Nascondere per mostrare: la nuova prova di Christo a Parigi

<p>Christo/Arco di Trionfo impacchettato</p>

Coprire per svelare, mascherare per mostrare. Quante volte vi è capitato di non notare una cosa messa in bella vista? Può succedere con cose anche molto molto grandi, come i monumenti. Lo sappiamo bene noi italiani, che siamo così abituati a essere circondati di cose belle che neanche le guardiamo, e proviamo quasi una certa perplessità nel notare il turista di turno che fotografa il tal palazzo o la tal chiesa che per noi sono semplice quotidianità.

Lo si potrebbe vedere come un problema, o per lo meno un qualcosa su cui riflettere. Ci hanno sicuramente riflettuto molto l’artista bulgaro Christo e l’artista francese Jeanne-Claude, compagni d’arte e di vita. Esponenti nel Nouveau Réalisme prima e della Land Art poi, tra le loro tante opere importanti le più famose sono quelle impaquetés – o wrapped in inglese, impacchettate in italiano. Il Reichstag di Berlino, il Pont Neuf a Parigi, la Opera House di Sydney, 603 metri quadrati di costa di due isolette in Florida e anche la nostra Porta Pinciana a Roma (era il 1974) sono alcuni degli impacchettamenti più famosi della coppia. Ma Christo e Jeanne-Claude, già all’inizio degli anni Sessanta, avevano un sogno proibito: l’Arc de Triomphe di Parigi.

Perché dunque nei freschi giorni di metà settembre tutti i giornali del mondo hanno parlato dell’Arc de triomphe a Parigi? C’è voluta una massiccia opera di mascheramento per mettere nuovamente sotto gli occhi di tutti questo monumento, sotto il naso del mondo ma anche dei francesi che magari ci passano davanti tutti i giorni. E così in tre giorni la grande opera postuma di Christo (deceduto nel 2020) e Jeanne-Claude (deceduta nel 2009) ha preso vita esattamente come loro l’avevano progettata, fino all’ultimo microscopico dettaglio.

25.000 metri quadrati di tessuto polipropilene azzurro argentato e 3.000 metri di corde rosse, entrambi riciclati e riciclabili, settimane di progetto, 5.000 operai specializzati al lavoro. Dal 21 settembre al 3 ottobre 2021 il sogno dei due artisti si è concretizzato, è diventato letteralmente palpabile, apprezzabile esattamente come lo avevano previsto, perché l’Arc de Trimphe wrapped oggi è proprio come Christo lo aveva definito, ovvero “un oggetto vivente che si animerà nel vento riflettendo la luce. Le pieghe si muoveranno, la superficie del monumento diventerà sensuale. La gente avrà voglia di toccarlo”.

Solo 13 giorni per apprezzarlo, scaduti proprio questa domenica. Ed è giusto, altrimenti un parigino comincerebbe nuovamente ad abituarsi, tanto all’Arc de triomphe quanto all’Arc de triomphe empaqueté. Invece è proprio questa sfida all’abitudine, questo riflettore sul paesaggio e sull’ambiente che i due artisti volevano concretizzare, facendolo nel modo più controintuitivo immaginabile, cioè nascondendolo. Un’opera d’arte che è concreta nel tessuto argenteo e nelle corde rosse del “pacchetto”, ma che è anche un progetto lungo decenni, è anche la trasformazione stessa del monumento ed è l’esperienza che ne fa il passante curioso, l’appassionato, il turista, il parigino. Un’opera che sfida il nostro concetto di arte immortale e che lo diventa solo come esperienza e come ricordo. Chi ha camminato sui Floating Piers del Lago d’Iseo qualche anno fa lo sa: è un’esperienza che rimane indelebile. E forse è proprio questa una delle massime riuscite dell’arte: essere immortale nei ricordi e nelle emozioni del fruitore. Un po’ come Stendhal che esce dalla basilica di Santa Croce a Firenze e racconta quella che poi nel Novecento diverrà famosa come sindrome di Stendhal appunto: una bellezza e un’emozione che non lasciano indifferenti, che coinvolgono il corpo in modo più o meno deciso, lo scuotono lasciando un ricordo, persino una sensazione fisica indelebile.

Oggi abbiamo tantissimi dispositivi per tenerci visivamente il ricordo di qualcosa, ma rischiamo di affidare troppo della nostra vita alla sola immagine. Basti pensare banalmente alla tendenza di registrare i video al concerto invece di goderci il momento, come se quei video potessero catturare quell’emozione invece di essere un mero click per il suo ricordo. Siamo bombardati di stimoli e sembriamo faticare a tenerci dentro tutte le emozioni che riceviamo dall’esterno, tanto che alla fine alziamo di molto l’asticella delle nostre aspettative e risultiamo indifferenti a tanta bellezza che ci circonda e ad esperienze che ci toccano. Andando un po’ oltre l’operazione concreta di Christo e Jeanne-Claude potremmo chiederci: deve per forza scomparire un qualcosa della nostra vita per farsi finalmente notare?

 

Giorgia Favero

 

[Photo credit: ansa.it]

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La Land art di Christo: l’eternità nella transitorietà

Quando la natura e l’arte si incontrano e quest’ultima non è più concepita come qualcosa da guardare “a distanza”, ma da vivere “in presenza”, nella quale immergersi con il proprio corpo e come qualcosa da fruire con tutti i sensi, ecco che si schiude una dimensione che trascende la quotidianità e ci porta verso l’assoluto.

Si era fatto conoscere dalla stragrande maggioranza degli italiani con la celebre The Floating Piers del 2016, una passerella di 4,5 chilometri sul Lago d’Iseo, ma in realtà Christo Vladimirov Javacheff, più noto solamente con Christo, era, insieme alla moglie Jeanne-Claude con la quale condivise tutti i suoi progetti artistici e di vita, il maggior esponente della Land art. Ci ha lasciato il 31 maggio, nella sua casa a Soho, New York, a 84 anni.

L’opera di Christo e Jeanne-Claude è un’arte del paesaggio che, assecondando le forme naturali o urbane, vede nell’impacchettamento e nella copertura con dei tessuti sintetici, la propria privilegiata e ideale forma di espressione. Tuttavia ogni imballaggio esprime un suo significato specifico: se The Floating Piers significa l’impossibile che diventa possibile, il visitatore che diventa protagonista di quest’opera d’arte vivente camminando sulle acque e assecondando i movimenti delle onde, Porta Pinciana a Roma vuole evidenziare maggiormente il valore storico, mentre Wrapped Coast a Little Bay in Australia sottolinea soprattutto l’aspetto di protezione della natura. Gli esempi possono essere innumerevoli; ciò che hanno in comune tutte queste installazioni è l’aspetto temporaneo: vivono per qualche settimana al massimo e poi vengono smontate, nonostante la complessità progettuale e i tempi lunghissimi di preparazione. Nel periodo della sua durata, l’opera propone una percezione nuova della realtà: essa “svela nascondendo”, vuole provocare l’immaginario della società odierna, assuefatto dalle abitudini, costringendoci a recuperare l’identità di un luogo o di un oggetto attraverso un nuovo rapporto con lo spazio. Questa nuova relazione che si instaura tra l’oggetto artistico e lo spettatore che si ritrova immerso in un contesto che si discosta da ciò che quotidianamente era abituato a vedere, stimola diverse domande riguardo, per esempio, cosa c’era sotto prima dell’intervento dell’artista, oppure quali sono gli effetti del nostro intervento su un paesaggio incontaminato.

Il gesto dell’impacchettare può essere dunque interpretato come semplice e ironico al tempo stesso: la temporaneità delle opere che simboleggia la caducità della vita, la quale è un tutto che scorre e fluisce continuamente, vuole provocare in noi una riflessione sul nostro rapporto con la natura e sulla relazione tra quest’ultima e l’arte. In che modo l’uomo può elevare spiritualmente qualcosa senza danneggiare quello che c’è attorno, percorrendo forse in punta di piedi quella passerella creata ad arte proprio per indurci a riflettere sul valore simbolico di essa? La questione riguardante la volontà di non danneggiare la natura cercando di avere il minor impatto ambientale possibile si lega spontaneamente alla riflessione riguardo al nostro agire: tutto ciò che facciamo è accompagnato da questo atteggiamento di cura, di rispetto o spesso non valutiamo le conseguenze del nostro intervento?

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Le opere di Christo hanno la capacità di farci indugiare su aspetti della natura o della cultura cui prima non avevamo dato valore, che davamo per scontati, sui quali non ci soffermavamo, presi come siamo dai ritmi rapidissimi della società contemporanea. Esse offrono inoltre uno spunto per riflettere sulla funzione dell’arte: può davvero la bellezza, per citare Dostoevskij, salvare il mondo e innalzarci verso una dimensione assoluta, più profonda rispetto alla svalutazione di senso cui assistiamo nella vita quotidiana? 

Quei luoghi di cui forse prima non ne sapevamo l’esistenza, oppure che conoscevamo benissimo ma davamo per scontati e non attiravano la nostra attenzione, hanno acquisito un senso nuovo dopo l’azione dell’artista che ha reso eterno, sacro, straordinario, qualcosa di caduco, profano e ordinario. Forse è proprio questa la bellezza dell’arte: riuscire a mostrare la dimensione divina che c’è dentro ad ogni cosa, fissando in un attimo, nell’eterno qui ed ora fuori dal tempo e dallo spazio ordinario, lo scorrere dell’esistenza.

La peculiarità e la grandezza del progetto di Christo e Jeanne-Claude sta nel fatto che l’opera d’arte è nell’esserci, nell’emozione di essere nelle cose, in uno stato di coinvolgimento pieno con lo spazio e l’alterità, nel quale si annulla la distanza tra soggetto, oggetto e medium. Essa ha la capacità di unire e andare oltre la dimensione dell’ego per parlare alla dimensione intersoggettiva del “Noi”, sperimentata con il proprio corpo e con tutti i sensi, non solo la vista.

La passerella sul lago d’Iseo non c’è più, così come non ci sono le altre opere di Land art, destinate per la loro stessa essenza all’impermanenza. Eppure l’eternità dell’emozione che ha coinvolto un milione e mezzo di spettatori-attori immersi in quell’esperienza resta fissa e immobile, testimoniando la capacità dell’arte di dare forma e rendere visibili le nostre emozioni conferendo loro un’impronta di eternità.

 

Emilia Agosti

 

Emilia Agosti, dopo la laurea triennale in Filosofia presso l’Università degli Studi di Milano, consegue cum laude, nel medesimo Ateneo, il titolo magistrale in Scienze Filosofiche, presentando una tesi in ambito estetico. È docente, artista e scrittrice per alcune riviste on-line. Ad oggi, oltre alla grande passione per l’arte in tutte le sue forme e l’estetica, continua ad approfondire i propri studi filosofici anche nell’ambito antropologico, sociologico, etico e teoretico.

[Photo credits Wikimedia Commons]

Ecologia, arte contemporanea e filosofia del riciclo: RE.USE a Treviso

Finalmente a Treviso c’è una grande mostra di arte contemporanea che non vuole farsi bastare un grande nome per avere il suo perché, ma punta invece sui temi e sui valori.

Questa mostra, curata da Valerio Dehò, si chiama RE.USE. Scarti, oggetti, ecologia nell’arte contemporanea e ha inaugurato lo scorso 27 ottobre di quest’anno in ben tre sedi espositive: la sala ipogea del Museo di Santa Caterina, la sede espositiva di Casa Robegan e l’elegante sala di Ca’ dei Ricchi, sede dell’associazione ideatrice e organizzatrice della mostra TRA – Treviso Ricerca Arte.

I temi, dunque – il riciclo, la riflessione sullo scarto, l’attenzione per il quotidiano, uno sguardo accorto sulle cose che questo quotidiano lo riempiono – e anche i valori – la condivisione, il lavoro di squadra, la volontà di coinvolgimento – evidenti anche solo dalla scelta di realizzare una mostra dislocata che va a mettere in moto luoghi, attori, istituzioni, associazioni, ordini professionali ed esercizi commerciali di tutto il capoluogo veneto, finalmente libero da monoliti autoreferenziali. Non poteva del resto che venire da qui, dalla storica provincia più green friendly d’Italia, questa lunga immersione nel tema artistico del riutilizzo, che attraversa l’arte contemporanea a partire da inizio Novecento e che ancora fiorisce di spunti e riflessioni da parte degli artisti attualmente all’opera.

È un’arte che fa bene e che va nella direzione giusta quella che osa riflettere sull’assenza di riflessione. La riflessione, come hanno ben spiegato i filosofi della Scuola di Francoforte, è stata soppiantata dai bisogni indotti del Capitalismo e le cose – la merce, gli oggetti – ci sommergono, ci soffocano, e noi li lasciamo fare; come sostiene giustamente il curatore Valerio Dehò, sono loro che ci possiedono. Allora l’arte cerca di rovesciare questo paradigma e di riprendere il controllo sugli oggetti, esponendo allo sguardo il pericolo; spesso con grande ironia, a volte con austerità e monito, ma spesso entrambi tragicamente mai presi del tutto sul serio dalla Storia.

Le opere conservate al Museo di Santa Caterina sono come una lezione di storia dell’arte, da conservare come insegnamento prezioso per conoscere le opere di tutti gli artisti che sono venuti dopo i grandi maestri. Duchamp (il suo primo ready-made è del 1913 ed è stato il seme di un nuovo pensiero), Man Ray e Alberto Burri aprono la strada a un’arte della scelta (in luogo dell’esecuzione) e del contenuto (in luogo della cosiddetta, semplicemente, “estetica”): l’arte raggiunge una dimensione puramente intellettuale e gli oggetti, strappati dal banale e dal quotidiano ma ancora dichiaratamente oggetti, assumono significati nuovi. Seguono gli anni Sessanta, l’arte concettuale e il Nouveau Réalisme, che porta la riflessione sugli oggetti al problema dello spreco: l’arte si fa con oggetti di scarto, che nell’assemblage diventano qualcosa di nuovo e comunicano anche (più o meno velatamente) un messaggio di critica. Artisti del livello di Mimmo Rotella Tony Cragg e Christo sono fondamentali in questa fase. Da quel momento l’arte porta con sé la denuncia ecologica, il testimone passa ai nuovi giovani che cercano nuovi mezzi per esprimere questa presa di coscienza. Queste nuove riflessioni vengono accolte nelle sedi di Casa Robegan e Ca’ dei Ricchi, dove vengono esposti il neon fluo di Matteo Attruia, le intense fotografie tra natura e artificio di Giuseppe La Spada, gli scultorei plastiglomerati di The Cool Couple, l’enorme città distopica di Marco Bolognesi (solo per citarne alcuni). Vi invito a scoprire tutti gli altri e a sondare, attraverso le tre sedi espositive, la pluralità di tecniche artistiche e di visioni a confronto su questi temi. Le opere del gruppo Cracking Art, infine, che invadono la quotidianità del panorama cittadino trevigiano con i loro animali colorati, costringono a una riflessione in mezzo alla linearità delle nostre giornate a proposito della manipolazione dell’uomo sulla natura, continua e ancora troppo incapace di etica.

Una mostra da guardare per pensare. Guardare e non vedere. Non per nulla RE.USE non si limita alle opere esposte ma continua, spalanca i suoi confini spaziali, coinvolge anche le orecchie, perché tante sono le iniziative e gli incontri organizzati in questi quattro mesi di mostra (chiuderà i battenti i 10 febbraio) di cui anche noi de La chiave di Sophia faremo parte. Non limitatevi dunque a venirla a vedere: seguitela, ascoltatela, fatevi coinvolgere, portate la riflessione con voi al di là del museo e tenetela con voi, dentro la vostra testa, vicino al vostro animo.

 

Giorgia Favero

 

Abbiamo ospitato questa grande e lodevole iniziativa anche all’interno della nostra rivista cartacea La chiave di Sophia #7 – L’esperienza del bello con un articolo firmato da Marcello Libralato. Scopritelo a questo link!

[Photo credits Karen Barbieri]

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L’artista: esecutore o creatore? Il caso di Canova

Nell’arte contemporanea la sempre più diffusa pratica, da parte degli artisti, di creare grandi installazioni che talvolta modificano persino la percezione di un paesaggio (si pensi, per esempio, ai Floating Piers di Christo) implica automaticamente che l’artista sia via via diventato, in tempi recenti, il progettista di un’opera d’arte, il suo creatore concettuale, che dà il compito ad esecutori specializzati (a seconda dei materiali e del funzionamento) di realizzare ciò che lui ha pensato e disegnato.

Per molte persone questo fatto ha portato alla perdita, da parte dell’artista, del suo ruolo storico di esecutore e di vero e proprio creatore dell’opera, plasmata non solo dal suo ingegno ma anche dalle sue eccezionali abilità manuali. Tuttavia vi sono numerosi casi storici di grandi artisti, oggi ritenuti fautori di una bellezza ormai perduta nell’arte, che nella realizzazione dell’opera finita, sia un grande affresco o un gruppo scultoreo, non hanno nemmeno dato il loro contributo concreto, oppure sono intervenuti in prima persona in quantità ridottissime. D’altronde non si può pensare che un immenso affresco, come quelli che occupano soffitti di saloni o di chiese per decine di metri quadrati, venga completato da un solo artista: egli è il maestro, ha un ruolo guida nel cantiere e decide, sulla base dei suoi disegni preparatori, eventuali correzioni e modifiche, lavorando alle aree più delicate (le figure umane) e lasciando ad aiutanti e collaboratori l’esecuzione di elementi di minore impegno. Nel caso della scultura si ripete il medesimo discorso, specie se si parla di opere dalle dimensioni grandiose, come, ad esempio, la Fontana dei Fiumi in Piazza Navona a Roma, di Gian Lorenzo Bernini.

Ma proprio nella scultura c’è un caso eclatante che si distingue da tutti gli altri, vale a dire quello dell’artista veneto Antonio Canova, considerato il maggiore esponente del Neoclassicismo in Europa (insieme ai pittori David e Ingres) e il più grande interprete dell’estetica di età napoleonica. L’attività di Canova, infatti, si configura essenzialmente come quella di un imprenditore, il cui lavoro è vendere ai facoltosi clienti creazioni scultoree dal gusto anticheggiante, che richiamino i fasti dell’antica Roma (erano state da poco rinvenute Pompei ed Ercolano) e che diano lustro al loro committente. Il grandissimo successo dei suoi lavori (soprattutto dalla fine del Settecento) gli procurò una clientela vastissima ed esigente, che egli certo non avrebbe potuto soddisfare da solo. Il suo fare arte divenne perciò una specie di impresa, in cui l’opera era solo il risultato finale di un processo in cui egli si occupava quasi esclusivamente dell’ideazione: egli sviluppava uno o più modelli in terracotta che descrivessero l’opera nelle sue linee fondamentali; veniva poi costruito, sotto la sua direzione, un modello in gesso, che fungeva da prototipo dal quale ricavare poi l’opera finita; questa, infine, veniva scolpita su marmo (o bronzo, a seconda dei casi) da una serie di allievi e apprendisti, che avrebbero seguito scrupolosamente le proporzioni del gesso, non obbligando l’artista a intervenire se non nella definizione degli ultimi dettagli. Quando oggi vediamo un’opera di Canova, quindi, vediamo essenzialmente un prodotto delle mani dei suoi collaboratori. Tuttavia, ciò non cambia il valore dell’opera in sé e la sua autenticità: si tratta comunque del frutto della mente e dell’immaginazione creativa dell’artista, cui senza dubbio mancava più il tempo che l’abilità (ben evidente negli eccezionali modelli preparatori in terracotta). L’opera finita, fedelmente tradotta dal gesso (nella cui lavorazione Canova svolgeva una parte attiva ma non solitaria), mantiene tutte le caratteristiche e la qualità da lui desiderate, cosa che ne fa un suo prodotto a tutti gli effetti, non molto differentemente da quanto i Floating Piers sono in tutti i sensi un’opera di Christo, che ne ha sviluppato i progetti e seguito la produzione in prima persona.

 

Luca Sperandio

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

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