Il declino del cinepanettone: un genere al capolinea(?)

Agli italiani piacciono ancora i cinepanettoni? Guardando i titoli presenti nei cinema di tutto il Paese in questi giorni si direbbe proprio di sì ma, a un’analisi più attenta, la risposta non è proprio così semplice e immediata.

A una settimana esatta dai festeggiamenti del 25 dicembre, sono addirittura cinque i film italiani girati e prodotti appositamente per essere distribuiti durante il periodo natalizio. Qualche anno fa si sarebbero chiamati “cinepanettoni”, un genere inaugurato nel 1983 dallo storico Vacanze di Natale di Carlo Vanzina. Una lunga serie di film divenuti in pochi anni un vero e proprio fenomeno di costume nazionalpopolare. Sale piene, spettatori divertiti e produttori arricchiti all’inverosimile. Con lo scioglimento della coppia Boldi-De Sica però le cose hanno iniziato lentamente a cambiare e l’interesse e l’affetto del pubblico italiano sono scemati sempre più. Il problema è che le grandi case di produzione italiane continuano ancora oggi a pensare che il cinepanettone sia sinonimo di incasso sicuro e garantito e ogni Natale quindi, lo ripropongono in sala con trame sempre più inconsistenti e siparietti a dir poco imbarazzanti. Negli ultimi anni i soldi sono arrivati, ma sono bastati a malapena per coprire i costi di produzione dei film, a fronte dei quasi 30 milioni di euro incassati da Natale sul Nilo nel 2002. Il fatto che l’età aurea di questo genere sia ormai solo un ricordo lontano è un pensiero comune a molti. La vera novità è che il 2016 potrebbe essere ricordato come l’anno che ha sancito il capolinea definitivo dei cinepanettoni. Nel primo weekend d’uscita (fondamentale per capire come saranno gli incassi futuri e complessivi di una pellicola) i cinque film italiani di Natale hanno incassato cifre che non hanno nemmeno sfiorato i risultati degli anni scorsi. Al suo debutto, il nuovo film con Christian De Sica Poveri, ma ricchi ha incassato appena 74 mila euro in tutta Italia. La stessa sera, Un Natale al Sud e Natale a Londra hanno incassato rispettivamente 13,857 euro e 48,737 euro (secondo i dati forniti dal Cinetel, n.d.r), posizionandosi all’ottavo e al sesto posto della classifica italiana. Per carità, le cifre aumenteranno tra Natale e Santo Stefano quando la gente sarà in vacanza e avrà più tempo per andare al cinema, ma le stime finali fanno presagire, già da ora, un fiasco pesantissimo per l’intera industria cinematografica italiana.

L’unico in grado di portare il Paese al cinema sembra essere rimasto Checco Zalone, visto che anche il nuovo film di Aldo, Giovanni e Giacomo, Fuga da Reuma Park, si è rivelato un esperimento fallito sotto ogni punto di vista. Le ragioni del crollo del cinepanettone sono molteplici: il genere è ormai logoro e non ha più nulla da offrire a livello di contenuti e battute, gli spettatori hanno iniziato a scoprire e a utilizzare sempre di più le piattaforme on demand, scegliendo i titoli che amano direttamente dal divano di casa. Se proprio devono andare al cinema preferiscono i grandi blockbuster americani o il cinema d’autore conosciuto e affidabile come Sully di Clint Eastwood. La domanda da porsi allora è: può un fenomeno sociale e di costume arrivare a un epilogo definitivo? Per quanto in crisi, l’industria del cinepanettone potrebbe non morire mai del tutto. Da semplice genere cinematografico ha saputo trasformarsi in una vera tradizione popolare, proprio come il dolce da cui prende il nome. Liberarsene potrebbe essere davvero molto difficile perché, anche se non lo vogliamo ammettere, il cinepanettone è riuscito a diventare, anno dopo anno, una piccola parte di noi.

Alvise Wollner

Sogni e motori – Intervista a Matilda De Angelis

Ha solo 21 anni, ma il suo curriculum vanta già un Nastro d’argento e un Premio Flaiano come miglior attrice esordiente. Due premi conquistati dopo essere apparsa una sola volta sul grande schermo. Niente male per una ragazza che fino a due anni fa non aveva nemmeno preso in considerazione l’idea di poter diventare un’attrice. Matilda De Angelis però è fatta così: è una ragazza con una personalità debordante, che va ben oltre i minuti confini del suo corpo. Pratica e determinata ha iniziato la sua carriera come cantante dei Rumba De Bodas, ma la folgorazione sulla via della recitazione ha cambiato per sempre la sua vita. Oggi Matilda è una delle attrici più promettenti d’Italia, ha da poco terminato le riprese della seconda stagione della serie di Rai 1 Tutto può succedere e del film Youtopia, il nuovo lavoro del regista Berardo Carboni. Per cercare di comprendere più a fondo il suo pensiero e i segreti di Veloce come il vento, il film che le ha regalato fama e successi, abbiamo deciso di intervistare Matilda chiedendole di raccontarci la sua personalissima filosofia di vita:

-Non è un segreto il fatto che il ruolo di Giulia De Martino ti sia stato assegnato dal regista Matteo Rovere in maniera tanto improvvisa quanto inaspettata (Matilda era stata contattata mentre stava finendo di prendere la patente, n.d.r.). Ami affidarti alla casualità anche nella vita di tutti i giorni o sei una ragazza che preferisce avere sempre tutto sotto controllo?
Tendenzialmente amo avere tutto sotto controllo. Sono un’amante dell’ordine e della precisione. Molte volte penso che questo mio bisogno di controllare ogni cosa derivi dalla paura di non essere all’altezza di qualcosa di inaspettato, che potrebbe cogliermi impreparata in ogni situazione. Prima dell’inizio delle riprese di Veloce come il vento ero terrorizzata all’idea di intraprendere un percorso cinematografico senza mai essermi preparata a farlo. L’ossessione per il controllo mi ha quasi costretta a rinunciare al film. Fortunatamente sono anche una persona molto determinata e superare i miei limiti è una sfida che pongo a me stessa tutti i giorni, perciò alla fine mi sono convinta. Devo ammettere comunque che le più grandi soddisfazioni della mia vita sono arrivate sempre da grandi sorprese, incontri fortuiti e chiamate inaspettate, arrivate al momento giusto.

Veloce come il vento è un film che tocca temi profondi e per nulla scontati, dall’importanza di saper diventare adulti, alla capacità di prendersi dei rischi per proteggere le persone a noi più care. Quali sono gli aspetti del copione che ti hanno conquistata sin dall’inizio?
Il copione era scritto davvero bene. Col senno di poi non ne ho visti così tanti, a una fase preliminare di scrittura, scritti con tale precisione e cura. Sono rimasta colpita dal racconto romantico di una famiglia disfunzionale, che si ricongiunge solo grazie alla forza dell’amore e della fratellanza. Mi sono appassionata subito al rapporto tra Loris e Giulia, così distanti tra loro, opposti ma complementari, complici nella disgrazia ma destinati a scoprire il vero valore della fratellanza. Ho trovato bellissima l’idea di raccontare le vicissitudini di una ragazza di diciassette anni che, nonostante tutto, ha la forza di caricarsi sulle spalle tutte le responsabilità che la vita le ha imposto. Penso sia una bella rivincita per noi donne il fatto di non dover aspettare sempre il principe azzurro, riuscendo a diventare eroine e padrone di noi stesse.

Veloce come il vento potrebbe essere definito un “film in lingua”, nel senso che i protagonisti mettono spesso in risalto le loro origini, fortemente legate al territorio della provincia emiliana. Quanto ha significato per te il fatto di essere nata in quelle terre e che rapporto hai con Bologna, la città in cui vivi e sei cresciuta?
Effettivamente Veloce come il vento è un film in lingua nel senso che in molti tratti, i personaggi di Loris (Stefano Accorsi) e Tonino (Paolo Graziosi) parlano proprio in dialetto romagnolo, una lingua che nella mia città si sente sempre meno. Sono stata molto contenta di aver contribuito, attraverso questo film, a raccontare qualcosa della mia terra. I motori fanno davvero parte della nostra cultura, è qualcosa che si respira nell’aria sin da piccoli, qualcosa di tipico quanto i tortellini e la piadina. Bologna invece è una città a parte, molto simile a un grande porto. Una città universitaria attraversata in continuazione da tantissimi ragazzi provenienti da ogni parte d’Italia. E’ un luogo che offre tanto ai giovani e nel quale è facile sentirsi a casa dopo poco tempo. Una città che io amo definire “un laboratorio”, nel senso che non ha la grande vita mondana di Milano o di Roma, non è una città “palcoscenico” ma è comunque un luogo pieno di vita in cui ci sono innumerevoli opportunità per coltivare l’arte in tutte le sue forme.

-Cosa ti piacerebbe che gli spettatori ricordassero di Giulia De Martino dopo aver visto il film?
Mi piacerebbe che di Giulia gli spettatori ricordassero la sua infinita forza e determinazione, ma anche quella purezza e quell’ingenuità strappatele troppo presto dalla vita. E’ incredibile osservare come questo personaggio riesca a nascondere le fragilità tipiche della sua età sotto un’armatura di cinismo e durezza. E’ una ragazza che combatte, che si attacca alla vita con le unghie e con i denti per salvare tutto quello che le rimane di una famiglia allo sfascio. E’ una coraggiosa e mi piacerebbe che questo coraggio venisse ricordato da tutti perché è proprio il motivo per cui io mi sono innamorata subito di lei.

-Un’altra tua grande passione è la filosofia. Secondo la tua giovane esperienza, dove si possono trovare gli insegnamenti di questa materia in due arti come il cinema e la musica?
Mi ricordo che mi colpì molto quando, alle superiori, la mia professoressa di filosofia mi parlò di Schopenhauer. Il suo pensiero diceva che l’arte era l’unico strumento che l’uomo (inteso sia come artista che come osservatore) possedeva per astrarsi momentaneamente dalla propria condizione materiale e innalzarsi a una dimensione quasi spirituale, al di fuori dello spazio, del tempo e della corporalità. Partendo da questo concetto mi sono convinta del fatto che la filosofia che risiede all’interno della musica, della scrittura, del teatro e dell’arte in generale sia proprio questa: la possibilità di andare al di là del qui e ora, viaggiando attraverso altri piani e altri spazi. Anche a livello culturale, in un momento come quello che stiamo attraversando adesso, di paura nei confronti di ciò che è altro da noi, di diverso, di non conosciuto, in un momento in cui spesso non è facile immaginare un futuro pieno di speranza, l’arte ha il compito di aiutare le persone, di farle vivere momentaneamente al di là dei propri problemi. L’arte ha il dono di elevare il nostro spirito oltre la normalità del quotidiano e il fatto che l’attore faccia parte di questo meraviglioso meccanismo, mi rende davvero orgogliosa di aver scelto questa professione.

A questo link potete trovare il trailer ufficiale di Veloce come il vento

 Alvise Wollner

[Immagine di Matilda De Angelis]

Inno alla (pazza) gioia

C’è un filo sottile e inaspettato che unisce il regista Paolo Virzì a Victor Hugo, uno dei più grandi autori della letteratura francese. Quel collegamento è composto da una serie di parole che, rilette oggi, sembrano essere state scritte per descrivere alla perfezione La pazza gioia, uno dei film più riusciti degli ultimi mesi. Parole che compongono una frase, divenuta aforisma, e che suonano esattamente in questo modo:  “La più grande gioia della vita è la convinzione d’essere amati.”

Beatrice Morandini,  mitomane logorroica, e Donatella Morelli, madre abbandonata, fragile e introversa, sono due donne disperatamente bisognose d’affetto e attenzioni. Entrambe pazienti dell’istituto terapeutico Villa Biondi, sui colli toscani, si ritrovano a unire i loro tragici vissuti in una rocambolesca fuga on the road, destinata a stravolgere per sempre le loro esistenze. Non capita spesso, al cinema, di trovare un uomo che sappia raccontare con delicatezza e intelligenza l’universo femminile. Paolo Virzì ci riesce grazie al contributo fondamentale di Francesca Archibugi (sceneggiatrice del film) e della compagna di vita Micaela Ramazzotti, qui alla sua miglior interpretazione in carriera. Il film è stato lodato da pubblico e critica, ma c’è da dire che per gran parte della sua durata, La pazza gioia dà l’impressione d’essere un film fastidiosamente mediocre. Molti elementi della messa in scena (dall’interpretazione di un’eccessiva Valeria Bruni Tedeschi, alla scelta di un tema ad alto tasso di banalizzazione) rischiano più volte di rovinare il film di Virzì. Grazie a un finale indimenticabile però, il regista toscano riscatta la sua storia e la trasforma in uno dei lavori più meritevoli di quest’annata.

locandinaNella scena chiave in cui Donatella confessa il proprio terribile passato a Beatrice, il film inizia a sprigionare tutta la sua potenza e ci trascina in un coinvolgimento emotivo che va ben oltre la comune catarsi spettatoriale. Ognuno di noi ne La pazza gioia arriva a immedesimarsi in maniera estrema nel disperato bisogno d’amore e libertà provato dalle due protagoniste. La sofferenza che le attanaglia è tale da farci sperare, fino all’ultimo fotogramma, in una loro possibile “salvezza”. Nonostante la vita abbia fatto di tutto per privarle della felicità, Beatrice e Donatella sono due donne che non vogliono rinunciare al loro diritto alla gioia. Ed è in questo che risiede la loro pazzia: nel saper sperare e gioire laddove tutti noi “normali” ci saremmo arresi. La pazza gioia è una riflessione sulla perdita della ragione, ma al tempo stesso è anche un’opera che ci porta a ragionare su quanto importante sia il nostro diritto alla felicità.  Non è un film perfetto, ma è di sicuro un film necessario per la sua spiazzante capacità di farci vivere attraverso le emozioni. Da un distaccato divertimento iniziale, fino a un’amara riflessione sui concetti di normalità e diversità, in un finale che ci lascia con il volto rigato di lacrime e ci fa sentire finalmente tutti uguali, nel buio magico di una sala cinematografica.

Alvise Wollner

 

8½ di F. Fellini: il significato dell’esistenza tra reale e onirico

Scritto e diretto da Federico Fellini nel 1963, 8½ è considerato da molti uno dei suoi capolavori e una delle pellicole cinematografiche migliori di sempre.
È un ritratto onirico e malinconico, per molti versi autobiografico in cui il regista italiano riversa le sue sensazioni e le sue inquietudini, in una giostra emozionale dai toni fantastici e grotteschi ma profondi.

Il protagonista della storia è Guido Anselmi (interpretato da Marcello Mastroianni), un affermato regista di mezza età che sta elaborando il suo prossimo film. Sta
trascorrendo un periodo di riposo presso un centro di cure termali nel tentativo di dare nuova vita al suo spirito creativo, ormai bloccato e inaridito e cercando di dare un chiaro percorso al suo progetto cinematografico. Costantemente assediato dal produttore, dai suoi assistenti e dagli attori, che vogliono capire quale storia si accingeranno a raccontare, Guido vive le sue inquietudini e la sua insoddisfazione, cercando di fare un bilancio della sua vita, fatto di rapporti con persone reali, di fantasticherie e di sogni che si mescoleranno sempre più con la realtà. Trascorrono così giorni in cui Guido sarà sempre più turbato cercando in tutti i modi di dare un senso alla sua esistenza, come regista e come uomo.

In questo film c’è tutta l’inquietudine artistica e la crisi creativa di Fellini; il titolo stesso, 8½, altro non era che una soluzione provvisoria, poiché questa pellicola veniva dopo sei film girati interamente dal regista e altri tre “mezzi film” codiretti insieme ad altri. È forte e ben presente l’elemento autobiografico; Fellini, come Guido, ha in mente una storia ,una sceneggiatura, ma questa fa fatica ad emergere, è fatta di sogni, di pensieri e immaginazioni che difficilmente possono essere
rappresentate. Il progetto fu in balìa di una caduta, Fellini si accorse che l’idea che aveva in mente svanì com’era arrivata; fu invece grazie ad un evento esterno e quasi casuale che il regista capì di cosa voleva parlare: una storia che narrasse di un regista come lui che voleva raccontare una storia, senza ricordarsi però quale.
Ed è qui che le figure di Fellini e Guido si mescolano, diventando l’uno l’alter ego dell’altro, mescolando realtà e finzione fino a sovrapporle, a farle diventare un’unica grande storia.

La crisi del Guido regista è anche la crisi del Guido come uomo, viene raccontata a tutto tondo, cogliendo ogni attimo della sua vita, rompendo le barriere dello spazio e del tempo. Riaffiorano i ricordi dell’infanzia, il tenero incontro fantasioso con i genitori ormai morti, l’onirica e irreale scena dell’harem, in cui Guido fantastica di passare il tempo con le donne che hanno segnato la sua vita.
Il film proietta lo spettatore nella coscienza del protagonista e nel suo inconscio, dove realtà e sogno non smettono di toccarsi e di giocare tra loro, cercando di fondersi e di dare un significato dell’esistenza che Guido non smetterà mai di inseguire.

In questo girotondo di emozioni mette a nudo la sua anima, fa scorrere le sue paure e le sue bugie, che per tanto tempo l’hanno tenuto prigioniero, stanco e disilluso; il rapporto strano e ormai quasi fraterno con la moglie Luisa, la noia della sua amante e il vortice di persone che ruotano attorno a lui chiedendogli di reagire, di sapere nuovamente cosa fare, come vivere.

Investito e appesantito da un tale peso, ormai rassegnato a scappare da sé stesso e a lasciare tutto alle spalle, Guido capisce, in un “lampo di felicità”, che tutto ciò che ha passato e tutte le persone che ha incontrato, amato o deluso, l’hanno reso l’uomo che è; può finalmente chiedere perdono a chi gli ha voluto bene e tornare a vivere da uomo consapevole, dirigendo un grande girotondo festoso, con le anime della sua vita.

Una delle grandezze di questo film di Fellini sta nella sua capacità di aver messo a nudo sé stesso, in un momento di fragilità e di difficoltà ha saputo ritrovarsi come artista, come grande regista qual era ed è tuttora. Da un’idea offuscata e contorta è nato forse il suo più grande capolavoro, messo in scena come un flusso di coscienza, non sempre facile da seguire, ma potente e davvero significativo.
Con coraggio e umiltà Fellini ha deciso di alzare il sipario e mostrarsi, di rappresentare la crisi nel suo vero significato etimologico, intendendola come riflessione, valutazione, discernimento, trasformandola così in un presupposto necessario per un miglioramento, una rinascita che è tanto artistica quanto umana.

Lorenzo Gardellin