Il futuro di una chiesa isolata

Quello rappresentato dalla “Brexit” è senza dubbio un evento epocale, le cui conseguenze a breve ed a lungo termine devono ancora palesarsi nella loro portata e interezza. Se a livello economico-finanziario i risultati sono stati immediati, e sul piano sociale e politico sono in buona misura prevedibili, rimane ancora l’incognita del destino della Chiesa anglicana.

Non è un segreto che la Chiesa inglese versi in cattive condizioni da decenni ormai: nonostante le numerose riforme apportate al proprio interno, non ultimo il sacerdozio femminile, i fedeli effettivi al suo interno sono in costante diminuzione (i registri parrocchiali parlano di 25 milioni, ma i praticanti sono meno della metà), e la sua reale influenza sulla società britannica ha subito un drastico calo. Lo stesso risultato del referendum sembra confermare la scarsa presa delle autorità ecclesiastiche sulla popolazione: l’Arcivescovo Justin Welby si era a più riprese espresso contro l’uscita del paese dall’UE, ma i suoi appelli sono caduti del tutto inascoltati, e proprio le frange più conservatrici che normalmente cercano giustificazione e legittimità nella religione hanno guidato il popolo verso posizioni opposte rispetto a quelle auspicate da Canterbury.

La Chiesa anglicana ha come mai bisogno, oggi, di quello che non ha mai avuto fin dalla sua fondazione: apertura alle altre confessioni cristiane, a partire da quelle presenti sul territorio britannico. Fino agli anni Novanta, ogni passo avanti fatto nella riconciliazione tra Chiesa anglicana e cattolica è stato bruscamente interrotto proprio dalla prima, che si è sempre ostinata a mantenere un fiero isolazionismo, diretto riflesso di quello politico della Gran Bretagna. Ora che però questa linea di condotta ha portato ad un isolamento reale che promette di essere mortalmente nocivo al Paese, la riapertura dei dialoghi non può essere ulteriormente rimandata.

La crisi economica ha portato con sé alcuni inaspettati cambiamenti anche in ambito ecclesiastico: il tracollo della Grecia ha portato la locale Chiesa ortodossa a rivedere la possibilità di un riavvicinamento al cattolicesimo, idem per quella rumena; dal Concilio Panortodosso di Creta conclusosi lo scorso 26 giugno, il primo dal 1054, sono emersi importanti documenti che incoraggiano l’unione tra le varie Chiese ortodosse autocefale (pur non avendo partecipato all’incontro alcune di queste, prima tra tutte la grande Chiesa di Mosca): un segno di unione importante in un’epoca di forti divisioni, ma anche una diretta conseguenza di una profonda crisi sociale e politica. Quello delle Chiese ortodosse dovrebbe essere per la Chiesa di Londra un esempio, sia sul piano politico che su quello eminentemente spirituale.

Con un Canale della Manica che non è mai stato così largo, bloccato su un’isola che ha espresso la propria volontà di staccarsi ulteriormente dal continente, l’evangelico “Ut unum sint” potrebbe rimanere l’unica chance di sopravvivenza per l’anglicanesimo, oltre che l’ultima occasione per poter influire in maniera positiva ed efficace sul post-Brexit. Un eventuale riavvicinamento agli episcopali di Scozia o agli autonomi d’Irlanda potrebbe contribuire notevolmente a riparare le fratture generate all’interno del Regno Unito dal risultato del referendum, riavvicinando a Inghilterra e Galles i potenziali secessionisti; in più, un’apertura nei confronti delle Chiese continentali, la cattolica come le protestanti, potrebbe fare da testa di ponte nella riscoperta (e nella ricostruzione) di una comune identità europea, almeno nel suo impianto etico e valoriale. Sarebbe, con ogni probabilità, l’equivalente di un mulino che comincia a funzionare solo quando ormai l’intera popolazione è morta di fame, ma considerata la posta in gioco vale pure un tentativo. L’unica alternativa, al momento, è la definitiva scomparsa della Chiesa d’Inghilterra.

Giacomo Mininni

Giacomo Mininni, nato a Firenze, si è laureato cum Laude in Scienze Filosofiche presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Firenze nel 2013. Scrive in qualità di critico cinematografico per il settimanale La croce, collabora frequentemente con il trimestrale Prospettive, edito dalla ONLUS Opera per la Gioventù “Giorgio La Pira”, col settimanale ToscanaOggi e con altri periodici. Ha curato due capitoli del volume Pino Arpioni e La Vela. Sessant’anni di campi scuola di Claudio Turrini, edito da Edizioni Cooperative Firenze 2000 nel 2014, e l’introduzione di Le filosofie inconsapevoli. Pedagogia della non conoscenza di Fabio Fineschi, edito da Ladolfi Editore nel 2016. Sempre con Ladolfi ha pubblicato nel 2015 Verso il mare. La filosofia della storia di Giorgio La Pira. Da dieci anni si occupa di dialogo interculturale e interreligioso presso l’Opera per la Gioventù “Giorgio La Pira”.

Spotlight: un caso che merita l’Oscar

Diciamolo subito: quest’anno la notte degli Oscar si preannuncia come un evento al di sotto delle tradizionali aspettative. Certo, c’è attesa per la vittoria (ormai certa) di Leonardo DiCaprio, ma tra i film in gara è davvero difficile trovare una grande pellicola, capace di distinguersi nettamente dalle altre, sbaragliando la concorrenza. I candidati sono tutti validi, ma sembrano destinati a regalare poche sorprese durante la serata delle premiazioni. Mad Max – Fury Road, da un punto di vista estetico e cinematografico, è il migliore tra i dieci selezionati dell’Academy, ma il vincitore potrebbe essere (un po’ a sorpresa) un film allo stesso tempo classico e coraggioso: Il caso Spotlight.

Dimenticatevi il cinema inteso come arte. Nell’opera di Tom McCarthy non troverete i piani sequenza del virtuoso Alejandro González Iñárritu e nemmeno la grande estetica tipica della filmografia di George Miller. Scordatevi l’azione e i colpi di scena tipici dei legal-thriller o dei film polizieschi. Il caso Spotlight non è nulla di tutto ciò. Non è un film che vi terrà incollati alla sedia, non vi regalerà una messa in scena indimenticabile e vi racconterà una storia che vi farà sentire molto a disagio. Nonostante questo però è l’opera che, più di molte altre, merita di vincere l’Oscar come miglior film. I motivi sono diversi: Spotlight è un film solido, costruito su un’ottima sceneggiatura che riporta alla luce un tema scottante come quello della pedofilia nella Chiesa cattolica, in un periodo in cui la nostra contemporaneità è segnata dal complesso dibattito sulle unioni civili. Spotlight non costruisce storie inventate, ma si serve della finzione scenica per raccontare la realtà. Il film di McCarthy è una lucida e quasi documentaristica ricostruzione della realtà dei fatti che nel 2002 portarono alla scoperta di uno dei più grossi casi di pedofilia al Mondo per merito della redazione del Boston Globe. Spotlight non giudica mai i protagonisti della sua storia, ne rimane oggettivamente distaccato e con una visione giornalistica racconta in modo preciso e dettagliato la sua versione dei fatti.

La regia, studiata e precisa, lavora qui per sottrazione quasi a voler scomparire per focalizzare tutta l’attenzione sulla vicenda narrata. Lodevole l’intero cast (Mark Ruffalo e Stanley Tucci su tutti) che si mette al servizio dei fatti, interpretandoli con accorato sentimento, senza eccessi o manierismi di alcun tipo. Il modello di riferimento è l’inarrivabile Tutti gli uomini del presidente di Alan J. Pakula, primo esempio di cinema-giornalistico capace di raccontare la verità attraverso la finzione. Spotlight deve molto a un film come quello, ma allo stesso tempo riesce a superarne l’eredità, basandosi sulla potenza della trama e sull’inconfutabilità delle prove portate alla luce sul grande schermo. Uno scoop cinematografico in piena regola che merita di veder riconosciuto il suo valore. Nel 1977 il film di Pakula si portò a casa ben quattro premi Oscar. Oggi, a quasi quarant’anni di distanza, non sarebbe immeritato dare la statuetta a un film, magari non perfetto o esaltante, capace però di ricordarci quanto sia importante ricercare e divulgare la verità delle cose.

Alvise Wollner

Mancinismo, la malattia dimenticata

«Su 1029 operai e soldati ho rilevato una proporzione di mancini del 4% tra gli uomini e dall’8 al 5% tra le donne. Tra i pazzi le proporzioni non sono molto diverse. D’altro canto, studiando un certo numero di criminali, la quota di mancinismo riscontrata risulta più che triplicata tra gli uomini (13%), e quasi quintuplicata tra le donne (22%). Tuttavia, alcuni tipi di criminali, come, per esempio, i truffatori, fanno registrare percentuali molto superiori (33%), mentre assassini e stupratori fanno registrare percentuali del 9-10%»

Cesare Lombroso, articolo per la rivista North American Review, 1903.

Questa volta esordiamo così, con uno stralcio di articolo scritto dal celebre padre dell’antropologia criminale, su un tema ormai dimenticato ma che tuttavia si nasconde tra gli anfratti più oscuri della nostra società: il mancinismo, ovvero l’abitudine di adoperare la mano sinistra per compiere gesti quotidiani come scrivere, pettinarsi o afferrare oggetti.

Mi sono chiesto se fosse giusto gettare una secchiata d’acqua gelata sopra le coscienze decadute del nostro tempo e sopra l’abitudine che rende “normale” ciò che per molti secoli − va detto: in modo altalenante − è stato ritenuto malato, distorto, contrario, deviato.

Fortunatamente esiste una moralità superiore che mi spinge a denunciare l’indifferenza che ci circonda attraverso le opinioni di un solo uomo di scienza, che tuttavia possono anche essere messe in discussione, e dato che la scienza spesso non giunge a toccare i sentimenti degli uomini, ricorrerò alla religione cristiana per avvalorare la mia tesi, per dare cioè voce ad un fondamento assolutamente imprescindibile dalla nostra italianità.

«La mente del sapiente si dirige a destra e quella dello stolto a sinistra» (Ecclesiaste X,2)
«Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio» ( Marco: 16,19)

In mezzo a questi due passi, uno biblico l’altro evangelico, è bene ricordare che la mano sinistra fu considerata a lungo il prolungamento di quella del diavolo.
Eva colse il frutto proibito con la mano sinistra e sempre con la mano sinistra Adamo la afferrò per compiere il peccato originale. Gestas, il ladrone che fu crocifisso alla sinistra di Gesù, rifiutò il perdono deridendo il Figlio di Dio, mentre Disma, quello posto a destra, divenne il ‘Buon Ladrone’ addirittura Santo per la Chiesa cattolica e per quella ortodossa.
In altre religioni, la mano sinistra è impura, proibita e inevitabilmente secondaria o inferiore rispetto alla prima.

Non bastassero le ammonizioni cristiane sull’uso nefasto dell’arto sinistro, entrano in gioco fattori di origine popolare e folklorica.
Alcuni anni fa conobbi un ragazzo pugliese e mi spiegò che versare il vino con la mano sinistra era sinonimo di tradimento.

Tradimento confermato dalla tradizione dei convenevoli: forse, quando stringiamo la mano di un’altra persona in segno di saluto, non sappiamo che dietro si cela un linguaggio guerriero piuttosto antico secondo il quale esprimiamo fiducia e allo stesso tempo ci dimostriamo amichevoli, sinceri; al contrario la mano sinistra avrebbe un secondo fine, è la serpe che trae d’inganno il malcapitato ingenuo e permette al malvagio di afferrare la spada − normalmente alla destra − per ferire o uccidere.

Ma diamo un’occhiata anche all’etimologia legata al termine mancino: “azione sleale o insidiosa, compiuta con astuzia e in modo imprevedibile”.
“Persona infida, disonesta”.
Deriva dal latino mancus: “mutilato, storpio”.
Sinistro invece è sinonimo di incidente, sventura, sciagura.

Dopo aver raccolto prove di carattere scientifico-antropologico, religioso, tradizionale ed etimologico, riporto un esempio pratico di come il mancinismo fosse scoraggiato.

Per farlo bisogna entrare in una scuola primaria di circa ottant’anni fa, quando gli insegnanti usavano metodi sbrigativi per insegnare ai pargoli a far di conto e a scrivere. Il più delle volte ci si fermava alla terza elementare, ma in quei tre anni chi era mancino diventava destrimano grazie al delicato e discreto metodo del braccio sinistro legato alla sedia.

Le usanze secolari scemarono via via nel tempo, specialmente con l’avanzare di nuove frontiere nella ricerca psicologica e comportamentale; in pochi anni furono scardinate le certezze che reggevano la volta razionale e spirituale della società equilibrata.
Ci hanno convinti dell’assoluta parità tra un mancino e un destrimano, hanno parlato di scelta, altri di naturalità; insomma, hanno negato la devianza mentale e soprattutto la tesi religiosa legata ad essa, dicendo persino che i testi sacri andavano interpretati e non presi alla lettera.

La gente si è quindi assuefatta all’interno della visione bucolica e negazionista di chi brama spiegare logicamente le cose? Ha smesso di credere a regole considerate immobili dalla notte dei tempi? Se i mancini sono sostanzialmente deviati, perché hanno i nostri stessi diritti? Se alla base della nostra amatissima Italia ci sono radici cristiane, perché permettiamo al diavolo di aggirarsi tra noi?

Attendendo la risposta a queste domande che probabilmente non arriverà mai, qualcuno di voi si sarà già adeguatamente indignato − magari proprio perché mancino − leggendo la progressiva degenerazione delle mie argomentazioni antiquate e attualmente ridicole.
Ma il mio intento era proprio quello di trascinarvi in un breve tratto d’oblio non così distante da una realtà quotidiana nota per riesumare, esattamente allo stesso modo con cui l’ho fatto io, tematiche per la difesa di antichi retaggi… cercando di oscurare i diritti che le persone dovrebbero poter godere indipendentemente dalle scelte di vita.

Scelte che assecondano solamente la propria natura, sia essa incline a preferire la mano sinistra alla destra, la solitudine alla compagnia, il modo di provare piacere guardando una donna o un uomo adulto e consenziente.

Quando sentirete dire che una cosa è malata e innaturale solo perché non conforme alle scelte compiute da molti, ricordatevi dei mancini, e cercate di capire se vale davvero la pena ritornare a passeggiare nell’oblio.

Alessandro Basso

[immagine tratta da Google Immagini]

Chiesa Cattolica tra belle parole e esempio concreto

Gesù infatti era rigoroso, ma mai rigido: “Diffida dell’uomo rigido è un traditore”scrive Shakespeare. Tenerezza implica mettere al centro non un sistema di nozioni, ma il volto dell’altro, la sua presenza fisica che interpella, la carne con il suo dolore e con la sua gioia. La Chiesa Cattolica dovrebbe temere molto di più la perdita di tenerezza che la secolarizzazione, essa dovrebbe impegnarsi a dare l’esempio al posto di fornire generiche indicazioni teoriche. All’Italia e al Mondo servirebbe una Chiesa capace di essere vicina alle persone in questi tempi avari di speranza, non c’è miglior formula che quella della prassi per testimoniare – e qui il termine non è a caso – l’autentico messaggio Cristiano.

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