Fatalità (o forse no) del destino umano: tra racconti e poesia

Una roccia stanziata in mezzo al mare e battuta dal vento: questa la visione del rapporto tra essere umano e destino che Cesare Pavese ci racconta attraverso i Dialoghi con Leucò.

«Oh Saffo, non è questo il sorridere. Sorridere è vivere come un’onda o una foglia, accettando la sorte. È morire a una forma e rinascere a un’altra. È accettare, accettare, se stesse e il destino» scrive Pavese. Lumano è la roccia lambita dalla schiuma salmastra e il destino la tempesta che si impone; una tempesta a cui possiamo solo prostrarci, e sorridere. Nel linguaggio della ninfa Britomarti l’azione di sorridere rinnova il suo significato estendendosi a riassumere un potente insegnamento: che il Destino ci guidi mano per mano lungo le sue geometrie esistenziali, dice la ninfa; smarriti in vite vorticose di cambiamenti imprevisti e fortuna altalenante, è giusto e lecito tirare passi indietro e proteggersi dietro confini conosciuti. Incassa dunque la testa fra le spalle, caro umano, e precludi quanto puoi lo scontro con l’avvenire!

La filosofia di Britomarti può apparirci allettante, ma nasconde un rischio sul quale è opportuno che ci soffermiamo. Cosa implica infatti l’atto di sorridere se non il consumarsi di ogni aspirazione? Sorrido: lascio che gli eventi mi sovrastino, senza gioire né soffrire, ma accettandoli passivamente; e proprio per accettare a priori quello che sarà rinuncio necessariamente a proiettarmi nel futuro e a spaziare con l’immaginazione tra progetti ancora vaghi e sogni inespressi, tra infinite strade aperte e traiettorie esistenziali impossibilmente contorte. Sorridere, da che richiamava una forma di altero stoicismo o di invito al carpe diem, viene piuttosto a coincidere con un indebolimento dell’intraprendenza e delle altre risorse che il fato (o il caso?) è in grado di accendere proprio attraverso le situazioni nuove che ci pone di fronte.

Ciononostante l’imprevisto continua a incombere minaccioso, spaventandoci: siamo ancora convinti delle parole della ninfa e pronti a ignorare ogni avvertenza per sorridere finalmente al Destino… ma un’altra voce si leva, opponendosi alle parole rassegnate dello scrittore torinese: «we must lift the sail And catch the winds of destiny Wherever they drive the boat…». Siamo noi il nostro stesso avvenire, esclama George Gray in Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, siamo noi i marinai di noi stessi. Britomarti mentiva: non siamo rocce dominate dal mare, ma barche vive e forti che lo possono valicare. Il fato è un affaraccio vischioso che può investirci e buttare a terra, ma anche (possibile che il fato sia due cose in una?, che sia contemporaneamente lama e manico?) sostanza modellabile che possiamo e dobbiamo plasmare per dare un senso alle nostre vite, trasformandole da sforzo di sopravvivenza a vita di fatto.

Il destino come barca ai nostri comandi: questo forse è quel voto all’edonismo che avevamo scambiato erroneamente con la filosofia di Britomarti?

Identificando il fato con una barca, Gray ci incita a lanciarci e a convivere con la paura di cadere, smuovendoci a vivere; e ci invia a sua volta una barchetta, o meglio ancora un messaggio in bottiglia attraverso il tempo: non fingerti uno scoglietto nel porto; sei tu la tua barca, e non potrei perdonarti che la lasciassi attaccata a riva, e la coprissi magari con delle panciere di lana e facessi prender polvere alla sua bella vernice per paura che il mare la scrosti.

Cosa fare quando abbiamo la possibilità di inseguire un’idea ma abbiamo paura di stravolgerci la vita? Quando la protezione che ci assicurano le cose e i volti che conosciamo ci respinge e allo stesso tempo ne siamo attratti, e oscilliamo tra questi e la scelta di un possibile azzardo, di una porta che si chiude e i nostri passi che si allontanano?

Britomarti e George Gray ci offrono due definizioni di destino e con esse due risposte. Possiamo concepire il destino come forza di cui subire la volontà, e decidere di rischiare il meno possibile proteggendoci nella nostra comfort-zone; oppure possiamo far coincidere il nostro destino con noi stessi: non c’è alcuna forza trascendente, non c’è alcunché cui sorridere, esistiamo solo noi con la nostra lunga gavetta di marinai davanti – noi che spesso ci lamentiamo delle cose troppo più grandi di noi, che sospiriamo davanti a realtà che non possiamo cambiare – il disastro ambientale, le disuguaglianze, la politica, la crisi economica, ma che non ci accorgiamo di avere un immenso potere tra le mani: la facoltà di inventare e realizzare la nostra storia.

 

Cecilia Volpi

 

 

[immagine tratta da Unsplash]

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Una parola per voi: morte. Novembre 2018

Il due novembre vengono commemorati i defunti. «Per tutti la morte ha uno sguardo», scrive Cesare Pavese, magari quello di un caro estinto che rivediamo riflesso in uno specchio, mentre comunica con noi tacitamente (ascoltiamo «un labbro chiuso» dalla morte). Tutti sappiamo che la morte verrà, non quando o sotto quale veste, ma a volte, nel corso della nostra vita, alcune prove a cui siamo sottoposti sono così dure da portare con sé una visione mortifera. «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi»: la morte può, come per Pavese, assumere le sembianze di un amato che ci ha lasciati. Essa può, tristemente, essere desiderata durante un cupo periodo depressivo, quando pare che la vitale speranza sia vana.

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi-
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

La “parola per voi” di questo mese è morte, o meglio, lo sguardo che essa può avere per noi: cerchiamo, sulla scia di questa poesia di Pavese, gli occhi della morte in un film, in una canzone, in un libro, in un’opera artistica. Morte voluta, combattuta e sconfitta, morte che è sempre con noi, impalpabile ma percepibile, in ogni gesto quotidiano – in quanto memento del nostro essere vivi. A voi la nostra selezione:

LIBRI

chiave-di-sophia-intermittenze-della-morteLe intermittenze della morte  José Saramago

E se la macchina della morte smettesse di funzionare? Così accade allo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre: le persone smettono di morire. Fatto che, lungi dal far acquisire all’uomo la bramata immortalità, porta il Paese al collasso economico, civile e sociale. Tuttavia, la Morte, con la sua falce, non tarderà a tornare con delle lettere per avvertire i predestinati della loro imminente dipartita di lì a sette giorni. Eppure, il meccanismo si inceppa ancora ed una lettera non viene recapitata al destinatario, cosa che obbligherà la Morte a prendere misure straordinarie.

chiave-di-sophia-cento-poesie-damoreCento poesie d’amore a Ladyhawke – Michele Mari

«Verrà la morte e avrà i miei occhi/ ma dentro/ ci troverà i tuoi»: si legge così sulla copertina di Cento poesie d’amore a Ladyhawke, esordio poetico colto, citazionistico e sentimentale di Michele Mari, «l’ultimo dei romantici» che, riscrivendo il celebre verso di Cesare Pavese, travolge il lettore tra le strazianti e frizzanti pagine di un amore edenico e remotissimo, «in un tempo/ così lontano che non sembra stato» quando il poeta e la sua musa si dondolavano «su un’altalena sola». Un amore platonico iniziato tra i banchi di scuola, «in un punto della Death Valley/chiamato liceo», rimasto sul fragile punto di equilibrio tra potenzialità e realtà, rilegato al limbo delle cose sospese per non esporlo al rischio di un fallimento o della felicità. Un amore stendhalianamente cristallizzato e tacitamente vissuto come «un trapano tremendo» e custodito segretamente per trent’anni, poi esternato, mai consumato, e svanito: «fedeli al duro accordo/ non ci cerchiamo più».

FILM

departures la chiave di sophiaDepartures  Yojiro Takita
Sono pochi i film che negli ultimi anni hanno messo in scena il tema della morte con l’eleganza e l’umanità di Departures, opera che nel 2009 è valsa al regista giapponese Yojiro Takita l’Oscar per il Miglior lungometraggio in lingua straniera. Il titolo originale del film ne spiega in gran parte il senso: Okuribito, in giapponese, è infatti la persona che accompagna qualcuno alla partenza. La morte viene qui riletta come un viaggio che simboleggia il capolinea di un’esistenza terrena ma al tempo stesso segna l’inizio di un nuovo percorso spirituale inaugurato dal rituale del nokanshi, tradizione nipponica che serve a dare l’estremo saluto alla persona defunta. La pulizia del corpo, il trucco sul viso e la vestizione sono le ultime simboliche carezze fatte alla persona cara prima di lasciarla andar via per sempre. A compiere questo delicato rituale è la figura del tantocosmeta. Un lavoro in cui si imbatterà Daigo, ex violoncellista in cerca di un nuovo posto nel mondo. Pensando di venire assunto in un’agenzia di viaggi, finirà per scoprire la struggente umanità insita nel lavoro a contatto con i defunti, arrivando a trovare un nuovo modo per affrontare la vita.

UNA CANZONE

vecchioni la chiave di sophiaVerrà la morte e avrà i tuoi occhi – Roberto Vecchioni

Per anni professore di lettere, Roberto Vecchioni non manca di riconoscere dietro l’immagine della morte cantata da Cesare Pavese il volto del suo ultimo amore, Constance Dowling, l’attrice da lui amata e perduta in America. Come il poeta, anche Vecchioni dà alla morte un volto di donna, un’amante liricizzata che arriva a racchiudere in sé la vita stessa di chi la ama, la canta, la piange. La notte, e la morte che questa rappresenta, viene invocata come rimedio alla fine di un amore, una liberazione che potrà giungere solo quando l’amante abbandonato potrà dimenticare l’amata, rinunciando alle proprie memorie, al proprio amore, e quindi alla propria vita. Proprio per questo, però, seppellire un dolore a lungo cullato è in sé sia morte che rinascita: “Sarò ‘io’, quel giorno che non sarai più niente.”

OPERE D’ARTE

1024px-gustav_klimt la chiave di sophia morte parola per voiVita e morte  Gustav Klimt

La morte, raffigurata sotto forma di uno scheletro avvolto in un lungo mantello di colore scuro, si staglia minacciosa sulla sinistra del dipinto. Essa è sveglia e attenta e, con il suo terribile sguardo rivolto verso un gruppo di persone dormienti, sembra incedere verso di loro con passo lento e funereo. I vivi, avvolti nel sonno e dunque ignari della morte che li sta osservando, sono nudi e indifesi: ciascuno di loro può caderne vittima in qualsiasi momento, indifferentemente dall’età o dal vigore fisico. In quest’opera il grande artista austriaco riesce a condensare l’essenza principale della morte, ovvero la sua costante presenza al nostro fianco, rimarcando nell’immagine la sua netta contrapposizione alla vita, della quale, però, è non solo la fine inevitabile e necessaria, ma anzi un suo momento imprescindibile.

death-dancing-chiave-di-sophiaDeath Dancing – Simberg

Enigmatica, altra, e simbolista, Death Dancing di Hugo Simberg, sembra riecheggiare a colori il verso campiano del Diario Bizantino «Due mondi – e io vengo dall’altro». Se il simbolo a differenza dell’allegoria procede dal concreto all’astratto, quest’opera non è poi così connessa alla tematica della morte, almeno non in senso funebre: a me pare piuttosto un’allegoria della vita, una sorta di danza in maschera, di passo a due sull’altalena della vita, come si nota dal trasporto con cui il mantello rosso vivo della morte – tradizionalmente rappresentata in nero ‒ abbraccia la giovane fanciulla sgambettante e dalla chioma fluttuante nel vento. La danza è in sintonia cromatica con lo sfondo sebbene vi sia un separé che può essere inteso in modo più forte, come l’impossibilità di vivere materialmente in eterno, oppure in modo poetico, come una sorta di tango puerile in riva al mare.

 

Al prossimo mese, con la prossima parola.

 

Francesca Plesnizer, Sonia Cominassi, Rossella Farnese, Alvise Wollner, Giacomo Mininni, Luca Sperandio

[Photo credit Jerry Kiesewetter su Unsplash.com]

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La risposta alla domanda sulla vita, l’universo e Tutto Quanto

<p>https://metismagazine.com/2017/02/03/niente-panico-questa-e-una-semplice-guida-galattica-per-gli-autostoppisti/</p>

In un corso di laurea in filosofia prima o poi sorge, quasi inevitabilmente, quella domanda. LA domanda, per essere più chiari, il fatto di riuscire a dire tutto attraverso una risposta definitiva alla domanda per eccellenza per l’essere umano: qual è il senso della vita?

La tradizione metafisica occidentale, in fondo, al di là del linguaggio e delle proposizioni dogmatiche, ha sempre ricercato un fondamento di tale portata. Giungere alla formulazione ultima, giungere all’Assoluto immutabile e indiveniente, all’unità delle cose, la totalità dell’essere racchiusa, compressa e catturata dall’umano. Il dibattito filosofico cerca di porre le giuste domande come sottolinea Enrico Berti in In principio era la meraviglia (Laterza 2007) quali l’interrogarsi sull’origine delle cose, chi sia l’uomo, come possiamo raggiungere la felicità.

Il filo conduttore è thauma, l’angosciante stupore posto e riproposto più volte come causa scatenante della filosofia, la tensione dialettica tra fascino e turbamento provocata dalla destabilizzante indeterminatezza delle cose, le quali spianano la strada alla domanda più che a delle risposte. Nascono gli interrogativi sulle questioni – irrisolte – dell’esistenza umana. Attraverso il percorso ripetutamente scettico si può capire come tutto si risolva in una tendenza, o meglio una tensione verso un orizzonte più ampio, un orizzonte di senso. Ivi si eleva una domanda più importante, capace di racchiudere al suo interno il motivo della genesi di tutte le altre. La domanda sul senso ci fa ricordare di essere umani, di come a differenza dell’animale cognitivizziamo il nostro vissuto, le esperienze che facciamo significandole.

La deriva filosofica e metafisica, però, conduce ad un risultato altro rispetto al singolo gioco filosofico del domandare e dell’indagare pur permeati di indeterminatezza. Proprio questo grado di incertezza, di incapacità di risoluzione abbatte l’esperienza del pensare ludico e si proietta verso uno stato d’angoscia dato da una mancata realizzazione di sé. Timore e tremore davanti alla totalità della propria esistenza irrisolta, senza risposte a sempre più interrogativi. La questione del senso riesce così a spezzare il sentimento di stupore, pur nascendo proprio da esso, proprio per una cambio di rotta, una pretesa nata dalla weberiana razionalizzazione del mondo, dalla trasposizione logica degli enti e delle cose sensibili.

In sintesi si giunge ad una richiesta, ad un supplicare una risposta da qualcuno o da qualcosa. Pavese ne Il mestiere di vivere scrive

«Qualcuno ci ha forse promesso qualcosa? Dunque perché aspettiamo?1».

Dall’attesa – piacevolmente – indeterminata si è passati ad una pretesa razionale al fine di cognitivizzare anche quest’ultima cosa. Difatti sarebbe l’ultimo dato per l’abbattimento della logica probabilistica, delle scommesse pascaliane per consegnarci alla perfezione del calcolo, per realizzare la più grande e completa tassonomia conosciuta, assolutamente priva di difetti e mancanze. L’eco dell’argomento ontologico di Anselmo d’Aosta nel Proslogion, ove vi è l’intento di dimostrare razionalmente l’esistenza di Dio come ente sopra ogni altro ente, come id quo maius cogitari nequit (ciò di cui non si può pensare il maggiore), si ripresenta confermando le intenzioni e volontà della metafisica occidentale.

Lo sviluppo della tecnica da parte dell’uomo – anche se ultimamente si potrebbe parlare della tecnica che si occupa dello sviluppo umano – porta con sé, in modo più o meno velato, questo obiettivo. Attraverso lo strumento tecnico, anzi fin dal primo utilizzato quale un arnese per arrivare ad un dato oggetto, si instaura un senso teleologico, ovverosia finalistico. Agire per, usare uno strumento per, la finalità si propone come nostra dominatrice, il mezzo usato per arrivare ad un determinato fine diventa il fine stesso come ricordato più volte dai critici della tecnica come Galimberti.

Lo sviluppo, dunque, è impregnato di questa malafede, di un spostamento del focus dallo sviluppo come possibilità e come ricchezza immateriale dell’umano ad una logica capitalistica dello sviluppo per lo sviluppo in virtù di una meta progressista presentata al pubblico, illusoria nella sua trasposizione secondo la prospettiva del benessere come fine. Il fine è il mezzo stesso e diviene sempre più insensata quella ricerca di senso che perde di vista i valori, il proprio stare che cerca di consolarsi da solo attraverso la tendenza alla perfezione (irraggiungibile, spero), perché una volta perfetti avremo attuato l’ultima follia del nichilistico problem solving, del risolvere per il puro gusto del risolvere e dell’archiviare l’ennesima risposta all’ennesimo quesito.

La verità è che in tutto questo non v’è emozione, non vi è quella sensibilità propriamente umana che può vedere il senso della vita in un volto, in un solo attimo, in una frazione di secondo come per il protagonista del romanzo Le notti bianche di Dostoevskij. La corsa sfrenata al senso porta irrimediabilmente al non-senso, a  scontrarci con l’incapacità, con la nostra imperfezione data da ogni risposta mai completamente soddisfacente. Forse abbiamo perso proprio il senso filosofico del domandare, forse abbiamo smesso di porci domande e di farle scivolare via come fumo nel vento.

In questo modo potremmo scoprire che la risposta che tanto vogliamo, la risposta definitiva, la risposta alla domanda fondamentale sulla vita, l’universo e Tutto Quanto potrebbe essere una sola, come ad esempio 422.

(perché non abbiamo mai saputo quale fosse la domanda)

 

Alvise Gasparini 

 

NOTE
1 C. PAVESE, Il mestiere di vivere, Einaudi, Torino, 1974
2 D. ADAMS, Guida galattica per gli autostoppisti, Mondadori, Milano, 2017, p. 193.

 

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Libri selezionati per voi: luglio 2017!

L’estate è entrata nel vivo: l’afa e il caldo torrido in città si fanno sentire mentre lungo le coste della nostra penisola alcuni di voi si staranno deliziando con il venticello fresco che arriva dal mare. Per chi è in vacanza o per chi non ci può andare, il nostro suggerimento è sempre lo stesso: un buon libro non può mai mancare! Non importa se lo leggerete tutto d’un fiato o se lo lascerete impolverarsi sopra al comodino senza riuscire a proseguire oltre la quinta pagina. Parafrasando l’insegnamento di Pennac, ogni lettore può relazionarsi con la lettura come meglio crede, e nulla gli vieta di cambiare libro con la stessa frequenza con cui ci si cambia i vestiti. Ecco perché la nostra selezione mensile vuole essere ampia e variegata, per accontentare tutti e per suggerire sempre qualcosa di nuovo.

 

ROMANZI CONTEMPORANEI

il-bacio-piu-breve-della-storia-la-chiave-di-sophiaIl bacio più breve della storia – Mathias Malzieu

Parigi, Théȃtre du Renard. Sotto le note di It’s Now or Never si consuma il bacio più breve della storia. Un minuscolo bacio tra una misteriosa e sfuggente ragazza e un inventore. Così minuscolo che lei scompare. Solo un inventore può ritrovare una ragazza invisibile, creando strambi artifici e cucinando amorbaci. Tuttavia, gli artifici non bastano per vivere un amore fino in fondo, servono temerarietà e coraggio.

 

 

2571_romanzodinostradamus-la-chiave-di-sophia L’uomo che leggeva le stelle. Il romanzo di Nostradamus – Dominique e Jérôme Nobécourt

Un romanzo affascinante che svela l’uomo Nostradamus dietro la leggenda, le aspirazioni, gli amori e le relazioni con i potenti del suo tempo. Egli è il custode di un oscuro segreto, una missione celata nel suo stesso nome. Un dono che si manifesterà in tutta la sua potenza tra persecutori di eretici, tradimenti, gelosie e meschinità.

 

 

UN CLASSICO

la-casa-in-collina-la-chiave-di-sophia La casa in collina – Cesare Pavese, 1948

Lucida narrazione della Resistenza italiana, La casa in collina narra la vicenda di Corrado, insegnante di scuola media che si ritira sulle colline del torinese per sfuggire alle crudeltà della guerra. Qui incontra Cate, partigiana tenace, ragazza-madre verso la quale nutre un profondo sentimento. I due protagonisti condividono ansie e paure di un presente incerto, trovandosi ad affrontare situazioni agghiaccianti, dove il confine tra vita e morte risulta precario. La guerra non risparmia nessuno, “ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto assomiglia a chi resta e gliene chiede ragione”. Toccante romanzo della metà degli anni ‘50, La casa in collina affronta una complessa vastità di tematiche: dal rapporto città-campagna alla riflessione sulle azioni umane, sul conflitto tra uomo e storia e sulle responsabilità di una guerra devastante. Consigliato a tutti coloro che amano le narrazioni incentrate su nodi crociali della nostra storia, il romanzo offre il punto di vista dell’uomo comune che talvolta si trova, suo malgrado, ad affrontare eventi che lo sovrastano e lo rendono impotente.

 

SAGGISTICA

parole-al-potere-la-chiave-di-sophia Parole al potere – Gabriele Pedullà (a cura di)

Se vi interessa la storia e se siete incuriositi dalle voci che provengono dal passato, non potete non dare un’occhiata al voluminoso libro curato da Gabriele Pedullà, docente universitario e scrittore. Parole al potere è una raccolta di discorsi politici pronunciati o scritti da importanti personalità che hanno fatto la storia del nostro paese. Da Giuseppe Garibaldi a Giovanni Pascoli, da Giacomo Matteotti a Mussolini, da Alcide De Gasperi a Sandro Pertini, per arrivare alla contemporaneità con Silvio Berlusconi. Le diverse voci sono introdotte di volta in volta con un commento dell’autore, il quale non manca (e a questo proposito si veda il completo saggio introduttivo) di riflettere sulle diverse modalità con le quali i politici si relazionano con il popolo e i cittadini.

 

JUNIOR

skellig-la-chiave-di-sophia Skellig – David Almond

Un classico tra i libri per ragazzi, zeppo di mistero ed avventura. Il racconto si svolge per lo più intorno al giardino delle nuova casa in cui Michael si è trasferito con la famiglia. Malgrado il divieto del padre, Michael si introduce nel pericolante garage di casa, dove, tra ragnatele e sporcizie varie troverà una riluttante e scontrosa creatura. Questa strana presenza diventerà il segreto del ragazzo: la sola a venirne a conoscenza sarà Mina, la nuova vicina di casa… Una storia per ragazzi curiosi, dai 10 ai 12 anni all’incirca.

 

SPECIALE RIVISTA #3

cover-3-rivista-la-chiave-di-sophia_viaggio Oltre i confini del viaggio

Dato che anche noi de La Chiave di Sophia stiamo muovendo i nostri primi passi nel mondo dell’editoria, per la vostra estate vi proponiamo la lettura del terzo numero della nostra rivista cartacea, dedicato al tema del viaggio. Perché abbiamo scelto questo argomento? Quando in redazione ci siamo confrontati sulle varie tematiche che potevamo affrontare, quella del viaggio ci ha stimolati particolarmente! Nello specifico ci interessava indagare le varie espressioni del fenomeno: si può viaggiare per lavoro, per svago e divertimento; per conoscere il mondo, la sua gente e le sue culture; per immergersi nella natura incontaminata o nel caos delle metropoli più popolate; infine, si può viaggiare per conoscere meglio se stessi. L’obiettivo del nostro dossier tematico è dunque quello di suggerirvi qualche spunto di riflessione per capire che cosa desiderate quando viaggiate o che cosa cercate quando scegliete le vostre destinazioni. La nostra rivista è stampata e disponibile per voi.

…dunque non ci resta che augurarvi delle buone letture e delle buone vacanze!

 

Sonia Cominassi, Anna Tieppo, Federica Bonisiol

[Immagini tratte da Google Immagini]

 

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Verso ‘I mari del sud’

“I mari del sud” è la poesia di apertura della raccolta “Lavorare stanca”, pubblicata per la prima volta nel 1936 da Solaria. Essa condensa e intensifica l’intera produzione poetica della raccolta, la quale, come ben mostra Vittorio Coletti[1], è senza precedenti ed in assoluta controtendenza nel panorama letterario italiano. Con “I mari del sud” nasce la poesia-racconto: 102 versi liberi, attentamente scanditi dal serrato ritmo degli accenti, presentano una narrazione ricca di discorsi diretti, aneddoti, flashback. Ma procediamo con ordine.

Nell’appendice alla raccolta l’autore scrive a proposito dell’interpretazione delle sue opere, negando di aver voluto inserire concetti astratti nei suoi componimenti, senza tuttavia negare che essi si possano trovare.[2] In sostanza, il fatto che Pavese non voglia dire nulla più di ciò che è scritto, non significa che non dica di più; anzi, è proprio in questa volontà di non dire altro che dobbiamo addentrarci per cogliere il senso di un dire essenziale. Questo può essere fatto solo mettendosi in ascolto del linguaggio della poesia.

«Camminiamo una sera sul fianco di un colle»

Qui vogliamo muoverci “Verso il luogo” della poesia di Cesare Pavese. Verso il luogo vorrebbe tradurre il termine tedesco Erörterung [Discussione], ben caro ad Heidegger, il quale evidenzia la presenza di Ort [Luogo] all’interno del termine: «Erörtern vuol dire qui per prima cosa: indicare il luogo. E poi significa: osservare il luogo»[3]. L’idea è che la poesia di Pavese debba essere avvicinata, che mettersi in ascolto del suo dire significhi innanzitutto: osservare un luogo. Proprio perché il linguaggio si fa casa dell’essere, è la poesia stessa a indicare, sin dal primo verso, il luogo (geografico) della vicinanza all’origine.

«Camminiamo una sera sul fianco di un colle,
in silenzio.»

La poesia si apre con un verbo che sottintende un “noi”: a camminare sono l’autore ed il cugino. L’atmosfera è fin da subito familiare. L’espressione “una sera” conferisce carattere aneddotico al racconto, molto più di “la sera” o “di sera”, lascia presupporre che fosse una di tante, passate vicino al focolare della propria terra natia. Si intuisce che il colle e la vetta sono componenti del paesaggio delle Langhe, e questo ci viene confermato dal discorso diretto del cugino, nella seconda strofa. Più in generale, l’intera raccolta Lavorare Stanca e la quasi totalità delle opere di Pavese è riferita al luogo della sua origine: l’intero pensiero poetante dell’autore rimanda al proprio Heimat, alla propria terra natia.

«Mio cugino ha parlato stasera»

Nel corso della prima strofa, ricorrono quattro volte termini riferiti al silenzio. La seconda strofa si apre invece all’insegna della parola. Il parlare del cugino è registrato come evento straordinario. Parlerà direttamente altre due volte durante la poesia. Sappiamo però che ciò che leggiamo non coincide con le parole da egli effettivamente pronunciate:

«Tutto questo mi dice e non parla italiano,
ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre
di questo stesso colle, è scabro tanto
che vent’anni di idiomi e di oceani diversi
non gliel’hanno scalfito.»

La questione del dialetto merita un’attenzione particolare. Martin Heidegger ha dedicato un breve saggio al rapporto tra linguaggio e terra natia:

«Linguaggio, detto dal suo vigere ed essenziare, è di volta in volta linguaggio di una terra natia, linguaggio che si risveglia nativamente e parla della dimora della casa dei genitori. Linguaggio è linguaggio come lingua materna.[4]
[…] Il linguaggio, secondo la sua origine essenziale, è dialetto. […] Nel dialetto si radica l’essenza del linguaggio. Si radica in esso anche se il dialetto è la lingua della madre, il proprio della casa, la terra natia. Il dialetto non è solo la lingua della madre, ma al tempo stesso è anzitutto la madre della lingua.[5]»

Il linguaggio inteso come terra natia[6] si fa tesi centrale del pensiero di Heidegger, e al tempo stesso intuizione fondamentale della poesia di Pavese. Al ritorno dalla città, l’autore ritrova le Langhe e il dialetto, come un tutt’uno che viene al linguaggio nel suo poetare.

«Tu che abiti a Torino…»

E’ rimarcata più volte la dicotomia città-paese: all’ombra del tardo crepuscolo sul colle si contrappone la luce del faro di Torino, dove si profitta e si gode per poi tornare alle Langhe che non si perdono. E’ un tema, questo, che accompagna tutta la produzione di Pavese: nonostante egli abbia trascorso tutta la sua vita in città, continua a ricordare le colline infantili di Santo Stefano Belbo, e a renderle luogo prediletto di tutta la sua produzione letteraria. Si fa interessante una possibile lettura parallela a quella che Heidegger dà della poesia di Rilke[7]. Si può infatti senza esercitare particolari forzature leggere il senso della distanza tra paese e città come distanza tra modernità e antenati, e quindi tra tecnica e originalità. La città è il luogo dove l’uomo è posto di fronte al mondo: può e deve dominare le cose. E’ il luogo della maturità, degli studi e soprattutto del lavoro: «si profitta e si gode». In quest’ottica risulta chiara dal titolo della raccolta (Lavorare Stanca) la posizione di Pavese a riguardo: ciò che si aspetta, per tutta una vita, è il ritorno (a dimostrazione di ciò va intesa la posizione conclusiva occupata da La luna e i falò nella cronologia delle opere, che si chiudono pochi mesi prima della morte dell’autore con il ritorno all’infanzia nella Valle del Belbo). Lo scontro tra le due realtà avviene nell’aneddoto riguardo al ritorno in paese del cugino, e al suo tentativo di portarvi i motori. La vita nel paese è antecedente all’opposizione soggetto dominante oggetto dominato conseguente all’attuarsi della tecnica:

«Dovevo sapere / che qui buoi e persone son tutta una razza.»

Infine, il parlare della poesia nomina i ricordi del passato del cugino:

«Solo un ricordo gli è rimasto nel sangue»

«Il nominare non distribuisce nomi, non applica parole, bensì chiama entro la parola. Il nominare chiama. Il chiamare avvicina ciò che chiama»[8]. In questo caso la chiamata è duplice: viene chiamata a noi la chiamata del sogno, si avvicina a noi l’avvicinarsi al poeta dei mari del sud. E’ importante che la poesia si concluda sul tema dell’immaginazione, con la chiamata del ricordo dal luogo della lontananza al luogo dell’origine nel linguaggio. Lo spazio aperto dal linguaggio tra il suo essere vicino e il chiamare da lontano, è l’abisso in cui si fa di casa l’uomo, nel dialetto, nel silenzio, nel ritorno alla terra natia. Questo, appena accennato, è il luogo della poesia di Cesare Pavese.

 Alessandro Storchi

[immagine tratta da Google Immagini]

NOTE

[1] Cfr. Vittorio Coletti, La diversità di Lavorare Stanca in Lavorare Stanca, Torino, Einaudi, 2001
[2] ibidem
[3] Martin Heidegger, Il linguaggio nella poesia, in In cammino verso il linguaggio, Milano, Mursia, 2013, p. 45
[4] Martin Heidegger, Linguaggio e terra natia, ed. it. in “Aut-Aut” 235 (1990), p.3
[5] ivi, p.4
[6] Cfr. ivi, p. 24
[7] Cfr. Martin Heidegger, Perché i poeti? in Sentieri interrotti, Firenze, La Nuova Italia, 1968
[8] Martin Heidegger, Il linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, Milano, Mursia, 2013, p. 34

Fede nella realtà

Cos’è che ogni mattina ci fa svegliare e alzare dal nostro letto? Cos’è che ci manda avanti, giorno dopo giorno, in questo mondo da noi tanto criticato e tanto malvissuto? Interrompete per un attimo le quotidiane critiche e lamentele nei confronti di quanto v’è offerto e che sta tutto attorno a voi. Vi pongo questo invito per farvi comprendere quanto sia assordante la chiacchiera ininterrotta che si viene a creare con le vostre voci, fatte di ‘perché’ che stanno ovunque. “Perché perché perché perché perché… Ho l’impressione che sulla terra sprechiate troppo tempo a chiedervi troppi perché. D’inverno non vedete l’ora che arrivi l’estate. D’estate avete paura che torni l’inverno. Per questo non vi stancate mai di rincorrere il posto dove non siete: dove è sempre estate.”

I vostri sono gli stessi ‘perché’ che cita Novecento, protagonista del film La leggenda del pianista sull’oceano, ovverosia un continuo ciclo di insoddisfazione, di inadeguatezza che spinge l’uomo a domandare senza tregua, a porsi sia fisicamente sia mentalmente in uno stato di moto. Non v’è l’ombra di alcuna possibile quiete in tutto ciò, come non v’è nemmeno il senso di questo nostro movimento nel caso in cui ci soffermassimo a riflettere su di esso. Infatti, posti in tal modo non riusciremmo a rispondere alle mie domande all’inizio del testo, o meglio, il tutto si risolverebbe in un lungo silenzio imbarazzante, ove una risposta vorrebbe poter essere in grado di uscire dalle nostre bocche. Ci ritroveremmo davanti a qualcosa di immenso ed incomprensibile come sa essere il mondo, la realtà che ci circonda. Si tratta di una realtà che non è affatto promettente, non segue forzatamente una logica o una regola che la bilanci tra bene e male, giusto e sbagliato, consegnandoci ad un’esistenza di giudizio e classificazione. Noi lo vorremmo, forse ne siamo anche convinti, ma è un errore fatale che ci fa attendere quel bene che cerchiamo e al quale tendiamo, ma vediamo le cose da una prospettiva offuscata e inadatta. Ebbene siamo così costantemente in movimento tra le nostre indecisioni e insoddisfazioni, tanto da ricadere in una immobilità verso quello che è il nostro fine, credendo questo nostro attendere la quiete del bene che dobbiamo raggiungere, o che comunque raggiungerà noi. Capovolgendo, dunque, la nostra condizione arriviamo alla risposta data dall’affermazione di Cesare Pavese “Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?”.

Questa realtà non ci ha difatti promesso nulla, non ci è stato assicurato niente ma noi lo attendiamo lo stesso, rendendoci ciechi di fronte alla vita e alla realtà stessa. Si, alla realtà poiché essa non richiede una fiducia a priori, bensì un atteggiamento di fede che si sviluppi attimo dopo attimo, andando a formare quella che è la nostra via. È il presente che permette la formazione del futuro, un qui ed ora che va a determinare secondo la nostra volontà quello che sarà il nostro avvenire. La meta che scorgeremo non sarà da interpretare come un qualcosa a noi dovuto, qualcosa di predestinato, facente parte di un disegno per noi, bensì il risultato delle nostre azioni, del nostro esserci resi attivi nei confronti della vita. L’attesa, difatti, ci avrebbe consegnato ad un’infinita passività, una speranza teleologica irrealizzabile, proprio perché priva del suo elemento motore, priva di noi come soggetto. È qui che si vede la possibilità che rappresentiamo, il nostro essere soggetti infiniti che danno consequenzialmente l’oggetto e il mondo circostante, un mondo nostro che dobbiamo imparare a vedere e prendercene cura. Un mondo che sarà secondo la nostra visione e in cui dovremo porre la nostra fede, perché vissuto attivamente da noi e solo da noi, rendendolo sempre costantemente la nostra potenza più grande e bella.

Cos’è che mi fa alzare ogni giorno, dunque? Ebbene si tratta della fede che ho nella realtà, ovverosia una realtà che viene vissuta da me e che avrà da offrirmi nient’altro che il risultato di quanto da me fatto o detto. Sarà una realtà mia e di cui mai mi pentirò, anche dopo aver scelto tante vie sbagliate e dolorose, ma che mi porteranno comunque al bene che cerco, e chissà che esso alla fine non risulti essere qualcosa che ho sempre avuto davanti ma che non ho mai voluto veramente vedere.

Alvise Gasparini

[immagine tratta da Google Immagini]