Dalle spezie al sushi, dalla porcellana agli anime: il fascino dell’Oriente ieri e oggi

Non è una semplice moda passeggera, destinata a svanire in poco tempo, e nemmeno una passione di nicchia alimentata da un piccolo gruppo di fanatici dell’esotico; il fascino che le culture orientali esercitano su moltissimi europei è qualcosa di molto più profondo e duraturo di quanto si possa immaginare, e non è certo riassumibile in termini di fenomeno di breve durata temporale o di mero effetto della globalizzazione.

Negli anni più recenti la cultura orientale, in particolar modo quella giapponese, è entrata a pieno titolo nei gusti e nelle abitudini della società europea, specialmente in alcuni specifici ambiti, quali quello culinario e quello dell’intrattenimento. Manga e anime, per esempio, sono ormai da alcuni decenni diventati parte integrante e solida della cultura occidentale, non solo tra i giovanissimi ma molto spesso anche nel mondo adulto. Allo stesso modo, il sushi rappresenta in modo sempre più marcato e radicato un pezzo di cultura giapponese trapiantato in Europa, talmente ben inserito da essere diventato parte ormai irrinunciabile dello stile di vita di moltissimi. 

Ma come si può giungere alla conclusione che questo grande successo delle culture cinese e giapponese nel nostro continente non sia una semplice moda? Per rispondere adeguatamente, a mio parere, sarà sufficiente guardare con attenzione al passato e ai cambiamenti avvenuti nello stile di vita dell’uomo europeo in seguito all’importazione di prodotti “esotici” e all’ibridazione di questi ultimi con quelli già esistenti (“tradizionali”). 

Non vi sono dubbi che mescolanze e appropriazioni di culture diverse nascano non soltanto da una necessità, ma molto più frequentemente dalla curiosità e dalla volontà quasi morbosa di conoscere le “stranezze” di popoli dalle tradizioni differenti, stranezze che permettono di estraniarsi momentaneamente dalla routine quotidiana e viaggiare idealmente in un altro mondo, simile al proprio ma pieno di meraviglie da scoprire, da assaporare, da vedere e collezionare. Ecco che proprio in questo modo, a partire dal Cinquecento, molti esponenti delle casate reali e granducali hanno iniziato a raccogliere oggetti esotici di ogni tipo, provenienti per la maggior parte dall’Asia Orientale e dall’America Meridionale. A questa passione per gli oggetti esotici si affiancò sin da subito l’apprezzamento per pietanze dal gusto nuovo e intrigante, che nel corso del Settecento conobbero un successo vastissimo anche presso le classi borghesi: il caffè, la cioccolata e il tè non facevano parte della tradizione culinaria europea ed erano inizialmente bevande di lusso importate da paesi lontanissimi, ma ben presto divennero un piacere di molti, al punto che oggigiorno vengono considerati parte fondamentale della nostra cucina. 

Anche per quel che riguarda l’arte, in passato molto è stato acquisito dalle culture dell’estremo Oriente. Basti pensare alla produzione della porcellana e delle lacche per comprendere come in Europa siano stati rielaborati modelli cinesi per creare una propria corrente artistica di grande successo, quella delle cosiddette chinoiserie, oggetti, arredi e dipinti di soggetto o gusto orientale rivisto in chiave europea. Se è anche vero che durante l’Ottocento la passione per le cineserie è andata ad affievolirsi, non si è tuttavia spento il fenomeno che ne sta alla base, ovvero l’attrazione per l’esotico, che nel XIX secolo ha prediletto il mondo arabo, in particolare Egitto, Palestina e Persia, a quello del sol levante. Spedizioni archeologiche e geografiche si sono spinte in queste regioni durante l’intero corso del secolo, molto spesso con pittori e fotografi al seguito che hanno poi trasmesso in occidente immagini inedite di affollatissimi mercati, minareti e lussureggianti giardini. 

Cosa è rimasto oggi di questa forte tendenza orientalista dei secoli scorsi? Non ce ne accorgiamo nemmeno, ma quelle che sembravano meraviglie bizzarre e pratiche inusuali sono entrate ormai nelle nostre abitudini in modo talmente profondo da fare fatica a isolarle e distinguerle. Banalmente, servizi in porcellana e molti altri oggetti ispirati all’Oriente o provenienti direttamente dalle sue culture sono diventati parte del nostro arredo, così come cibi, spezie e bevande di origine esotica sono parte fondamentale della nostra dieta. Anche il nostro gusto estetico risente oggi di queste tendenze orientaliste: l’enorme apprezzamento per l’archeologia egizia o mesopotamica, per esempio, derivano da quel fascino per l’esotico sviluppatosi soprattutto nell’Ottocento, e non concepito ai tempi di Michelangelo, per il quale, probabilmente, le statue di Ramesse II sarebbero apparse come opere primitive senza alcun valore. 

Alla luce di queste pur brevissime riflessioni, credo sia possibile delineare un po’ meglio ciò che sta accadendo nel presente, con l’invasione di oggetti e pratiche tipici della Cina e del Giappone nel vecchio continente. Non si tratta certo di una moda temporanea, ma di una penetrazione incisiva e duratura di abitudini estranee nel nostro stile di vita, esattamente come è successo per la cioccolata o la porcellana. Sono pienamente convinto che tra 100 o 150 anni il sushi sarà ben radicato nella cultura europea al punto da farne parte a tutti gli effetti, così come lo yoga sarà ancora ampiamente praticato e gli anime costantemente presenti in televisione. Questo perché mescolanze così massicce di culture e tradizioni, peraltro del tutto intenzionali, non sono e non possono essere soltanto meri momenti di passaggio, ma fanno parte della naturale evoluzione dell’uomo, che tende sempre al prestito, all’appropriazione e allo scambio di conoscenze e abitudini per progredire costantemente verso il benessere e la felicità. 

 

Luca Sperandio

 

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L’arte cinese della sepoltura

Siedo placidamente su una roccia nel punto più alto del Tianhe Huangcun Gongmu, il cimitero di Huangcun, periferia nord di Guangzhou, nella Cina meridionale. Un boschetto di bambù mi getta addosso una piacevole ombra, mentre poco più in là luccicano le tegole arancioni di un Ting Zi, l’edificio architettonico tipico delle località d’altura cinesi. Ci arrivo dopo un’ora e mezza di autobus e scalata a piedi. Prima di partire, poche indicazioni dettatemi con vistosi scongiuri da un amico cinese.

A dividermi dal mondo dei morti sottostante c’è ora uno strato sottilissimo di soffice terriccio. Da qui si riesce a cogliere la conformazione e la vastità della radura su cui riposa grigio e ordinato il cimitero, come un involucro di cemento a sigillare una collina radioattiva. Le lapidi si susseguono tutte uguali lungo i terrazzamenti scavati sul dorso della montagna. Di là della strada una stazione di servizio, uomini a lavoro in un cantiere, sconosciuti. Ogni tanto lo scoppio di un petardo e il fumo che si alza bianco sopra una lapide lontana. In un posto come questo si liberano le energie mentali e si potrebbero scrivere infinite poesie d’amore.

Pochi sanno che nell’impero di mezzo muoiono in media più di 10.000 persone al giorno. Un’enormità, con conseguenze organizzative che rischiano di mettere sotto pressione il modello cinese dei piccoli cimiteri di periferia, come quello di Huangcun, appunto. La progettazione cimiteriale cinese si basa da sempre sui principi ancestrali del feng shui – letteralmente “vento” e “acqua” – l’antica arte della geomanzia che stabilisce la direzione e la dislocazione degli elementi nello spazio in modo tale da produrre il miglior risultato in termini di armonia e buona sorte. Di fondo c’è l’idea che ogni ambiente sia solcato da più o meno profonde venature di qi, l’energia sottile e vitale che la geomanzia permette di captare e sfruttare. Il contrario della morte – insegna il feng shui – non è la vita, ma la vitalità.

Il legame tra feng shui e cultura della morte ha in Cina origini adamitiche, e non è certo un caso che il primo testo scritto in cui si discutono e si formalizzino i principi della geomanzia sia lo Zhang Shu, il Libro delle sepolture, di Guo Pu (276-324 d.C.). La prima traduzione in italiano dal cinese antico è merito di Maurizio Paolillo, professore di Lingua e Cultura Cinese all’Università del Salento, che nel 2013 ha pubblicato l’opera di Guo Pu con il titolo di La lingua delle montagne e delle acque.

In introduzione al testo, Paolillo racconta come la cultura del feng shui si sia inizialmente diffusa in Europa grazie all’opera di gesuiti quali l’italiano Matteo Ricci e il tedesco Athanasius Kircher, che nel suo China Illustrata del 1667 definirà il feng shui “oreomanzia”, a sottolineare l’interesse per la configurazione orografica dei siti abitativi nel contesto di un paesaggio naturale o antropizzato. Solo nel corso dell’800, spiega Paolillo, prese avvio un lento ma inesorabile processo di storpiatura dei principi del feng shui, che venne assimilato a pura e semplice arte divinatoria se non, addirittura, a pseudoscienza. Accecati dalle folgori dell’Illuminismo, i commentatori ottocenteschi non s’erano accorti di come il feng shui non fosse altro che teoria del paesaggio e dell’uomo che lo abita, principio di convergenza fra l’utile e il bello. Una sorta di fenomenologia dell’ambiente ante litteram: i filosofi cinesi prima di Husserl, dunque, anche se nello stile arcano e divinatorio che li caratterizza.

In anni recenti la filosofia del vento e dell’acqua è stata oggetto di una vera e propria febbre culturale in Occidente, non senza la perdita di alcuni tratti originari che poco si adattavano ai canoni dominanti del villaggio globale. In Cina il feng shui rimane ben radicato nelle scelte popolari, nonostante il vento di riforme introdotte nella stagione comunista, con il politburo cinese che ha sempre visto nel modello tradizionale dell’inumazione e del cimitero diffuso in contesti naturali un inutile consumo di suolo e risorse. Tra le tecniche di disposizione dei defunti molto meglio la cremazione, più efficiente e più adatta allo spirito della nuova società comunista, che ambiva a scacciare come polvere ogni superstizione del passato.

La prima svolta in questo senso avvenne nel 1949, con un decreto governativo di Mao Zedong che rese obbligatoria in città la pratica della cremazione, allora poco diffusa. Durante la rivoluzione culturale, lo stesso Mao ordinò di passare con l’aratro sopra le sepolture degli antenati: l’ateismo e il materialismo comunista cercarono di rovesciare come le zolle smosse dal vomere una lunga tradizione religiosa e spirituale in materia di morte. Anche il successore di Mao, Deng Xiaoping, continuò nell’opera di estirpazione delle antiche tradizioni locali, come quella dei “funerali del cielo” tibetani, con un decreto del 1985 che estese l’obbligo della cremazione a tutto il territorio nazionale.

Ciononostante, i cinesi si mostrano ancora renitenti alla dispersione delle ceneri, che preferiscono inumare nei cimiteri pubblici in campagna così da conformarsi ai precetti della geomanzia. I lotti cimiteriali con migliore feng shui rimangono quelli più ambiti: «yuè gāo, yuè guì», “più è in alto più è costoso”, mi spiega un visitatore al cimitero di Huangcun. 30.000 yuan nei terrazzamenti in basso (più di 4.000 euro), 50-60.000 yuan in alto (tra i 7.000 e gli 8.000 euro). Prezzi davvero poco accessibili ai più, con molte persone che arrivano addirittura a indebitarsi per comprare un fazzoletto di terra con un buon feng shui in un cimitero pubblico, al punto che non è raro leggere sulle lapidi – a fianco del nome del defunto – quello di chi ha costruito, finanziato o ristrutturato la tomba.

Invecchiamento della popolazione, aumento dei costi cimiteriali e contrazione dei nuclei familiari stanno intanto determinando un’evoluzione delle usanze funebri negli altri paesi in cui si è tradizionalmente diffusa la cultura del feng shui tra i quali Giappone, Corea del Sud, Singapore e Hong Kong, dove il costo del terreno è tra i più alti al mondo e si può restare in lista d’attesa per anni, prima di vedersi concesso un posto per la disposizione delle ceneri in cimitero. Sotto le pressioni strutturali esercitate dall’aumento dei costi della terra e dagli stravolgimenti socio-demografici, il fascino romantico ma sovrastrutturale della tradizione è costretto a retrocedere. E meraviglie antropico-naturalistiche come il cimitero di Huangcun sono destinate a scomparire.

 

Alessio Giacometti

 

[Photo credit Shane Young]

Come pecore in mezzo ai lupi: rischi e speranze della Chiesa in Cina

Nei paesi occidentali, cristianizzati da secoli e abituati a vedere il ruolo come primariamente amministrativo, tendiamo a scordarcelo, ma la parola vescovo deriva dal greco επίσκοπος (epìskopos), ovvero “guardiano, sorvegliante”. Uno dei segni distintivi del vescovo, ancora oggi, è il bastone detto “pastorale”, modellato appunto su quello usato dai pastori sugli alpeggi. Ciò che il vescovo sorveglia, quindi, non è tanto l’integrità della dottrina, sebbene abbia anche funzioni da scolarca, né la funzionalità della diocesi, sebbene sia anche amministratore e tecnarca, quanto piuttosto il gregge stesso, quelle “pecorelle” affidate da Cristo in persona a Pietro dopo la Resurrezione (Gv. 15-17).

L’immagine non è solo un espediente poetico del linguaggio figurativo: nelle prime comunità cristiane che vivevano sotto la minaccia dell’Impero Romano, così come ancora oggi in paesi in cui il cristianesimo e il cattolicesimo in particolare subiscono persecuzioni di qualsiasi forma, il vescovo è il primo difensore del gregge, colui che, su modello di Cristo, «cammina davanti» al popolo per guidarlo, che è ascoltato «perché le pecore conoscono la sua voce», e che non fugge davanti al pericolo come fanno «i mercenari», «dà la vita» per loro, spesso letteralmente (Gv. 10,1-18).
L’episcopato, quindi, non è un elemento marginale all’interno della Chiesa cattolica, né di puro prestigio personale o di potere. I “principi della Chiesa”, salvo tristemente note e giustamente scandalose eccezioni e corruzioni, sono chiamati ad essere i primi servi, i “successori degli Apostoli” prima di tutto nel senso dell’immolazione di sé per il popolo dei credenti.

Considerate le premesse, non sorprende lo sconcerto e l’indignazione accompagnati alla nomina dei vescovi in Cina. Se in ogni parte del mondo i vescovi cattolici sono selezionati e ordinati all’interno della Chiesa, nella sempre diffidente e accentratrice Cina le modalità sono diverse dal 1957, da quando cioè la Repubblica Popolare Cinese ha riconosciuto la presenza di cattolici sul proprio territorio e ha fondato l’Associazione Patriottica Cattolica Cinese, una parodia nazionalista e politicamente schierata della Chiesa cattolica, che non ha alcun vincolo di fedeltà al Papa o alla Chiesa di Roma ma riconosce come autorità suprema, anche religiosa, lo stato. Nonostante il governo cinese si sia ostinato a riconoscere l’esistenza solo di questo “cattolicesimo di partito”, nel corso degli anni si è andata imponendo all’attenzione mondiale la lotta per la sopravvivenza di una chiesa “sotterranea”, “da catacombe” come le prime comunità a Roma, che professa un’aderenza al cattolicesimo reale in opposizione a quello statalizzato. Il cattolicesimo, in Cina, è perciò diviso in due: da un lato uno ufficiale, i cui vescovi sono nominati dal partito e insegnano un’assoluta deferenza alla suprema autorità morale (e sacrale) che è lo Stato, e una clandestina, i cui vescovi e i cui membri, se scoperti dalle autorità, vengono arrestati e detenuti nei centri di rieducazione.

Nonostante, o forse a causa di, repressioni e condanne, la chiesa clandestina continua a crescere in numero di fedeli, mentre la religio instrumentum regni di Pechino rimane statica e sterile, una scuola di partito mascherata da istituzione religiosa. Ha stupito e, al solito, indignato molti il fatto che Papa Francesco sia “sceso a patti” con la chiesa di Pechino, lo scorso 22 settembre, firmando accordi storici in base ai quali il Papa ha riconosciuto l’ufficialità di sette vescovi nominati dal governo, ottenendo in cambio la possibilità di esprimersi sulle future nomine. Il rischio appare grande, e pur non trattandosi queste di trattative diplomatiche tra Cina e Vaticano ma di intese «con finalità spirituali e pastorali»1, sono comprensibili i timori di chi vede un pericoloso precedente che legittimi la presenza di pastori poco interessati alla cura del gregge e più al suo asservimento, di “mercenari” che non solo, evangelicamente, potrebbero fuggire di fronte ai lupi, ma potrebbero rivelarsi perfino essi stessi lupi in veste di pastori.

I primi frutti positivi dell’accordo, però, si sono visti già il 3 ottobre, con l’arrivo a Roma, per la prima volta nella storia, di due vescovi cinesi autorizzati dal governo a presenziare alle attività del Sinodo dei vescovi sui giovani, segnale di apertura senza precedenti nelle difficili relazioni tra le due “chiese cattoliche rivali” che ha visibilmente commosso Francesco durante la cerimonia di apertura.
Fu Pio XI, giustificando i Patti Lateranensi con Benito Mussolini, a dichiarare: «Se si trattasse di salvare un’anima, di evitare un male più grande per la salvezza delle anime, avremmo il coraggio di scendere a patti anche col diavolo in persona», e in questo Francesco parrebbe essere decisamente d’accordo. Resta da vedere, però, se le pecore affidate in ugual misura a pastori e mercenari resisteranno alla prova del lupo.

 

Giacomo Mininni

 

NOTE
1. Messaggio del Santo Padre ai cattolici cinesi e alla Chiesa universale

[Immagine: chiesa Santa Trinità a Taiwan, archivio personale]

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Tre tazze di tè e un cucchiaino di Filosofia

«La prima volta che bevi un tè con uno di noi sei uno straniero, la seconda un ospite onorato, la terza sei parte della famiglia» – Haji Ali, capo del villaggio Korphe, Pakistan.

Il tè è la bevanda che, in molti luoghi del mondo, viene utilizzata per socializzare, oltre che per comunicare emozioni di vario genere, per accogliere gli ospiti, per concludere trattative, per riunirsi e stare un po’ insieme, per iniziare la giornata e per concluderla, per prendersi una pausa, per fare pace, per stare meglio.
Per il tè ci vuole tempo e passione, la sua preparazione è un rito che con i suoi movimenti ed i suoi tempi precisi induce alla calma, al rilassamento; il suo profumo riempie i sensi, il suo calore scalda le mani, il cuore e l’anima, perché le sue piccole foglie, quando si aprono, fanno incontrare diverse culture e tradizioni.
È la bevanda che dalle Corti Imperiali della Cina, ai Monaci Zen alle Geisha giapponesi, dai venditori ambulanti dell’India, dall’aristocrazia Europea al popolo ancora oggi unisce e racconta leggende, riti, usanze e guerre in epoche e paesi diversi di tutto il mondo.

Il suo profumo mescolato ad aromi di frutta, fiori, radici e spezie è unico e rapisce, così va scelto e cercato tra le sue forme ed i suoi colori così diversi! C’è un tè per ogni stagione, per ogni momento, per ogni occasione, per ogni umore e raccontarlo, descriverlo e offrirlo a qualcuno è un vero onore. E’ come un gioiello prezioso che va indossato solo nel giusto luogo, nel giusto momento e nel giusto tempo, quel tempo che ci vuole, per prepararlo, gustarlo lentamente alla giusta temperatura, inalando le sue delicate sfumature di profumi che ci riportano alla mente antichi ricordi, inducendoci a parlare e ad ascoltare con calma.

Le antiche civiltà cinesi e indiane conoscevano la cosiddetta energia della luce, chiamata Qi: si pensava che fosse presente in diverse sostanze naturali sotto forma di energia curativa e queste “cellule della luce” sono presenti ancora intatte nel tè verde, il più prezioso tra i quali, il matcha, viene usato nella cerimonia del tè (Cha No Yu o Chadō), un’attività culturale dalle antichissime origini, tutt’oggi praticata in Giappone e dietro alla quale si nasconde una vera e propria filosofia di vita.

Il tè in Italia è ancora un grande sconosciuto: è ancora quella cosa che si beve quando non si sta molto bene, quella cosa che fa bene ma che non ci piace tanto, quella cosa che è legata spesso a brutti ricordi.
In Oriente invece le case da tè sono immerse nel verde e nella quiete fuori dai centri abitati: questo concede concentrazione, in assoluto rilassamento del corpo e della mente, per ritrovare pace e serenità.

Noi vorremmo, attraverso la divulgazione della cultura del tè, far conoscere le sue molteplici forme, i suoi colori, i suoi infiniti profumi, le sue storie e leggende, i Paesi da cui proviene e le tradizioni a cui appartiene, gli oggetti necessari alla sua preparazione, le cerimonie e quell’infinito mondo che appartiene alla filosofia del tè.

Gabriella Scarpa – Ar-tea Associazione culturale

Appuntamento mercoledì 22.06 ore 20.00 presso Ar.tea Associazione culturale a Treviso per l’evento Tè con Filosofia: la Filosofia nel quotidiano.

Maggiori info: qui

LA TECNICA DEL GENE EDITING E LA SUA APPLICAZIONE SUGLI EMBRIONI

È di qualche settimana fa la notizia secondo la quale l’HFEA (Human Fertilisation and Embryology Authority) avrebbe autorizzato un gruppo di ricercatori del Francis Crick Institute di Londra a manipolare ed alterare geneticamente embrioni umani attraverso la metodologia del gene editing1, per scopi di ricerca.

La tecnica permette di modificare selettivamente il doppio filamento del Dna, andando a “tagliare e cucire” il genoma in punti prestabiliti con lo scopo di eliminare in maniera mirata specifiche sequenze genomiche d’interesse ed eventualmente sostituirle con altre. In particolare, la metodologia in questione si chiama CRISPR/Cas9, un sistema che utilizza molecole di RNA per riconoscere e localizzare la sequenza bersaglio del Dna umano che verrà poi cancellato, sostituito e riscritto utilizzando la proteina naturalmente presente in un batterio (chiamato Cas9 endonucleasi). Si tratta di vere e proprie microforbici molecolari che permettono di tagliare l’elica del Dna nel punto desiderato e sostituirne un tratto. L’obiettivo è lo stesso della terapia genica tradizionale, ovvero, correggere le anomalie del Dna responsabili di patologie genetiche attualmente incurabili. Finora, con la terapia genica tradizionale, si potevano solo inserire nelle cellule versioni funzionanti dei geni difettosi che sono direttamente responsabili delle patologie senza, però, poter controllare precisamente dove finisce il gene terapeutico, ora, attraverso l’editing del genoma, i geni possono anche essere disattivati, corretti e sostituiti attraverso microforbici che permettono di raggiungere il punto preciso della doppia elica del Dna in cui intervenire.

Quello londinese non sarebbe il primo tentativo di editing del genoma su embrioni umani; la scorsa primavera ci fu un esperimento da parte di ricercatori cinesi e fu talmente fallimentare che le riviste Science e Nature si sono rifiutarono di pubblicarne i risultati.

In seguito a questa vicenda la comunità scientifica internazionale ha chiesto, nella condivisione di una preoccupazione comune, di fermarsi a riflettere prima di applicare la tecnica su gameti ed embrioni umani, in quanto utilizzare la metodologia del gene editing per modificare il Dna di esseri umani appena concepiti, o per “scrivere” un nuovo Dna per vite umane ancora da concepire, rende queste modifiche irreversibili nei nati ed ereditabili dai discendenti.

All’International summit on human gene editing2, fortemente voluto da studiosi nel campo della genetica umana e tenutosi a Washington nel mese di dicembre, nella dichiarazione finale si definisce “irresponsabile” un intervento di gene editing su gameti ed embrioni, almeno finchè non verrà raggiunto una soglia sufficiente di sicurezza sanitaria e di consenso sociale sull’appropriatezza di tali applicazioni. Per questi ed altri timori è stato inoltre istituito un gruppo di lavoro che nei prossimi mesi si preoccuperà di tracciare alcune linee guida per la comunità scientifica.

Suscita quindi molte perplessità il caso britannico dell’HFEA che ha autorizzato i ricercatori a condurre esperimenti di alterazione genetica sugli embrioni, soprattutto dopo il tentativo di gene editing della Cina che ha prodotto, negli embrioni, mutazioni impreviste ed imprevedibili e dopo le raccomandazioni in merito dell’International summit on human gene editing.

Inoltre, vorrei menzionare un’ulteriore perplessità: attraverso la tecnica di editing del genoma i diversi geni verrebbero alterati uno ad uno per determinare quali possono interferire negativamente nello sviluppo degli embrioni stessi. Tali embrioni potranno essere modificati fino a sette giorni di vita, ma successivamente non potranno essere trasferiti in utero e verranno distrutti. A questo proposito credo sia da precisare che, da un embrione geneticamente modificato di sette giorni di vita non è possibile dedurre con certezza se l’editing sul genoma sia riuscito o meno e se il nascituro sarà sano, per saperlo è necessario trasferire gli embrioni manipolati in utero, condurli alla nascita e seguirne lo sviluppo per alcune generazioni, pena l’inutilità della manipolazione genetica dell’embrione o del gamete. C’è da chiedersi se interventi del genere possano essere realmente utili, se il gioco vale la candela. Credo sia fondamentale indagare e valutare concretamente già allo stadio della ricerca i problemi etici, sociali, economici, sanitari e giuridici dell’utilizzo della tecnica del gene editing su embrioni e cellule germinali auspicando, inoltre, di poter mantenere sempre la tracciabilità del limite fra modifica del Dna a scopo terapeutico – eliminare le anomalie genetiche responsabili di patologie ereditarie – e manipolazione genetica a scopo migliorativo, confine sempre estremamente labile e facilmente superabile nell’applicazione di tali interventi manipolativi.

Note:

1] Ewen Callaway (2016), Embryo editing gets green light. UK decision sets precedent for research on editing genomes of human embryos, “Nature”, vol. 530, p.18.

2] Per ulteriori delucidazioni http://www.nationalacademies.org/gene-editing/Gene-Edit-Summit/index.htm

Silvia Pennisi

[immagine tratta da www.geneticliteracyproject.org]

LA CINA ABOLISCE LA LEGGE SUL FIGLIO UNICO. Le devastanti conseguenze di trentacinque anni di pianificazione familiare forzata

Dopo aver per trentacinque anni forzatamente mantenuto sotto controllo la crescita demografica del Paese, Pechino cambia orientamento: lo Stato Comunista Cinese ha abolito la legge sul figlio unico.
Se torniamo indietro nella storia, il 1 ottobre 1949, l’allora presidente Mao Zedong, annunciando la nascita della Repubblica Popolare Cinese, attuò una serie di misure politiche atte a favorire la natalità; tale politica familiare portò al raddoppio del numero della popolazione cinese.
Alla morte di Mao, nel 1976, la Cina contava quasi un miliardo di persone e dopo qualche anno, nel 1979, il Governo cinese iniziò a promuovere una politica di regolazione delle nascite attuando una serie di provvedimenti di pianificazione familiare. Per l’occasione venne anche istituita una Commissione di Stato per la Pianificazione Familiare composta da migliaia di ufficiali addetti ai controlli in tutto il Paese.
Le famiglie vennero registrate in due differenti liste, quella urbana e quella rurale: alle prime venne assolutamente vietato di avere più di un figlio, mentre alle seconde venne concesso di avere un secondo figlio solo se il primo nato fosse stata una femmina; pena severissimi provvedimenti a livello pecuniario e fisico.
Con gli anni economisti e sociologi cinesi iniziarono a divulgare dati preoccupanti: rallentamento dell’economia, invecchiamento della popolazione e diminuzione della forza lavoro. La politica del figlio unico doveva essere assolutamente ridiscussa.
Già nel 2013 furono apportate alcune modifiche alla legge nel tentativo di ribilanciare il tasso di fecondità nel frattempo sceso sotto il livello di sostituzione. Per cercare di evitare un collasso demografico e il conseguente annientamento di alcune minoranze etniche il numero di figli per ogni famiglia venne portato a due, ma solo nel caso in cui uno dei coniugi fosse stato figlio unico.
Nelle scorse settimane lo Stato cinese, con l’annuncio dell’abolizione della “politica del figlio unico”, chiede alla popolazione di cominciare a produrre nuove braccia pronte a lavorare. L’obiettivo è consentire alla Cina di contare su una forza lavoro in grado di sostenere una popolazione sempre più vecchia.
Trentacinque anni di forzata pianificazione familiare hanno comportato “effetti collaterali” drammatici ed oramai irreparabili.
Dal 1979 ad oggi, secondo dati stimati Ministero della Salute di Pechino, sono stati perpetrati circa quattrocento milioni di aborti, un genocidio silenzioso se si pensa ai quindici-venti milioni di morti della Shoah, il tutto nell’indifferenza e con il benestare delle autorità.
Le ripercussioni negative non finiscono qui; oltre il dramma degli aborti indotti, vi è il grande numero di donne sottoposte alla sterilizzazione forzata. Anche in quest’ultimo caso ci troviamo di fronte ad una palese violazione dei diritti umani e ad un oltraggio alla dignità umana.
Ulteriore elemento da valutare è la sproporzione tra la popolazione maschile e quella femminile, il numero dei maschi risulta, in maniera totalmente innaturale, superiore a quello delle femmine. Si tratta di un dato che riguarda essenzialmente le realtà rurali; in effetti, in campagna, molte famiglie furono costrette a rinunciare non solo al secondo o terzo figlio, ma ad interrompere la gravidanza o a praticare l’infanticidio qualora il feto fosse stato di sesso femminile. Ciò avrebbe permesso ai genitori di tentare altri concepimenti con lo scopo di avere un figlio maschio che nelle zone rurali significa forza lavoro, intesa come forza fisica, fondamentale per il supporto all’economia familiare.
Le famiglie che decidevano di portare comunque a termine la gravidanza, spesso, non denunciavano le nascite all’anagrafe crescendo così “figli senza nome” privi di qualsiasi documento d’identificazione, che non potevano frequentare scuole e che non avevano accesso alle strutture sanitarie.
Nel 2013 all’appello mancavano decine di milioni di donne.
Ad oggi, con le nuove direttive dello Stato cinese, presumibilmente, la percentuale degli aborti si dimezzerà, ce ne saranno meno di prima, ma ce ne saranno ancora; se anche un solo aborto indotto e forzato, personalmente, è sempre troppo, rifletto sul dramma di milioni di aborti che probabilmente saranno la metà dei milioni di prima ma pur sempre milioni. Forse il dato peggiore è la logica che sta sotto queste politiche, ovvero che la popolazione cinese può avere tanti figli quanti decide il Governo in un determinato periodo storico. Quando i cinesi erano troppi, se ne è contenuto il numero con l’aborto statale; quando ci si è resi conto che ne servivano di più si è proceduto ad attenuare la morsa sulla legge del figlio unico consentendone un secondo solo a quelle coppie in cui almeno uno dei genitori è unico per legge, fino ad oggi, tempo in cui si incoraggiano le famiglie ad avere due figli perché è considerato legittimo plasmare l’uomo in base alle necessità economiche di un Paese, un uomo che non è il fine dell’economia ma un semplice mezzo il cui sfruttamento dipende da un beffardo calcolo di interesse.
È evidente che la vita umana e l’unicità delle persone, per il Governo cinese, non sono valori da proteggere e tutelare. Le persone esistono in Cina unicamente in funzione dello Stato, il quale periodicamente e a proprio piacimento decide di arrogarsi il diritto di disporre liberamente della vita umana.
Silvia Pennisi

[immagine tratta dal sito www.progettoitalianews.net]