltura per combattere i parassiti delle piante ma che hanno degli effetti gravissimi anche sull’uomo. È stato infatti dimostrato essere sostanze cancerogene, mutagene, teratogene, reprotossiche e neurotossiche. Dobbiamo quindi cercare di ridurre l’esposizione a queste sostanze, tutelando soprattutto le persone più vulnerabili, quali sono ad esempio le donne in gravidanza, in allattamento e i bambini.

  • Possiamo definire questo racconto una sorta di attacco al sistema capitalistico-consumistico; un sistema che ha portato alla distruzione degli equilibri naturali ma anche di quei valori che danno un senso all’esistenza: il valore della famiglia, dell’amicizia, dell’alterità, della libertà, della sana alimentazione e quindi della salute. Dico bene?

Sì. È un attacco a un sistema che è riuscito a trasformare la società in una mega-macchina il cui unico fine è quello di produrre. In un sistema del genere l’uomo è quindi visto come un semplice ingranaggio al servizio di chi, dotato di capitale da investire, può accrescere il proprio profitto a scapito della salute e della felicità della gente comune. Un sistema del genere deve essere quindi abbandonato al più presto, anche perché non può che portare alla distruzione del Pianeta. Non è possibili infatti accrescere i consumi all’infinito in un sistema dalle dimensioni finite qual è la Terra!

  • La filosofia può aiutare le persone a contrastare il sistema capitalistico, i cui effetti stanno rovinando il pianeta?

Sicuramente, perché può indurre ogni singola persona alla riflessione sulla vita. Risalendo alle cause degli eventi che ci circondano, possiamo comprendere da dove sia partita la deriva ambientale che stiamo vivendo. Con il mio libro infatti vorrei stimolare ogni persona a capire che la concatenazione degli episodi dannosi del pianeta include anche una responsabilità personale. Sensibilizzando ragazzi e bambini si può costruire una base per una società che viva in simbiosi con il proprio territorio, rispettandolo e capendo di cosa ha bisogno.

  • Ma esiste secondo te un’alternativa a questo sistema, alla società della crescita?

Certo! È il suo esatto opposto: un sistema che insegue l’ideologia della decrescita. Una società in grado di vivere all’insegna della frugalità, in cui ognuno si autoproduce quante più cose possibile, una società basata sul dono, sullo scambio di beni, che consuma soprattutto prodotti locali, che mette al primo posto la sana alimentazione, l’istruzione, la salute, l’amore e la libertà.

  • Il tuo libro è uscito da poco ma sta avendo grande risonanza: molte scuole lo stanno utilizzando per la realizzazione di progetti di sensibilizzazione, ha ricevuto importanti sponsorizzazioni e si è classificato al primo posto nella fase web del prestigioso Concorso Nazionale “Casa Sanremo writers 2016”. Qual è, secondo te, il motivo di tale successo?

Credo siano due i punti di forza di questo libro. Il primo è rappresentato dal tema affrontato. Un tema delicatissimo, attuale e che spinge ogni giorno milioni di cittadini, consapevoli dei gravissimi rischi che stiamo correndo, a cambiare il proprio stile di vita per renderlo più ecosostenibile. Per queste persone che credono e sperano in un mondo più salubre e giusto, il mio libro rappresenta un ottimo strumento per veicolare ad amici e parenti i valori in cui tanto credono, per questo lo stanno comprando e ne stanno favorendo la diffusione.

L’altro punto di forza è rappresentato dallo stile narrativo adottato, il quale mi ha permesso di affrontare questi temi così importanti senza però stancare il lettore, anzi, emozionandolo attraverso la dolcezza degli scenari descritti, dei personaggi, e le storie d’amore e d’amicizia che avrà la possibilità di vivere attraverso la lettura.

  • Ultima domanda, dedicata ai nostri lettori: cosa pensi della filosofia?

La filosofia è una disciplina completa, che si può occupare di aspetti molto diversi tra loro, tutti affrontati con un metodo rigoroso di riflessione, argomentazione, ragionamento. Se potesse diventare un campo di indagine fruibile a tutti, non rimanendo isolata a una materia di studio, potremmo avere risultati stravolgenti nella vita di tutti i giorni, nella quotidianità di ognuno di noi. Riflettendo sul senso delle cose, sulla loro naturalità, staremmo sicuramente più attenti a preservare il pianeta in cui viviamo, l’ambiente che ci dà il necessario per vivere e che ha bisogno del nostro aiuto.

Giacomo Dall’Ava

[immagini concesse da Luigi Emmolo]

L’impatto con Doha

La prima volta che sono arrivata a Doha non è stato per restarci. Era una semplice visita a mio marito. Una breve vacanza di qualche giorno che tuttavia mi ha permesso di studiare la città in attesa del grande trasferimento.

Quali sono stati gli aspetti che mi hanno colpito di più? Ho provato a stilare un elenco di cose che mi hanno stupito/scioccata/attonita durante il mio primo impatto con il Qatar.

            1. Il clima.

Basta un passo fuori dall’aereo che il caldo ti si avventa addosso come uno schiaffo violento sul viso.

Non ci sono parole per descrivere l’infernale clima di Doha dei mesi estivi (ma anche primaverili e un pò autunnali!)

Se si è fortunati e si sceglie di trascorrere qualche giorno in questa città durante i brevissimi mesi invernali (diciamo da dicembre a febbraio) allora si puà stare tranquilli e mettere anche una giacca ed un golfino in valigia.

            2. La gente.

In aereoporto il benvenuto viene dato dalle centinaia di Indiani, Pakistani, Bengalesi che per lo più svolgono servizi di taxi.

A queste persone si mischiano poi gli Europei, gli Americani, i Russi e tantissimi Filippini. Per non dimenticare gli Egiziani. Solo in un secondo momento si riesce a scrutare qualche locale, i Qatarini.

Doha è una città cosmopolita. La più cosmopolita che io abbia mai visto.

             3. Il traffico.

Essere una città che cresce alla velocità della luce comporta anche qualche aspetto negativo. Il traffico è impossibile qui a Doha. Le distanze non vengono indicate coi km, ma coi minuti necessari a percorrere la tratta (che non sono mai pochi). Percorrere 10 km potrebbe richiedere anche un’ora di tempo.

Le strade sono piene di enormi suv (un vantaggio del basso costo della benzina), purtroppo la maggior parte dei quail guidati da persone che ancora non capisco come possano avere la patente. Esistono limiti di velocità e multe molto, ma molto, severe. Tuttavia assistere a scene quali slalom tra una corsia e l’altra, gare di velocità, sorpassi azzardati è all’ordine del giorno. Le strade sono la giungla di Doha.

Doha Traffic

             4. I grattacieli in mezzo al deserto.

Il contrasto in perfetta armonia tra il downtown di Doha (il quartiere di West Bay) e il deserto circostante è di una bellezza estasiante. C’è la nuova Doha, la moderna Doha. E c’è la vecchia Doha, quella che fino a poco meno di cent’anni fa era fatta di accampamenti sparsi qua e la tra le dune del deserto.

             5.  Centri commerciali.

La vita qui in Qatar (come del resto nella maggior parte degli stati del Golfo) si svolge prevalenetemente al chiuso per ovvie ragioni climatiche. La città è piena di grandi mall che racchiudono ogni possible facility. Dal supermercato, alla lavanderia, al ristorante, ai negozi fino ad arrivare a veri e propri parchi di divertimento o piste di pattinaggio sul ghiaccio (!).

Passeggiare per le “vie dello shopping” tuttavia spiazza tantissimo. Sotto questo aspetto non manca quasi nulla. Le catene di abbigliamento più famose o i grandi marchi di lusso sono quasi tutte presenti a Doha. Con le stesse collezioni che si trovano in Europa e nel resto del mondo. Quindi vestitini, canotte, minigonne, jeans aderenti. I manichini indossano questi e altri capi “all’ultima moda”.

Ma come, non esiste un codice comportamentale a Doha, a rispetto delle regole musulmane? Si, esiste. Non si può andare in giro troppo scoperti.

Eppure i manichini sfoggiano gambe e braccia “nude”.

            6. Le ore della preghiera.

I musulmani devono pregare cinque volte al giorno. I tempi in cui farlo sono scanditi dal canto del Muezzin. Credo che questo sia uno dei primi grandi impatti con la cultura araba/musulmana. I canti dei Muezzin si diffondono da una moschea all’altra, rimbalzando per tutta la città.

Personalmente, ancora oggi ne sono affascinata. Sarà per via della lingua, saranno le note musicali, ma ogni volta mi sembra di essere catapultata nella magia de “Le mille e una notte”. Alla maggior parte delle persone non musulmane risultano invece alquanto fastidiose dato che si ripetono anche durante la notte.

            7. I marciapiedi.

Ovvero la quasi totale assenza dei marciapiedi, di spazi dove camminare all’aperto, di centri storici dove ritrovarsi per un caffè.

Sotto questo aspetto, il Qatar è molto più simile agli Stati Uniti.

Ecco, direi che questi punti riassumono perfettamente ciò che a primo impatto mi ha colpito di questa città, le differenze che ho visto tra la mia città natale e questa nuova che mi ha adottato.

Certo, poi più si vive Doha, più questa città ti offre spunti di riflessione o motivi di stupore (per non dire shock). Ad esempio le mamme che qui si chiamano nanny. Non lo sapevate? Si qui la mamma in realtà è la nanny, quella che noi chiamiamo tata in italiano. Ma se dovessi iniziare a parlare di questo adesso vi riempirei la testa con altre mille parole. Per cui credo di aver appena trovato il topic del mio prossimo post!

 Chiara Amodeo

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[immagini tratte da Google Immagini]