Derrida e l’11 settembre. Il terrorismo come malattia autoimmune

L’11 settembre 2021 ricorrono i vent’anni dall’attentato alle Torri Gemelle, uno degli eventi più iconici e drammatici della nostra storia recente. Alle ore 8.45, circa, il primo aereo si schiantò contro la Torre Nord: in pochi minuti quelle immagini fecero il giro del mondo, che incredulo rimase a guardare col fiato sospeso. Tutti si ricordano cosa stessero facendo in quel momento e tutti pensarono più o meno alla stessa cosa, e cioè che era in atto un cambiamento irreversibile.

Per approfondire le implicazioni di questo evento, in particolare, e del fenomeno terrorismo in generale, la filosofa Giovanna Borradori, professoressa del Vassar Collage, intervistò due dei massimi pensatori contemporanei: Jürgen Habermas e Jacques Derrida. I due dialoghi sono stati raccolti nel libro Filosofia del terrore del 2003 e pubblicato in Italia da Laterza.

È proprio grazie a questo incontro che Derrida elaborò, in linea col suo stile suggestivo e simbolico, la definizione di terrorismo come malattia autoimmune. Un’affermazione a primo acchito provocatoria e inaccettabile; è come se il filosofo volesse sminuire questa tragedia e deresponsabilizzare, addirittura giustificare, gli attentatori. Ovviamente si tratta di un’analisi molto più profonda, ma certamente in contrasto con i luoghi comuni del dibattito pubblico post 11 settembre e con la retorica della War on Terror.
Con malattia autoimmune si intende una serie di patologie molto particolari che derivano da un’anomalia del sistema immunitario, il quale, trattandoli come agenti estranei, attacca alcuni tessuti sani del nostro organismo. In altre parole, Derrida ci dice che solo in apparenza il terrorista è un nemico esterno, non rappresenta l’atto di guerra di organizzazioni straniere, ma è il sintomo di una crisi intrinseca nel nostro sistema politico e geopolitico. 

Maurizio Cattelan

Maurizio Cattelan, “Blind”, Hangar Bicocca 2021

L’osservazione di Derrida si sofferma sul fatto che gli attentatori hanno utilizzato armi, tecnologie e tecniche tradizionalmente occidentali. Da dove hanno assimilato queste competenze? La risposta non lascia alibi: sono stati gli Stati Uniti che durante la guerra fredda hanno addestrato gli afgani per sottrarre quella regione al controllo dell’URSS. È stato dunque l’Occidente che, in prima battuta, ha preparato le basi per quello che si sarebbe concretizzato nell’11 settembre.
Perciò, secondo Derrida, questo avvenimento non può essere considerato una data storica; non inizia un’epoca nuova, ma si pone in continuità con quella precedente. Non può essere nemmeno definito un major event, ovvero un evento di importanza tale da segnare una generazione intera. Non è stato un avvenimento inaspettato e improvviso, non è stato un “terremoto culturale”, ma la diretta conseguenza di una catena di responsabilità chiaramente attribuibili. Non irrompe nella storia e, in senso arendtiano, non è portatore di novità.

A mio avviso, l’aspetto più interessante dell’analisi di Derrida è il fatto che essa sia una chiave interpretativa valida anche per fenomeni successivi all’11 settembre. Caso emblematico sono i due principali attacchi terroristici che hanno colpito Parigi nel 2015: l’attentato alla sede del periodico satirico Charlie Hebdo, avvenuto il 7 gennaio, e quello al Bataclan del 13 novembre. I fratelli Chérif e Saïd Kouachi, autori del primo attentato, erano nati a Parigi da una famiglia di origine algerina e all’epoca dei fatti avevano rispettivamente 32 e 34 anni. Il loro complice, Amedy Coulibaly, aveva 33 anni ed era nato in Francia da una famiglia originaria del Mali. Il secondo caso ha coinvolto una decina di attentatori, tra questi anche il ventiseienne Salah Abdeslam, nato in Belgio da una famiglia originaria del Marocco. Nelle foto che circolavano durante le ricerche si vede un ragazzo in jeans e giacca, con il gel tra i capelli pettinati all’indietro; un’immagine molto lontana dallo stereotipo di jihadista.

Questi quattro nomi sono quattro esempi di giovani uomini nati e cresciuti in Europa, membri della cosiddetta “seconda generazione” che, per vari motivi, si sono successivamente radicalizzati fino a diventare autori di stragi. Di fronte a questi casi l’allegoria del terrorismo come malattia autoimmune è ancora più evidente. Questi attentati nascondono il fallimento di un preciso sistema istituzionale e politico: la Francia post-coloniale e multiculturale non ha saputo prevedere e prevenire quello che sarebbe successo. 

La riflessione derridiana, per quanto efficace, è mancante almeno in un aspetto: la sua impostazione è prettamente analitica e non risulta capace di proporre soluzioni percorribili. La malattia diagnosticata è una crisi dell’intero Occidente, dalle cause profonde e dai sintomi a lungo termine, ma per quanto riguarda il dopo non viene detto nulla. Qui Derrida si ferma e implicitamente passa il testimone, per uscire dalla lunga degenza spetterà alle nuove generazioni trovare la cura.

 

Leonardo Rosa

Leonardo Rosa (1994) si è laureato in filosofia prima a Trento e poi presso l’Università degli Studi di Milano. I suoi principali settori di interesse sono la filosofia politica e il pensiero politico contemporaneo. Attualmente lavora come redattore e editor presso alcune case editrici. 

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Je suis Charlie, moi non plus

Il terremoto che ha colpito il centro Italia i giorni scorsi non ha mancato di attirare gli usuali sciacalli mediatici, e non si è certo tirata indietro la controversa rivista francese Charlie Hebdo, fino a poco fa considerata da molti italiani il simbolo della libertà di pensiero e di espressione. Stavolta, però, la reazione al disegno firmato Felix è stato di indignazione quasi unanime e, salvo una schiera di strenui difensori che insiste a leggere nella vignetta una “fine satira sociale e politica” penalizzata da “giochi di parole intraducibili dal francese”, i corpi di morti e feriti trattati con la solita, dissacrante ironia ha provocato stavolta un’alzata di scudi generale, anche a livello istituzionale.

Curioso, visto e considerato come anche la vignetta che ironizzava sull’attacco al Bataclan o quella sulla strage di Nizza erano state accolte come esempi di “autoironia”. Il pubblico sdegno, che non si era scomodato neanche per i vergognosi disegni sul piccolo Aylan Kurdi, interviene solo quando nel bersaglio dei vignettisti finisce in prima persona chi legge. Forse, finalmente, si è in grado di capire oggi quali sentimenti suscitino normalmente i disegni “satirici” della rivista francese, gli stessi che avevano fatto commentare perfino a Papa Francesco: «Se il dottor Gasbarri, che è un mio grande amico, dice una parolaccia contro la mia mamma, gli aspetta un pugno [sic]. È normale».

Anche il regista premio Oscar Hayao Miyazaki, non certo un leader religioso, aveva dichiarato che a suo avviso la satira dovrebbe occuparsi di politica, possibilmente la propria, mentre quella a danno di credenze e culture altrui non ha ragione di esistere; la redazione rispose con un raffinatissimo «Cabu, qui détestait le manga, et qui a passé sa vie à caricaturer les hommes politiques, te dit merde!».

Sia Bergoglio che Miyazaki hanno messo in luce quella che è la pietra della discordia delle polemiche di ieri e di oggi (e che si traducono sempre e comunque in pubblicità per il giornale), un dibattito intorno alla definizione stessa di “satira”. Basta che una cosa sia scioccante per essere considerata satira, come molti hanno sostenuto in questi giorni? Allora Charlie Hebdo è un campione del genere, così come lo sono di diritto anche gli snuff movie o i reality sugli incidenti stradali. La satira deve veicolare un messaggio, farsi portavoce di una critica mirata a un dato sistema ideologico o sociopolitico? Ecco allora che le opinioni divergono.

Una vignetta su Benedetto XVI o Papa Francesco che mette in ridicolo parole o atteggiamenti può essere satirica, una che raffigura la Trinità impegnata in sesso di gruppo no; un disegno che mette in ridicolo al-Baghdadi può essere satirico, uno che ritrae il Profeta Muhammad in posa per un servizio fotografico porno no. Esiste un confine neanche troppo sottile tra il deridere una persona per le sue convinzioni e ridicolizzare le convinzioni stesse. Nel caso delle religioni, poi, il discorso si fa ancora più delicato, perché si va a toccare una sfera estremamente intima della vita personale; una fede non è un’ideologia politica, una regola di condotta morale, un sistema di credenze: rientra piuttosto nella categoria delle relazioni personali, nel caso specifico una relazione tra il credente e Dio. Il paragone usato da Bergoglio nel 2015 tocca precisamente il cuore della questione: si può parlare ancora di satira quando non si cerca di criticare o correggere, ma semplicemente di indignare, offendere, scioccare, senza alcun riguardo per la sensibilità altrui e senza curarsi minimamente di ciò che per altri è il sacer?

Se la risposta è negativa, allora non è possibile non indignarsi per ogni singola provocazione da parte di Charlie Hebdo e colleghi, ma piuttosto che fornire pubblicità gratuita con dibattiti infiniti, sarebbe bene seppellire la fonte del malcontento sotto una coltre di indifferente silenzio. Se la risposta invece è positiva, e la libertà non deve avere come limite neanche quella altrui, allora si lasci passare tutto: l’idea di rispetto della vita umana rimanda direttamente al sacro, ed eliminato questo, è solo ipocrisia indignarsi per uno sbeffeggiamento di troppo alle vittime di qualsivoglia tragedia.

Giacomo Mininni

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Se mi imponi non ci sono più: chi sono?

«Facoltà di pensare, di operare, di scegliere a proprio talento, in modo autonomo; cioè, in termini filosofici, quella facoltà che è il presupposto trascendentale della possibilità e del volere, che a sua volta è fondamento di autonomia, responsabilità e imputabilità dell’agire umano nel campo religioso, morale, giuridico» (Treccani).

Questa è la definizione che il libro dei vocaboli mi concede.
Tuttavia è solo una parte dei miei poteri; se vengo associata al pensiero, al culto, all’espressione, alla stampa, persino all’essere felici, mi ritrovo in specifiche situazioni e opero senza ostacoli.
Nella mia natura non ho confini, e se non ci fossero le vostre leggi lavorerei a trecentosessanta gradi arrivando a distruggere le mie sorelle; non so chi sia stato il primo tra voi ad imbrigliarmi, quello che so è che da quel momento ho iniziato ad essere usata a vostro piacimento, anche solo per giustificare qualche vostra malsana idea di dominare il mondo.

C’ero quando mi avete posta in cima alla piramide dei vostri valori, era scritto in una carta firmata tanto tempo fa; c’ero quando mi avete vista sotto una certa luce e avete pensato che fosse la mia rappresentazione assoluta, per poi costringere tutti gli altri a guardarmi allo stesso modo.
Mi avete insegnata, spiegata, i più grandi tra coloro che chiamate filosofi mi hanno studiata, e ognuno ha detto la sua opinione.
Avete combattuto delle guerre solo per la convinzione di avermi come alleata o testimone.

No, non sono nulla di tutto quel che dite.
Nessuno mi possiede quindi tutti mi possiedono.
E’ inutile il vostro fomento, il vostro dito puntato contro qualcun altro che non è voi, vestito diversamente, che adora divinità diverse, che interpreta la vita in una delle sue innumerevoli declinazioni, loro come me: tutte giuste quindi tutte sbagliate.
Odio terribilmente quando mi chiamate, quando mi invocate, quando vi vantate, quando dite di avermi definito sotto ogni singolo aspetto.
Vi detesto soprattutto quando decidete cosa sono e per chi.

Ultimamente lo avete fatto con le donne.
Sì insomma, avete deciso come le donne di tutto il pianeta mi dovrebbero vivere, e non vi siete nemmeno resi conto che facendolo mi avete allontanata da loro.
Mi avete sbandierata a gennaio dello scorso anno, perché era giusto che dei fumettisti potessero disegnare ciò che volevano, oggi mi avete rinnegata perché quegli stessi fumettisti hanno disegnato ciò che volevano.

Vi piaccio solo quando vi fa comodo.
Solo quando non vi si tocca nel profondo, solo quando vivete di eterna superficialità, solo per fare bella figura con gli altri, voi e la vostra faccia pulita scevra da ogni ombra.
Mi legate a frasi sconnesse, a citazioni di altri come voi, mi legate a bandiere, a vessilli e mi portate in trionfo senza accorgervi del nulla che vi accompagna, mi legate a uomini che mi hanno negata per legge, senza rendervi conto delle amenità che pronunciate.
Dite di rispettarmi, ma non mi state nemmeno a sentire.
Siete pieni solo di voi stessi, non di me.

Allora, nel silenzio della vostra indifferenza quasi quasi me ne andrei.
Mi lascerei trasportare dalla tentazione di vedervi sbalorditi alla ricerca di qualcosa che avete perduto.
La straordinaria soddisfazione nel dirvi addio.
Nel prendere commiato e dare le dimissioni da questo mondo nel quale vengo imposta.
Basta, non ci sono più.
Parola di Libertà.

Alessandro Basso

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«JE SUIS CHARLIE» A quasi 10 mesi dalla strage cosa abbiamo dimenticato?

Parigi, 7 gennaio 2015.
Rue Nicolas Appert, numero 10.
Sono le 11.30 del mattino, è in corso la runione di redazione.
Raffiche di arma da fuoco. Silenzio. Morte.
Due uomini armati di AK47 escono dalla redazione, il volto celato da passamontagna.
Scappano in tutta fretta ma incontrano una pattuglia di polizia e poi una seconda.
Altri scontri a fuoco. Ancora Morte.
Riescono di nuovo a fuggire ma poco dopo sono costretti ad abbandonare la macchina a causa di un incidente e si impossessano di un’altra auto
Miracolosamente, nella foga uno dei due perde la propria carta di identità.

Wittgenstein ci insegnava: «su ciò di cui non si può parlare è necessario tacere», e penso che nei giorni successivi all’attentato al giornale satirico francese egli avrebbe ribadito con forza il suo concetto.
Qual è il motivo che ci porta a strumentalizzare così facilmente una strage, a condividerne i video come pazzi sui social, ad alzare anche noi la voce al grido «Je suis Charlie» seguito da un molto meno pacifico «morte ai musulmani»? Perché semplicemente non esprimiamo il nostro cordoglio in silenzio, magari spegnendo televisori, computer e cellulari, meditando singolarmente su quanto accaduto?
Ma com’è che ora “nous sommes tous Charlie”?
Fino a qualche giorno prima, l’irriverenza della redazione aveva dato fastidio a chiunque: destra, sinistra, cattolici, ebrei e musulmani. Certo, a nessuno era venuto in mente di uccidere qualcuno, ma maledizioni, offese e minacce non erano certo mancate – basta pensare alle molotov lanciate contro la sede nel 2011.
Che dire dei giornalisti – e non solo – che di colpo si scoprono amanti della satira?
Che dire della frase che a partire dal 7 gennaio ha avuto tanta fortuna in rete: «non tutti i musulmani sono terroristi, eppure tutti i terroristi sono musulmani»?
Che dire di Mario Borghezio, che ha passeggiato per Milano attaccando copertine di Charlie Hebdo su ogni vetrina di Kebab?

Ma ci siamo chiesti cosa ne pensano loro – i musulmani – del gesto estremo compiuto da queste tre persone (sempre che solo di tre persone si tratti)?
Ecco degli estratti:
Dalil Boubakeur, Presidente del Consiglio Francese per il Culto Musulmano: «Ci inchiniamo davanti a tutte le vittime di questo dramma orribile».
Nabil al-Arabi, Segretario della Lega Araba: «l’Islam è contro ogni violenza».
Mohammed Mraizika, Segretario generale dell’Unione delle moschee di Francia: «Nulla, assolutamente nulla, può giustificare o scusare questo crimine».
A loro si aggiungono Tareq Oubrou, Rettore della moschea di Bordeaux, e l’Imam della stessa città, che invitano i musulmani tutti a partecipare alle manifestazioni per «esprimere il loro disgusto».

Tirando le somme, è fin troppo facile cadere in semplicismi o anche solo farsi trascinare dalla corrente, ma in questi momenti più che mai è necessario riflettere in modo “filosofico” (che non a caso in queste situazioni può essere sinonimo di “ragionevole”) ed analizzare in modo razionale la questione.
Non si può negare che il tragico atto sia stato “negativo” – almeno in quanto è stata fatta e subita violenza in modo oggettivo-razionalista, uscendo quindi da un’ottica etico-moralista. Ora, l’indagine filosofica di L.V. Tarca (ad esempio nell’opera “La filosofia come stile di vita”) ci insegna che negare una negazione significa riprodurla, dato che in ogni caso nego qualcosa, anche se quel qualcosa si tratta a sua volta di una negazione.
Nell’atto pratico, proporre una “soluzione” che sia in qualche modo “negativa”, almeno nella misura in cui si contrappone/opera violenza, non può essere una soluzione.
Testimonianza di ciò possono essere le reazioni del mondo arabo di fronte alla pubblicazione del nuovo numero di Charlie Hebdo, volutamente provocatorio. Come afferma l’Huffington Post: «Dal Pakistan all’Algeria, fino alla Giordania e alla Siria è un venerdì della collera quello che si è celebrato nel mondo arabo. Sotto accusa sono le nuove vignette su Maometto pubblicate dal settimanale satirico francese Charlie Hebdo».
Le manifestazioni più violente si sono registrate in Pakistan, dove la polizia ha dovuto intervenire con i lacrimogeni; in Iran, a Gaza e soprattutto in Niger, dove sono state incendiate quarantacinque chiese, cinque hotels, trentasei ristoranti, un orfanotrofio, una scuola e un centro di cultura francese. (Fonte: Internazionale).

Come si può, quindi, rispondere in maniera positiva – nel senso del “puro positivo”, cioè quell’azione che differisce dalla negazione senza però riprodurla e quindi seguendo la teoria della “pura differenza? Un suggerimento di risposta ci può essere dato – paradossalmente? – da Izzed Elzir, Presidente dell’Unione delle Comunità Islamiche italiane (UCOII) e Imam di Firenze: «il mio invito, adesso, di fronte a questo estremismo ed a questo terrorismo, è di rafforzare le energie per aumentare il dialogo ed il confronto».

  1. Severino, nella sua opera “Capitalismo senza futuro”, e gli articoli presenti del testo “Primum Philosophari”, a cura di L. V. Tarca e Laura Candiotto, ci mostrano come un’azione che voglia essere coerente con se medesima non può prescindere dall’analisi di mezzo e scopo: essi devono coincidere. Non si può ottenere un certo risultato se le nostre azioni si discostano da esso. D’altronde ciò ci era già stato mostrato ed insegnato da Gandhi: per ottenere la non-violenza è necessario sì predicarla ma soprattutto metterla in pratica.
    Ecco quindi il puro positivo: cercare il dialogo con chi ci ha “violentato”, perché altrimenti riprodurremo l’azione che abbiamo subito: combattendo la guerra faccio comunque guerra, combattendo un violento opero comunque violentemente, combattendo un ingiusto riproduco l’ingiustizia.

«L’omofobia, la xenofobia ed il razzismo NON sono satira. Anzitutto perché la satira ha come bersaglio il potere e, in generale, i carnefici, non le vittime. In secondo luogo, gay, neri, uomini con gli occhi a mandorla ecc… si nasce. Non è qualcosa che puoi scegliere. Credere o meno in una divinità, invece, è una scelta. In terzo luogo, il razzismo in Italia è reato (legge 654/1975) e la legge è il limite della libertà di espressione».

Questa la risposta di un navigatore della rete alla prospettiva di un ideale giornale satirico “Salvini League” dai toni xenofobi, omofobi ecc ipotizzato da un altro marinaio in risposta all’articolo apparso su Wired il 09/01/2015 intitolato “L’Italia senza satira e la strage di Charlie Hebdo” redatto da Marco Rizzo.

Ho evidenziato subito quale sia secondo me uno dei punti fondamentali dell’enorme minestrone di idee che ha iniziato la sua lenta cottura a seguito del terribile fatto del 7 Gennaio.
La legge è il limite della libertà di espressione, o, modificando leggermente la formula: il potere è il limite della libertà di espressione. Sembra una cosa da nulla – quasi scontata oserei dire – ma invece a mio modo di vedere è uno dei nodi nevralgici della questione.
Alla domanda: «Ti è consentito proporre teorie ed analizzare cause e conseguenze di ogni fatto?»; tu cosa rispondi?

Sì, ci verrebbe da dire, l’Occidente si vanta da secoli della libertà che scorre nelle sue vene, quasi traesse il suo sostentamento dalle idee delle persone e non dai finanziamenti alle guerre che gli fanno comodo o dai massacri di massa in nome di un altro liquido di colore nero ben più proteico della parola “libertà”.

Nei fatti la risposta è un secco e categorico «NO».

Ormai non ci è più nemmeno consentito chi/cosa piangere. Il filtro delle notizie non è in mano nostra, ma ci precede. E così è naturale che “siamo tutti Charlie” mentre in Nigeria, il giorno seguente all’attacco al giornale satirico francese, Boko Haram ed i suoi soldati compivano la loro più grande strage senza che la cosa ci toccasse minimamente; e qui si temono duemila vittime: donne, uomini e bambini che non avevano offeso nessun profeta.
Un esempio di come la libertà di pensiero abbia vita breve è il semplice titolo di un articolo apparso su “Le Figaro” – giornale conservatore parigino – in segiuto alla strage: «La théorie du complot est l’arme politique du faible », cioè: «la teoria del complotto è l’arma politica del debole». Non voglio entrare nel merito della questione complottista, ma, alla notizia che ciò che ha permesso l’identificazione e quindi successivamente la cattura (in questo caso purtroppo l’uccisione) dei presunti attentatori è stata la perdita delle carte di identità da parte di questi ultimi nella macchina con la quale stavano fuggendo, a me qualche dubbio sulla “versione ufficiale” era sorto.
(Per un approfondimento psicologico sulla questione può essere interessante l’analisi di Nadine Eggimann, psicologa dell’Accademia militare del Politecnico federale di Zurigo, anche se a mio modo di vedere è alquanto semplicistico).

Un altro bell’esempio del lavaggio di cervello mediatico è quello messo alla luce dal progetto “Tra le righe” di Venezia: «Il giorno dopo l’attacco alla redazione di Charlie Hebdo, i nostri giornali ci offrono una carrellata di eloquenti prime pagine. Nulla di nuovo. Come era prevedibile, questa tragica vicenda ha portato anche i media a scadere in una facile generalizzazione. “Macellai islamici”, “Strage islamica contro la libertà”, queste sono alcune delle prime pagine che ci propone la stampa nazionale».

Cos’è, quindi, che abbiamo dimenticato?
Ci siamo dimenticati di indignarci. Non tanto per il fatto in sé, sfido chiunque a non condannare l’attentato, quanto piuttosto per come abbiamo reagito.
Il pensiero e la ragione sono i nostri più grandi alleati dato che anche in catene siamo – potenzialmente – massimamente liberi. Nostro diritto, e dovere, è quello di ragionare, di reagire agli stimoli in maniera ponderata, di non farci dominare dai sentimenti o da ciò che viene espresso dagli altri.

Massimiliano Mattiuzzo

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Io non sono Charlie

Io non sono Charlie. Non lo sono, banalmente, perché non mi occupo di satira. Non lo sono perché non apprezzo quel tipo di satira che a volte trovo troppo “spinta”, in certi casi offensiva. A volte l’irriverenza sfocia in insulto. Io non sono Charlie perché chi, qualche volta, ha deciso di censurare un mio articolo, non lo ha fatto con un fucile. Io non sono Charlie, ma dal basso del mio piccolo mondo giornalistico posso dire che la libertà di stampa non esiste. Che la libertà di espressione è solo uno slogan politico. Io non sono Charlie perché i miei articoli non sono stati censurati da terroristi internazionali, ma da politichetti più o meno locali ispirati da una megalomania che ad osservarli bene sfiora il ridicolo. Io non sono Charlie ma condivido con i colleghi della rivista francese la stessa passione per l’informazione e lo stesso impeto per la libertà d’espressione. Non c’è bisogno di essere tutti Charlie per considerare disumano quanto accaduto l’11 gennaio in Francia; di essere tutti spagnoli per piangere le vittime dell’11 marzo 2004; di essere tutti americani per non dimenticare l’11 settembre 2001. C’è bisogno di difendere la libertà di pensiero, di espressione, di stampa, di religione, tutti i giorni, nella quotidianità, ciascuno di noi, per non alimentare l’intolleranza e gli estremismi. Bisogna avere il coraggio di difendere la Libertà sempre, a qualunque costo, senza compromessi, paradossalmente con lo stesso coraggio e la stessa convinzione di quelli che sono pronti al martirio pur di affermare le loro certezze. E per farlo non occorre farsi esplodere sulla piazza del mercato o imbracciare un kalashnikov. Anzi, questa è proprio una negazione della libertà. Per farlo davvero, occorre essere davvero liberi. Dagli inganni della mente, dall’ipocrisia e dalla schiavitù del denaro.

Elisa Giraud

39 anni di Treviso, giornalista.

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L’Islam intorno a me

I recenti fatti accaduti a Parigi hanno portato in primo piano un unico argomento: l’Islam.

La rete web, i canali social, le testate giornalistiche stesse hanno sottolineato quanto sia “cattivo” l’Islam e quanto sia “buono” tutto ciò che non è Islam.

Nessuna informazione potrebbe essere più sbagliata.

Se il terrorismo è da condannare a prescindere, senza conoscere nemmeno la giustificazione (se mai ne possa esistere una) che sta alla base di questi gesti estremi, l’Islam no. Non si può e non si deve condannare a prescindere.

Ormai sono circa due anni che frequento il mondo arabo. Due anni in cui mi sono resa conto che tutto l’astio che si prova verso l’Islam è assolutamente ingiustificato, ma capibile. Capibile perché le informazioni che arrivano in Italia sono spesso distorte e molto confuse.

L’Islam non è una religione “cattiva”. Anzi. L’Islam è una religione basata su principi che chiedono al fedele di vivere la propria vita in nome della fede, della carità e della pietà.

Nella vita quotidiana di un musulmano dovrebbe esserci molta carità. Le opere di bene dovrebbero essere all’ordine del giorno.

La tolleranza un concetto non sconosciuto.

E così è per la maggior parte dei musulmani. Quel condizionale usato poco fa si riferisce invece a quella ristretta ma purtroppo potente minoranza che invece in nome di Allah uccide.

Non voglio entrare in questioni politiche. Non sono un’esperta di politica e finirei per aggiungere ulteriori informazioni sbagliate alla lunga lista già esistente.

Preferisco scrivere chi è per me il musulmano, dopo questi primi due anni di incontri.

Musulmana è quell’amica che mi ha aiutato ad ambientarmi quando ancora non conoscevo niente e nessuno qui a Doha.

Musulmano è colui che ha aperto le porte della proprio religione e mi ha spiegato tanti perché e per come che io completamente ignoravo.

Musulmano è colui che nel suo piccolo cerca di combattere la povertà. Aiuta il prossimo, poco importa di che religione sia.

Musulmano è chi accetta anche le mie tradizioni. Mi chiede del Natale e mi augura Buona Pasqua.

Musulmani sono le mie amiche, con cui uscire, con cui chiacchierare, con cui divertirmi.

Le differenze tra le culture sono tante. Non posso nasconderlo.

Ma personalmente credo che questi confronti mi arricchiscano invece che pregiudicare la mia libertà.

Musulmani, infine, sono tutti colori che inorridiscono come noi, soffrono come noi, si rattristano come noi, si rammaricano come noi quando, in nome della loro religione, uomini, donne e bambini perdono la vita.

Ecco, è così che io voglio vedere l’Islam. E sono fermamente convinta che tutti coloro che uccidono in nome di una religione sono gli unici a non aver capito nulla della religione stessa.

Chiara Amodeo

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