Un robot si aggira per l’Europa: la nuova dialettica servo-padrone

Delle migliaia di concetti introdotti da Hegel nella sua Fenomenologia dello Spirito, la dialettica servo-padrone (Herrschaft und Knechtschaft) è tra quelle che ha avuto maggior successo tra i pensatori successivi, tanto che sono in molti a collegarla a uno dei filosofi che l’ha riutilizzato con maggiore incisività, Karl Marx. Spogliando il rapporto tra signore e schiavo di ogni aspetto morale o trascendentale, sorvolando sul ruolo della paura della morte e della coscienza religiosa nel modello originale, Marx rielabora il pensiero hegeliano in modo che definisca le origini e le dinamiche della lotta di classe, presentandola come un rapporto dialettico non solo logico ma necessario.

Riassumendo il paradigma di Marx, si hanno un Padrone e un Servo: il Padrone fornisce sostentamento al Servo, che però rinuncia alla propria libertà per compiere determinati lavori. Il ribaltamento (logico-dialettico, ma anche storico) dei ruoli avviene al momento in cui il Servo realizza che il lavoro da lui compiuto è assolutamente necessario al Padrone, che però non è in grado di compierlo in prima persona: se prima il Servo pensava di dipendere dal Padrone per la propria vita, si accorge che è invece quest’ultimo a dipendere da lui. La consapevolezza porta alla ribellione, il Servo usa le proprie competenze per spodestare il Padrone e prendere il suo posto, così che i due invertano i ruoli. Al momento in cui l’ex-Servo ora Padrone dimentica come compiere i lavori che affida all’ex-Padrone ora Servo, il processo ricomincia.

Marx aveva pensato questa alternanza dialettica come potenzialmente infinita, proprio in quanto descrivente rapporti tra classi sociali diverse nel corso delle epoche ma sostanzialmente analoghe; il primo punto fermo era comprensibilmente una relazione-scontro tra esseri umani in carne ed ossa. I progressi della tecnica e dell’informatica, invece, paiono aver aperto un terreno anche filosoficamente inesplorato nell’ambito della dialettica servo-padrone, una prospettiva introdotta dall’irrompere sulla scena della possibilità reale dello sviluppo di un’intelligenza artificiale quasi umana.

Non è certo un caso che la cultura popolare, dalla letteratura fantascientifica di Isaac Asimov alla saga cinematografica di Terminator, dagli incubi televisivi di Black Mirror agli orrori su tela di H.R. Giger, abbiano visto nell’evoluzione del rapporto tra umani creatori e macchine intelligenti ma “schiave” le premesse di un conflitto “di classe” con ingredienti al contempo antichi e inediti. Quel che accomuna i replicanti di Blade Runner a Skynet, o l’HAL 9000 di 2001: Odissea nello spazio all’Ultron dei fumetti Marvel, o ancora i pistoleri-robot di Westworld al V’ger di Stark Trek, è proprio la prosecuzione dello scontro dialettico, che vede la bassa manovalanza cibernetica ribellarsi a un’intelligenza umana ormai percepita come inferiore e ingiustamente predominante. Appare quindi emblematico che la parola robot derivi proprio dal ceco robota, “lavoro pesante”.

Con buona pace di Asimov e delle sue tre leggi della robotica, la prospettiva di una prossima ribellione della macchina ha preso piede come ansia collettiva, che si riflette nei dilemmi etici legati ai robot usati in chirurgia, ai droni da guerra, alle auto a guida autonoma, ai software di selezione del personale. Le reali prospettive, non solo di una guerra tra uomini e macchine in stile Matrix ma semplicemente della creazione di un sistema software che possieda coscienza oltre che intelligenza, sono però fattualmente scarsissime. L’elemento più spaventoso, e più ignorato, è invece la fase preliminare al conflitto di classe all’interno del processo dialettico: la delega del lavoro.

Nella visione di Hegel e Marx, il Padrone diventa dipendente dal Servo perché non è più in grado di fare ciò che a lui delega, rinunciando a tutta la propria inventiva e alle proprie capacità per vivere di rendita sul lavoro altrui. Prima ancora che pensare a cyborg assassini o software senzienti, sarebbe forse il caso di preoccuparsi del fatto che, dati alla mano, la stragrande maggioranza della popolazione mondiale non sia più capace di scrivere correttamente nella propria lingua senza l’ausilio di un correttore automatico, non sappia fare anche semplici operazioni matematiche senza ricorrere a una calcolatrice, non riesca a orientarsi neanche all’interno del proprio quartiere senza un navigatore satellitare.

È più che probabile che l’intelligenza artificiale non si traduca mai in una coscienza artificiale, che le macchine non diventino mai senzienti, che le capacità di apprendimento e di adattabilità non si evolvano in autodeterminazione, che i miliardi di sinapsi sintetiche non lavorino mai tutte assieme per elaborare il pensiero “Io”. Anche in assenza di un Robot-Schiavo vero e proprio, però, l’Uomo-Padrone ha già cominciato da tempo a delegare a terzi una parte sempre più consistente delle proprie capacità, e l’assenza di una controparte reale e attiva che possa avviare lo scontro storico-dialettico non è affatto positiva: il conflitto, quantomeno, avrebbe il merito di riaffidare ora all’una, ora all’altra parte quelle capacità che, nella versione “in solitaria” della dialettica servo-padrone, rischiano di andare semplicemente perdute.

 

Giacomo Mininni

 

[Photo credit Franck V. via Unsplash]

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Che cosa può imparare Marx da Buddha?

In Occidente, soprattutto nel secolo ormai passato, molti intellettuali e politici si sono chiesti se marxismo e cristianesimo fossero compatibili o meno. Nel corso del tempo, molteplici studi hanno analizzato le similarità e le differenze sussistenti tra queste due grandi visioni del mondo. Certo, tra le due forze non sono mancati forti contrasti e demonizzazioni reciproche, ma sono state anche tentate delle sintesi tra questi due sistemi di vita e di pensiero. Il pensiero di Marx è stato per esempio una delle fonti di ispirazione della “teologia della liberazione”, tutt’ora invisa alla teologia più “ortodossa”.

Ma anche in Oriente ci si è posti il problema di capire se quanto Marx affermava fosse o meno conciliabile con quanto predicavano i grandi “geni” religiosi. Bhimrao Ramji Ambedkar (1891-1956), in un suo scritto intitolato Buddha o Marx (1956), si chiede per esempio se tra queste due figure viga armonia o un’insanabile opposizione.

Prima di riportare la sua opinione in proposito, ricordiamo che Ambedkar fu uno dei padri della costituzione indiana e che si impegnò strenuamente per contrastare e abolire il sistema castale vigente in India. Egli inoltre sì convertì al buddhismo e per le opere compiute in vita venne in seguito ritenuto da alcuni un Bodhisattva (un “illuminato”, un “Buddha”) lui stesso.

L’obiettivo dello scritto di Ambedkar è quello di sfatare il mito, molto diffuso tra i marxisti del suo tempo, per cui l’insegnamento di Buddha sarebbe “primitivo” e “arretrato” rispetto a quello del­l’autore de Il Capitale. Per Ambedkar le cose stanno esattamente al contrario: per quanto buddhismo e marxismo abbiano in comune alcuni punti del loro “programma”, è il pensiero di Marx che non riesce a stare al passo con quello di Buddha.

Iniziamo con l’enumerare i punti in comune tra i due grandi maestri. Secondo Ambedkar, Bud­dha e Marx convergono innanzitutto nel descrivere il posto che la religione e la filosofia devono occupare all’interno dell’esistenza umana, nonché lo scopo che esse debbono prefiggersi. Per Buddha, ricorda Ambedkar, «la religione deve riferirsi ai fatti della vita e non a teorie e speculazioni intorno a Dio, all’Anima, al Cielo o alla Terra». «La funzione della religione – così Ambedkar sintetizza il pensiero del Buddha – è di trasformare il mondo e renderlo felice e non di spiegare la sua origine o la sua fine». Ma anche per Marx «lo scopo della filosofia è trasformare il mondo e non spiegare l’origine dell’universo». È infatti nota a tutti la sua sentenza: «Finora i filosofi hanno interpretato il mondo in modi diversi; ora si tratta di cambiarlo» (è l’undicesima delle Tesi su Feuerbach). Per entrambi, ciò che più conta è rendere il mondo un posto migliore, piuttosto che tentare di indovinare le sue esatte caratteristiche mediante la pura speculazione.

L’altra convergenza di rilievo riguarda ciò che Buddha e Marx pensano della proprietà privata. Secondo Buddha «l’infelicità del mondo è dovuta al contrasto degli interessi». In particolare, «la proprietà privata dei beni dà potere a una classe e dolore a un’altra». È pertanto «necessario per il bene della società che questo dolore sia eliminato attraverso l’eliminazione della sua causa». La proprietà privata va dunque abolita, se si considera il fatto che «tutti gli esseri umani sono uguali». Marx, come è noto, sostiene qualcosa di analogo: per lui infatti «la società si divide in due classi, padroni e lavoratori. Tra le due classi esiste sempre un conflitto […] [perché] i lavoratori sono sfruttati dai padroni, i quali si impadroniscono del plusvalore che è frutto della fatica dei lavoratori». La “chiave” per risolvere la situazione è, anche per Marx, l’eliminazione della proprietà privata: «allo sfruttamento si può porre fine con la nazionalizzazione dei mezzi di produzione, cioè con l’abolizione della proprietà privata».

Ambedkar riconosce che, almeno per quanto riguarda questi primi due punti, «l’accordo tra Buddha e Karl Marx è completo». La fondamentale differenza tra i due sta quindi non nell’analisi socio-antropologica che essi compiono (cioè il rilevamento dell’esistenza di dolori e ingiustizie nel consorzio umano), né nel tipo di fattore che essi individuano come causa degli “squilibri” esistenti nella società (ovvero la volontà di alcuni di tagliare fuori la restante parte dell’umanità dalla ricchezza prodotta), né nello scopo che essi intendono realizzare (la felicità di tutti in una società giusta), quanto piuttosto nei mezzi con cui intendono pervenire a questo obiettivo.

Per Marx, infatti, l’abolizione della proprietà privata si raggiunge mediante una rivoluzione e la seguente creazione di una dittatura temporanea che renda stabili i risultati ottenuti dalla rivoluzione; questa fase dittatoriale di transizione deve poi lasciare posto alla “società senza classi”. Spiega Ambedkar: «il crescente impoverimento dei lavoratori porta alla nascita tra di loro di uno spirito rivoluzionario e alla trasformazione del conflitto di classe in guerra di classe. Poiché i lavoratori sono molto più numerosi dei padroni, i lavoratori sono destinati a impadronirsi dello Stato e a stabilire il loro dominio, che Marx chiama dittatura del proletariato». Per arrivare a una società giusta è dunque necessaria la guerra, la violenza, e quindi «molto spargimento di sangue».

Per Buddha, invece, la via che bisogna perseguire per stabilire «il regno dei giusti sulla terra» è quella dell’auto­per­fezio­na­mento e della “non-violenza” (Ahimsa). Per mettersi sulla buona strada per un mondo migliore bisogna cioè praticare i Pancha Sila (“Cinque precetti della coesistenza pacifica”) e seguire le indicazioni del “Nobile ottuplice sentiero” (Arya Astangika Marga). «Ciò che il Buddha desiderava – annota Ambedkar – è che ogni uomo fosse così preparato moralmente da poter diventare una sentinella del regno della virtù».

Ambedkar approva quindi quanto Marx intende realizzare come scopo ultimo (una società egualitaria, l’eliminazione del dolore), visto che coincide con quanto Buddha si propone di porre in essere; ma, da buon buddhista, disapprova la violenza insita nei mezzi con cui il comunismo di allora intendeva raggiungere questo obiettivo. Per Ambedkar la dottrina di Buddha è quindi in un certo senso il compimento, l’inveramento, il perfezionamento di quella di Marx. Secondo Ambedkar, Marx può allora imparare qualcosa di importante dal “buon vecchio Buddha”: un modo alternativo e non violento di approdare all’obiettivo da lui tanto agognato.

 

Gianluca Venturini

 

BIBLIOGRAFIA
B.R. Ambedkar, Buddha o Marx, trad. di M. De Pascale, Roma, Castelvecchi Editore, 2017.

[Credit Mark Daynes]

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Da cittadini a consumatori: il valore del singolo nella postdemocrazia

Il Capitalismo ha vinto. La collettività soccombe sotto il peso degli interessi individuali, l’incubo descritto in Il Capitale di Marx si sta pienamente concretizzando. Il mondo del lavoro cambia, le identità collettive, che hanno caratterizzato il Novecento, vengono meno. La Democrazia che diamo come dato acquisito sembra oggi sempre più in balia di spinte che provengono da un libero mercato sempre meno controbilanciato da robusti, seppur flessibili, diritti sociali di cittadinanza, che garantiscano una ragionevole redistribuzione della ricchezza.

Il nuovo millennio si apre con un cambiamento radicale: più che cittadini siamo consumatori. Siamo molto più rilevanti come consumatori che come cittadini. Crouch ha coniato giustamente il termine “postdemocrazia” che designa un semplice eppur gigantesco paradosso: i sistemi politici europei e statunitensi sono in una fase di atrofia democratica, la globalizzazione rende questo fenomeno evidente, la democrazia resta nazionale in un mondo globale e cessa di esistere sulla soglia di quei luoghi dove vengono prese decisioni che influiscono sull’assetto mondiale.

L’identità di classe e la religione, che un tempo erano elementi fondanti della politica tradizionale, si sgretolano e con essi i partiti politici ormai sempre più distanti dalla popolazione e in balia del “marketing” politico. La svalutazione della politica e l’idea che il marcio della società si annidi nella classe dirigente ha reso sempre più la democrazia esposta alle pressioni di élite e grandi imprese che esercitano ora un ruolo di primo piano. Il nuovo millennio è una sorta di mondo post-feudale dove il potere non è più in mano agli stati e agli organi democratici, ma in mano a una sorta di nuova aristocrazia formata dalle grandi imprese. Uno Stato ha bisogno di legittimazione democratica, le élite non ne hanno bisogno. La crescente nostalgia per gli Stati-Nazione è appunto nostalgia per un passato che sta passando, quei dispositivi si dimostrano oggi strumenti del tutto inadeguati a organizzare e gestire la vita pubblica rispetto ai compiti politici che abbiamo di fronte.

In questo mondo paradossale abbiamo molto più potere come consumatori che come cittadini, determiniamo molto più il mondo e noi stessi per quello che compriamo piuttosto che per quello che votiamo, dimenticandoci che il mercato senza poteri a controbilanciarlo è destinato strutturalmente a inasprire le diseguaglianze e quindi a catalizzare i malesseri sociali che sfociano a loro volta in politiche protezionistiche, retrograde e difensive, che risultano rimedi peggiori del male che vorrebbero curare. Lo svilimento della classe dirigente e la politica “gratuita” per uscire dai soliti “magna magna” e l’idea che essa non dovesse essere un lavoro ha reso la politica stessa un ambito aristocratico, cioè ristretto a persone benestanti, per non dire ricche, e qui gli esempi si sprecano.

La crisi aumenta, i malesseri agitano le masse contro la classe politica a cui si vogliono togliere i privilegi, il che fa sì che avvenga l’ascesa di una classe politica di ricchi, spesso imprenditori, che rappresentano molto di più la matrice dei mali delle masse piuttosto che la loro salvezza, il paradosso dell’epoca contemporanea sta tutto qui. Gli Stati-Nazione nella loro concezione novecentesca sembrano dei nani mentre a turno sfilano davanti ad essi grandi compagnie che impersonano a turno Biancaneve.

Matteo Montagner

Una mattina a scuola…

Le cose che accadono sono molte. Quelle che possono accadere, ancora di più.

Tutto quello che riusciamo a immaginarci è ipoteticamente possibile, il modo in cui potrebbe manifestarsi è addirittura infinito.

Le cose, quando avvengono, si verificano sotto forma di eventi. Di essi ne abbiamo un vasto assortimento: dire «grazie» a qualcuno, regalare un mazzo di fiori, tirare un schiaffo, perdere un treno, rispondere al telefono, scrivere un libro, e così via.

Gli eventi, però, ci fanno pensare. A volte non sappiamo quali siano i loro confini temporali o spaziali, ma siamo certi che sono avvenuti, che stanno accadendo ora o che si svolgeranno nel futuro.

«Federico si è preso il raffreddore!». Sì, ma, quando? Dove?» 

«M’innamorerò!» D’accordo, ma esattamente quando avverrà? »

Un evento può essere semplice, complesso, universale, particolare, ma a fare la differenza è principalmente il modo con cui lo si guarda. È la prospettiva da cui lo spiamo che conta maggiormente.

Evento I, Scenario I, Visione I

Scuola primaria: l’insegnante entra in classe alle 08.25 e termina la lezione alle 12.30.

Ci troviamo di fronte a un unico grande evento, con un inizio e una fine? Davvero possiamo dire che l’insegnante ha fatto lezione in un preciso luogo e in un preciso momento? E quali sono le conseguenze se considero questo evento solo da un punto di vista generale? Di certo perderò una grande quantità di elementi che mi avrebbero aiutato a comprendere meglio ciò che nei fatti è davvero avvenuto nella classe.

Già, ma cosa?

Gli accadimenti, anche quelli più semplici, non sono così innocui se si ha la pazienza di starli a guardare. Se il nostro obiettivo consiste nell’analizzare alcune dinamiche che sappiamo essere comprese all’interno di un certo evento, dunque, dobbiamo guardarci dal semplificarlo. Dobbiamo sostare fra le spaccature delle cose, dei minuti, dei secondi, dei banchi e dei gessetti, per vedere cosa funziona e cosa invece occorre lasciar andare.

Tale atteggiamento ci porta a rivalutare la nostra opinione sull’ordinarietà di certi eventi. Lo scenario I, che credevamo povero di dettagli, è invece un universo d’informazioni fondamentali per chi sa guardare, ovvero per chi sa cosa cercare.

Evento I, Scenario I, Visione II

Scuola primaria: l’insegnante entra in classe alle 08.25 e termina la lezione alle 12.30.

Ma lì dentro vi è un continuo susseguirsi di eventi, di ogni tipo, tutt’altro che slegati tra loro.

A albero, B barca, C camion; la lavagna, prima vuota, ora è piena di regoline scritte.

C’è lo starnuto di Giovanna e c’è Sara che accartoccia un foglio per far canestro nel cestino.

E poi Veronica che presta un colore a Federico, ma ecco un evento diverso dal precedente: quello in cui Federico le  chiedeva in prestito il colore.

C’è Luca che parla ininterrottamente con Vittoria disturbando i compagni di banco, ma anche quello dove, penna in mano e occhi sul quaderno, troviamo tutti i bambini concentrati a svolgere le somme sui loro quaderni a quadretti.

Carolina che dà un pizzicotto a Marco e Marco che scoppia a piangere.

 Daniele che offende i compagni, e quest’ultimi che vogliono che lui la smetta.

 Margherita che chiede di andare in bagno e Lorenzo che si avvicina alla cattedra lamentandosi per il mal di testa…

Tutti questi piccoli eventi sono dei particolari ai nostri occhi. Particolari che in egual misura dovrebbero esser presi in considerazione da chi si appresti a lavorare in classe. L’apprendimento è una cosa seria. Il buon apprendimento lo è ancora di più.

Se è vero che è meno faticoso conservare una visione base di ciò che ci circonda, gustandosi la realtà per eventi generali e separati tra loro (Visione I), è pur vero che ogni maestro che si rispetti non ignora alcun accadimento e come dice (scherzando) ai bambini: ha gli occhi anche dietro la testa! (Visione II).

Giorgia Aldrighetti

[immagine di proprietà di FCB]

L’ambiente ‘Classe’ (E quello che vi sta dentro)

«Ognuno sempre e dappertutto, più o meno coscientemente, impersona una parte… È in questi ruoli che ci conosciamo gli uni gli altri; è in questi ruoli che conosciamo noi stessi»

R. E. Park, Race and Culture

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«Che cosa ci fai qua?»

Chiedono incuriosite le maestre a G.

Sono intente a terminare la loro riunione di classe, tutte accerchiate intorno alla cattedra.

G. è appena entrata nella sua II^ B.

Si è scordata sotto il banco il quaderno per svolgere i compiti dell’indomani e la mamma l’ha accompagnata a scuola per recuperarlo.

Sono le 17.00 del pomeriggio e G. non dovrebbe essere lì. La mattina si, ma il tardo pomeriggio no. Effettivamente in quella seconda elementare manca qualcosa di essenziale; le sedie sono vuote e i pavimenti perfettamente puliti. I banchi, allineati e in ordine, non sono ricoperti d’astucci, colori o trucioli di matite e per la stanza c’è un silenzio inusuale.

C’è qualcosa di strano. La classe continua a presentare un tono magico, nonostante la sua funzione mattutina d’apprendimento sia entrata in pausa.

L’aula scolastica, a quell’ora di tardo pomeriggio, senza i bambini, senza la campanella, senza l’ora di matematica e la ricreazione perde la sua normale rappresentazione e G., senza la cartella sulle spalle, mette da parte il suo ruolo d’alunna.

CORNICE2-02

L’idea dell’ambiente “classe” ruota attorno a una serie di simboli che si ripetono ovunque, in qualsiasi scuola, in qualunque città. Riconoscerli aiuta a capire come funzionano le dinamiche scolastiche, le identità che si creano e le rappresentazioni che si inscenano.

La classe non è un “contenitore” assoluto o vuoto, ma presenta precisi confini spaziali. La porta che separa la classe dalle altre, così come il sipario in un teatro, è il simbolo dell’entrata e dell’uscita, del dentro e del fuori, del palcoscenico e del dietro le quinte. Ogni singola componente all’interno di un’aula rappresenta un elemento di un copione; ha la sua storia, la sua funzione, il suo fine.  I muri abbelliti di cartelloni delle tabelline e di lettere, le finestre, la cattedra, i banchi con le sedie: tutto ciò è indispensabile a creare l’ambientazione opportuna.

La campanella suona.

I bambini corrono dentro la porta della propria classe. C’è chi entra per primo, in silenzio, sistemando con ordine le cose sul proprio banco, c’è chi arriva rincorrendosi con qualcun altro e c’è chi viene già svogliato lanciando per terra lo zaino. C’è sempre il ritardatario, l’ultimo ad arrivare, ed ecco che infine il richiamo all’ordine della maestra dà il via allo spettacolo dell’educazione.

Si vengono a creare fin da subito una serie di interazioni che danno libera espressione al Sé di ogni bambino, composto da risa, offese, battute e spirito di narrazione:

«Sai, alla festa di compleanno di mamma…»;

«Guarda, il dente che ho perso ieri…»;

«Maestra, lui mi ha nascosto il colore arancione…».

Molto spesso si celano anche ghigni, sguardi silenziosi, gesti e posizioni del corpo che sanno dire molto di più delle parole. Tutti questi ingredienti mescolati e combinati fra di loro creano dinamiche di classe particolarmente complesse.

Ognuno di noi, inserito in un particolare contesto, personifica un ruolo e anche i bambini, in classe, finiscono per avene uno. Il ruolo, se voluto e sentito limpidamente, può divenire pretesto per esprimere la propria identità al fine di un diretto contatto con le proprie emozioni. Se imposto da qualcun altro si trasformerà però in un fardello da trascinarsi dietro, un compito, un lavoro da portare a termine. Il bambino più introverso, etichettato dagli altri come “il timido”, deve far sì che tutto quello che farà combacerà con l’immagine attribuitogli. Lo stesso vale per “Il maleducato”, “il rompiscatole” “il piagnone”, etc.

Ma la fissazione di ruolo è sbagliata.

I bambini, specialmente, sono in fase di cambiamento continuo e devono sperimentare diversi modi d’essere prima di arrivare a capire chi siano davvero, con l’obiettivo di crearsi una sana e solida identità personale.

Quand’è che a parlare è Lorenzo o il personaggio di Lorenzo? Quand’è che i bambini dicono davvero quello che pensano senza limiti all’immaginazione? Quando, invece, ripetono solo quello che maestri, compagni e l’istituzione “scuola” vogliono sentirsi dire?

Bambini totalmente assorbiti dal ruolo che gli è stato attribuito finiscono per diventare quella cosa, convincendosi di essere davvero così.  Tenderanno a soffocare il proprio vero io, compiacendo l’idea che gli altri hanno.

E in tutto ciò l’insegnante? Quest’ultimo ha un compito molto importante. Deve far sì che i bambini giochino con i vari ruoli senza saturarsi con uno in particolare. L’occhio dell’insegnante è vigile e attento. Lo sguardo, come la luce di un faro, si sofferma continuamente e ripetutamente da un bambino all’altro, senza mai dimenticarsi di tutto ciò che vi sta attorno.

Il bambino deve sentirsi libero di saggiare i propri limiti affinché a emergere e vincere sia l’originalità, non la convenzionalità.

Giorgia Aldrighetti

[Filosofiacoibambini]

I primi giorni di scuola (Part. I)

Per un bambino, i primi giorni di scuola sono fondamentali. A sei anni, infatti, non possiede ancora un’identità matura e questo lo espone a dei rischi. È importante aver cura del bambino, senza esagerare nelle preoccupazioni, ma senza neppure commettere troppe leggerezze. Anzitutto, occorre aver ben presente che il bambino passerà a scuola una quantità di tempo più che considerevole, (parliamo di circa 200 giorni l’anno per cinque anni) in uno dei momenti fondamentali del suo sviluppo e della sua vita. Farsi prendere dal panico non serve. Tuttavia, conoscere bene la scuola, la classe e l’insegnante che passerà tutto quel tempo col bambino è necessario. Il rischio di dare importanza a cose che non ne hanno, sottovalutandone altre è sempre dietro l’angolo. Consapevoli di non padroneggiare appieno lo sviluppo e di non poter avere controllo su tutto possiamo, però, allenare il nostro sguardo alle profondità di cui l’ambiente scolastico è costellato.

Cominciamo ad analizzare un antro ancora poco esplorato prendendo avvio dalle parole del grande sociologo Erving Goffman che nel suo testo fondamentale del 1959, La vita quotidiana come rappresentazione (Il Mulino, 1969), introduce e definisce il termine “équipe di rappresentazione” e chiediamoci poi come questo concetto possa aiutarci a comprendere meglio ciò che accade nella classe di nostro figlio o figlia. Anzitutto, Goffman ci dice che col termine équipe intende «un qualsiasi complesso di individui che collaborano nell’inscenare una singola routine» (ed. it., p. 97) e a noi viene subito in mente la classe: un complesso di individui che collaborano nell’inscenare una routine educativa, la routine dell’apprendimento, estremamente precisa e complessa. Una consuetudine fatta di banchi, seggiole, compagni di banco, matite da temperare, grembiuli, verifiche, maestre, ricreazioni, prese in giro, campanelle, quaderni e così via, talmente stereotipata da essere pressoché diffusa ovunque, da Nord a Sud, da Est a Ovest, nell’immaginario artistico e perfino nel sogno. Pensare alla classe, insomma, significa pensare a quello e non a qualcos’altro. Rispetto alla classe la nostra immaginazione risulta a dir poco bloccata, come se non potessimo pensarla altrimenti. In parte perché non l’abbiamo guardata a sufficienza, in parte perché forse non abbiamo mai veramente provato a cambiarla. Fatto sta che la routine è lì davanti ai nostri occhi, giorno dopo giorno, in attesa che ce ne preoccupiamo.

Basta poco per accorgersi che la classe è un’équipe estremamente sofisticata. Un’équipe che contempla la sua stessa distruzione, nonché i meccanismi di sopravvivenza che la possano contrastare, in una sorta di meta-rappresentazione o di finzione nella finzione. Se è vero, come ci ricorda Goffman, che «durante lo svolgimento di una rappresentazione di équipe, ogni membro ha la possibilità di far fallire lo spettacolo o di disturbarlo con un comportamento inappropriato» (ed. it., p. 100), ebbene, ciò non sembra valere per la classe, la quale riesce persino nell’intento di regimentare quest’eventualità. Il bambino che disturba, il monello, fa parte dello spettacolo. La routine contempla e addirittura richiede la presenza dell’elemento che la disturbi, che cerchi di opporvisi con tutte le sue forze. La maestra, i bambini, i genitori dei bambini, tutti si aspettano che la rappresentazione inciampi o venga ostacolata da qualcuno: come ho già detto, fa parte dello spettacolo dell’educazione! Nessuno ne rimane veramente colpito e la rappresentazione in questo modo si tutela da ogni reale fallimento assumendo le componenti negative che le garantiscono la necessaria protezione e il suo sereno perpetrarsi.

Ecco allora che i ruoli, all’interno di una classe, andranno distribuiti con accortezza, senza lasciare nulla al caso. Scrive Goffman a questo proposito che «il compagno d’equipe è una persona sulla quale si conta per una collaborazione sul piano drammaturgico». È certo allora che i ruoli più difficili, quello del monello da una parte e quello del primo della classe, non potranno mancare e dovranno essere obbligatoriamente ricoperti da qualcuno. Già, ma da chi? Beh, i primi giorni di scuola, importanti per tante ragioni, hanno in scaletta proprio la tacita assegnazione dei ruoli.

Per il momento basti sapere che se, da un lato, appare difficile sfuggire del tutto alla rappresentazione e a ciò che le garantisce la sopravvivenza, ovvero i caratteri principali dell’azione, dall’altro è possibile tenerla sotto controllo, a patto di vedere attraverso i personaggi, attraverso la routine. Come? Mantenendola in movimento, parlandone e facendola parlare, offrendole nuove soluzioni e portandola su terreni di cui anche lei ignora la geografia (come quello filosofico).

Continua…

Carlo Maria Cirino

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