I ritagli del tempo che passa

E’ passato solo un anno e qualche giorno da che è morta la mia gatta, Eva. Eva perché era nera, sinuosa e furba come la compagna di Diabolik; in effetti a modo suo anche lei ne ha combinate di belle, però poi abbiamo scoperto che era anche capace di immensa dolcezza: per esempio, ti bastava dire “Eva!” e guardarla negli occhioni verdi che lei cominciava a fusare.

Sono circa 370 giorni dalla sua morte così inaspettata e già certi ricordi di lei cominciano a sfumare. Ha vissuto con noi per nove cortissimi mesi e ormai ho il terrore costante che, col passare degli anni e delle decadi, finirò col dimenticarmi di aver vissuto del tempo con lei. Per lei sono stata un’amica per tutta la vita, mentre lei rischia di diventare, un giorno, solo una minuscola sbiadita parentesi della mia. Ne ho il terrore perché mi sembra, in un certo senso, un insulto alla sua memoria: abbiamo passato lunghissime giornate a casa da sole, io lei e l’altra gatta, ho vissuto tanti piccoli momenti, esasperanti, dolci e divertenti, che non avrei mai voluto dimenticare – quei momenti che mentre li vivi dici “Non potrei mai dimenticarmi di questo istante” – e invece, alla fine, se ne vanno quasi tutti.

«La vita fugge e non s’arresta un’ora»¹. Da quando ho analizzato questo componimento di Petrarca al liceo non sono più stata capace di cancellare quell’idea, l’idea che la vita stia fuggendo e che ciascuno di noi la stia faticosamente inseguendo, minuto dopo minuto, anno dopo anno. I ricordi sono solo la moneta di scambio dell’implacabile tempo che passa. Non si può nemmeno dire che sia uno scambio equo, dato che questi ricordi (molti di essi, la maggior parte) hanno una scadenza: si depositano silenziosi in anfratti dove non li puoi raggiungere, finché non accade qualcosa, inaspettatamente, casualmente, che diventa come l’odore dei limoni per Montale, apre un’altra dimensione, spalanca certe conche negli abissi della memoria e il ricordo affiora, torna alla mente, «qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza»², un momento di ricchezza che è svanito. Una malinconia (non tristezza, malinconia) che resta. Sono tuttavia occasioni troppo rare perché io possa darmi pace, troppe sono le cose che voglio ricordare.

Per fortuna, un po’ come per i limoni, i ricordi sembrano depositarsi dentro a degli oggetti: quasi fossero frammenti della nostra anima che richiudiamo nelle cose più svariate, concrete o astratte che siano, affinché li custodiscano per noi. Per esempio, per me c’è anche il caffè al ginseng: l’ho sperimentato il primo giorno in cui ho vissuto a Milano perché la mia coinquilina ne aveva sviluppato una sorta di dipendenza, e da allora un po’ anche io; adesso che non viviamo più assieme lo bevo molto meno, ma quando lo faccio penso a lei e al “ging” del dopopranzo o del “ok è tardi abbiamo sonno e dobbiamo ancora finire di lavorare al progetto ma ce la faremo”. Allo stesso modo, L’ombelico del mondo di Jovanotti adesso mi fa ridere mentre penso ai balletti scemi che facevo (con imbarazzo e divertimento) insieme agli altri volontari all’Expo, oppure c’è quel profumo di Lancome che credo assocerò sempre a mia madre, e la “furia buia” del film Dragon trainer alla mia piccola Eva pelosa. Ciascuno di noi ne ha un buon numero, se ci pensiamo bene. Certo, sarà sempre il nostro cervello che metterà in moto il processo di rimembranza, ma a pensarci è un po’ come avere dei nostri ricordi che camminano nel mondo: a volte li incontriamo e tac!, un pensiero risorge, ci fa stare bene e ci fa stare male. Purtroppo resta sempre da decidere se anche quelli abbiano una scadenza, se, cioè, l’oggetto in cui depositiamo il ricordo ad un certo punto non decida di espellerlo, disperdendolo definitivamente.

Del resto, con quale criterio il cervello dovrebbe scegliere i ricordi da eliminare e quelli da mantenere? Non è affatto detto che scelga in base alla loro importanza, altrimenti non dovrei cantare ancora a memoria Barbie girl degli Aqua. Pensiamo anche soltanto a tutto quello che abbiamo imparato del mondo quando eravamo piccoli! Ho da poco conosciuto la figlia di mia cugina, che ha solo cinque mesi ma sta seduta e ha due occhioni azzurri spalancati sul mondo; perché ad osservarla mi rendevo conto con profonda sorpresa che non si tratta solo di imparare a camminare e a parlare, si tratta di tutto quanto, di imparare a mettere in sintonia il nostro corpo con il mondo, cioè con i suoi suoni odori gusti volti superfici rumori colori… Tutte cose che oggi diamo per scontate (spesso niente ci sembra essere abbastanza interessante), e questo proprio perché non ci ricordiamo la magia dello scoprire il mondo pazzesco in cui siamo. Non ricordare il passato a volte ci tradisce nel modo in cui viviamo il nostro presente.

Dicono che in genere usiamo solo una piccola parte del nostro cervello. Questo potrebbe voler dire che i ricordi in realtà dentro ci sono tutti senza che noi ce ne accorgiamo. Magari sono come nodi nel lanoso gomitolo del tempo di Bergson: sono lì tutti in fila, ma è difficile per noi sgranare il rosario ed arrivare al punto giusto, lì dove si trova il ricordo che stiamo inseguendo. E’ dura anche perché il gomitolo, anche se non sembra a vederlo così appallottolato, è molto lungo – di fatto hai una vita che ti passa davanti al contrario – e all’improvviso pensi che ti sembra l’anno scorso che hai fatto la tal cosa e invece sono passati anni. E pure troppi. Allora te ne rendi proprio conto: la vita scappa a gambe levate, e non sta lì ad aspettarti. A volte addirittura ti punisce per la tua pigrizia e non ti lascia dietro nessuna traccia del suo passaggio – o, almeno, non in superficie.

«Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta
il tedio dell’inverno sulle case,
la luce si fa avara – amara l’anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d’oro della solarità».³

Giorgia Favero

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NOTE:
1. Francesco Petrarca, Componimento CCLXXII, in “Canzoniere”;
2. Eugenio Montale, I limoni, in “Ossi di seppia”;
3. Ibidem.

Occhio non vede? Ma il cuore duole. Il ruolo dei messaggi subliminali

Ci sentivamo un tempo schiavi della televisione, oggi forse di uno smartphone: ce lo dicevano ogni giorno a scuola, leggendo i giornali e sbraitando in famiglia. Per anni ci siamo sentiti in colpa per aver tenuto la televisione accesa in sottofondo, mentre giravamo per casa facendo altro, perché sapevamo che qualcosa entrava nella nostra testa, ci pervadeva e ci condizionava. Eppure sembrava farci compagnia, pensavamo di mantenere comunque saldo il nostro potere decisionale, senza subire il condizionamento di pubblicità, opinione pubblica e conduttori persuasivi.

Nel frattempo le ricerche sul funzionamento del cervello diventavano sempre più elaborate e abbiamo iniziato a sentir parlare dei messaggi subliminali: parole, suoni o immagini che non vengono percepiti consciamente, riescono comunque a influenzare il nostro giudizio, gli atteggiamenti e le credenze a livello inconscio. Immagini tratteggiate sullo sfondo che non sappiamo di vedere, suoni con una frequenza sotto la soglia della percezione e tutto ciò che riusciamo a ricondurre a un significato senza rendercene conto, diventa realtà per il cervello  e può sfociare in un’emozione fastidiosa, insinuata  e radiata.

Ci siamo sentiti attaccati nel profondo, nella nostra intimità: nessuno si permetta di toccarci l’anima, la psiche, la mente, il pensiero che desideriamo nostro e di cui speriamo ancora di essere gli unici tutori e amministratori.

I suoni, le immagini e le vibrazioni sonore eccitano i nostri organi di senso e influenzano le nostre percezioni anche quando sono sotto la soglia della consapevolezza. Il messaggio elettrochimico che i neuroni si trasmettono crea una concatenazione di informazioni che parte dall’esterno e arriva direttamente al cervello. Ma se tutte le strada portano al cervello, che percorso fanno queste informazioni in entrata? La strada non esiste già dentro di noi e la responsabilità di ciò che arriva – anche in modo subliminale – è in parte nostra.

Quando infatti esercitiamo il nostro pensiero e siamo immersi nella vita quotidiana, creiamo dei sentieri, delle tracce che anche le informazioni future potranno percorrere, andando a rinforzare e tracciare al meglio quel determinato percorso. Un messaggio subliminale trova quindi dei varchi nelle nostre abitudini e le va a consolidare, crea una via neuronale specifica e diretta alle nostre credenze più sensibili. Non sono dunque messaggi a cui siamo totalmente vulnerabili, ma diventano incontrollabili anche dalle tendenze che ogni giorno esercitiamo con i nostri pensieri.

La forza della ripetizione di un pensiero crea abitudini e automatismi, piccole fessure su cui va a insediarsi il contenuto inconsapevole di una vignetta, di un motivetto e di un’immagine pregnante.

Per massimizzare l’effetto di questo fenomeno, non si possono usare le buone maniere, il cervello non usa il bon ton: preferisce gli eccessi, la volgarità, omicidi, suicidi, violenze sessuali, catastrofi naturali e tutte quelle notizie che ormai abbiamo assorbito e registrato come “normali”. Queste notizie sono però “negative” e stressanti, pur non essendo riferite a noi in prima persona, hanno un impatto sul nostro modo di percepire il contenuto della notizia.

Quando ci immergiamo in una situazione che il cervello registra come minacciosa, reale o implicita che sia, aumenta l’attività del sistema simpatico e dell’ippocampo, che iniziano a produrre ormoni corticoidi. Ma cosa implica quest’attività? Se il nostro cervello secerne questi ormoni in abbondanza, assistiamo a un mantenimento in memoria delle informazioni registrate. Non solo, dalla memoria a breve termine in cui vengono inserite, vengono poi impresse e incise anche in quella a lungo termine e legate in maniera quasi indissolubile ai nostri ricordi. La pubblicità accattivante non rimane più soltanto una bella esperienza visiva, ma diventa parte integrante del nostro bagaglio di vita, un’emozione che ci ha emozionato e che pulsa ora dentro di noi al ritmo del cuore.

Se vogliamo additare qualcuno per l’intrusione di informazioni impercettibili, non possiamo accusare soltanto i maghi della pubblicità, ma dobbiamo anche sentirci responsabili di aver spostato l’asticella dei nostri pensieri: tramite l’interazione con gli altri abbiamo dato spazio a riflessioni che non avrebbero trovato modo di instaurarsi nel nostro cervello, neanche con la malizia di un messaggio subliminale.

Giacomo Dall’Ava
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Stampanti di corpi per vivere in eterno

E se fossimo alle porte di una rivoluzione evolutiva? In un futuro lontano (ma non troppo) sarà possibile “stampare” organi grazie a stampanti 3D dotate di “inchiostro” a base di cellule. Questi organi artificiali potranno poi essere trapiantati sostituendo le parti malate o danneggiate del nostro corpo: un ulteriore passo verso l’immortalità? Probabilmente sì. Il tempo sarà l’unica variabile in gioco nell’inesorabile progresso tecnologico che un giorno ci consentirà di replicare e sostituire qualunque parte del corpo. Persino il cervello un giorno sarà stampabile? Il cervello è stato definito “il pezzo di materia più complesso dell’universo” ma è pur sempre materia finita con determinate caratteristiche. Una volta studiate e mappate, si potranno replicare? Avremo interi corpi “di riserva” in grado di superare il naturale decadimento materiale e in cui ci potremo trasferire a nostro piacimento? Tutto è possibile anche se gli interrogativi si susseguono veloci: che cosa siamo noi e che cosa il nostro corpo? come faremo a trasferirci in un altro corpo? il mio bagaglio di conoscenze resterà intatto? E soprattutto: sarò ancora proprio io? Ma la vera domanda che questa prospettiva ci pone è: che cos’è la coscienza? Dove ha sede? E poi, è davvero “solo” materia ciò di cui siamo fatti? Per alcuni studiosi la risposta potrebbe essere affermativa, basti pensare a come ogni singola emozione può oggi essere spiegata in termini biologici come scambio di enzimi, ormoni, neurotrasmettitori, elettricità, et cetera.

Tutto è materia, persino un concetto come la felicità è una relazione chimica all’interno del nostro corpo. Tuttavia, la replicabilità dell’intero corpo umano ci fa pensare il contrario. Infatti, per quanto possa essere riprodotto esattamente il mio corpo, nulla farà in modo che il mio punto di vista si sdoppi. Vale a dire che l’altro corpo sarà sempre “altro” da me. Il cervello è la parte del nostro corpo in cui “risiediamo” più che in altre? Forse sì: trapiantare il cuore, ad esempio, non cambia chi siamo, mentre trapiantare un cervello probabilmente sì. E di conseguenza anche la ipotetica sostituzione di un cervello non lascerà il mio punto di vista intatto ma, se ipotizziamo che la sede della mia coscienza sia proprio il cervello (dove si troverebbe “diffusa” tra le varie aree cerebrali e ne emergerebbe quale combinazione di attivazioni, come alcuni recenti studi hanno suggerito), io mi spegnerò nel momento in cui il mio cervello sarà staccato da un corpo, e resterò legato ad esso. Ecco allora che, forzando il corso di questa fantasiosa ipotesi, forse un giorno troveremo il modo di trasferirci in un corpo nuovo di zecca semplicemente trapiantando il nostro cervello (dopo che avremo trovato anche il modo di conservarlo adeguatamente nel tempo), come fosse un pilota in una nuova automobile.

Questo potrebbe rivoluzionare quella che per millenni è stata la strategia dei geni, intenti a garantirsi nuovi corpi in cui essere ospitati («Noi siamo macchine da sopravvivenza ‐ robot semoventi programmati ciecamente per preservare quelle molecole egoiste note sotto il nome di geni» scriveva Richard Dawkins nel 1976), portando la teoria evolutiva ad una nuova dimensione, quella individuale appunto, superando quella propria della specie. Non più una lotta per la sopravvivenza di molecole all’interno di individui, non più una lotta tra individui per la sopravvivenza della specie, ma la prosecuzione dell’individuo stesso che abbia trovato il modo di superare i limiti naturali eternando ostinatamente se stesso attraverso nuovi supporti che superino il tempo.

Fabio Fornaroli

Fabio Fornaroli è laureato in filosofia e appassionato di tecnologia e neuroscienze. Lavora nell’ufficio stampa di una azienda di trasporti pubblici locali ed è autore del progetto musicale “La Finestra”.

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La musica del cervello a 432 Hz

<p>Music fanatic woman</p>

Suoni, rumori, fracassi. Durante quel breve periodo di militanza nel grembo materno, la prima cosa che abbiamo conosciuto del mondo esterno erano segnali sonori: voci, grida, risate e tutto ciò che è riuscito a destare la nostra flebile attenzione. Un’embrionale consapevolezza di quello che avremmo trovato fuori dalla caverna. Seppur flebile e attutita, la vibrazione sonora dei rumori esterni è stata la prima forma di conoscenza che abbiamo sperimentato.

Il nostro personale – e talvolta ostico – rapporto con la musica nasce da qui, da un piccolo essere vivente che viene bombardato di informazioni acustiche sotto forma di vibrazione. Il percorso delle onde sonore non fa sconti, passa e trapassa ogni parete fino alle membra di un corpo che incassa il colpo, percepisce il segnale e lo manda al cervello. Anche senza un sufficiente sviluppo della coclea (il nostro microfono naturale innestato dentro all’orecchio), schiere di neuroni sensoriali lampeggiano nel buio amniotico del grembo, portano gli input esterni al cervello, per poi ricavarne un output conoscitivo.

Una volta venuti al mondo, però, il rapporto con il mondo sonoro ha cambiato direzione, verso il traumatico mondo della musica per bambini: la lezione di pianoforte. Nessuna gradevole melodia, nessun figlio col violino in spalla a produrre informazioni sonore piacevoli per i vicini di casa. Sono serviti lo sforzo, la tensione, l’olio di gomito dei più tenaci sul pentagramma, per ottenere una comunicazione sbalorditiva, che stimolasse un linguaggio vero e proprio. Con un’improvvisazione musicale si riesce infatti ad attivare persino l’area di Broca, deputata alle funzioni del linguaggio e della comunicazione verbale.

Ogni allenamento a cui è sottoposto il nostro cervello rinforza collegamenti sinaptici, che altrimenti rimarrebbero inesplorati e non ci permetterebbero di evolvere. Per quanto l’avessimo fatto malvolentieri, aver svolto attività musicali in giovane età ha coinvolto e stimolato diversi meccanismi cognitivi: ad esempio produrre o intonare una serie di note stimola capacità attentive, l’apprendimento mnemonico, il confronto, la pianificazione e la conduzione motoria.

Lo sviluppo del senso musicale ci ha indirizzati verso gli elementi stessi dell’Universo: ritmo e armonia, incastrate secondo schemi armonici che la natura ha divinamente riprodotto ovunque nel creato. La sezione aurea con cui è costruito ogni tassello dell’universo (cioè il susseguirsi di precise proporzioni e rapporti armoniosi) ha permesso all’uomo di seguire a tempo ciò che la fisica scandiva a bacchetta, dato che il nostro cervello è particolarmente predisposto a cogliere l’armonia bilanciata dei rapporti aurei della costante di Fibonacci.

La musica sintonizzata sui 432 Hz, infatti, è uno specchio del mondo, rispetta la proporzione aurea e crea una rappresentazione di come l’universo intero produca onde vibranti a 8 Hz. Su questa intensità si attesta la “Risonanza di Schumann”, un delicato e impercettibile rumore dell’universo, che si sposta verso mete inesplorate, producendo vibrazioni vitali per il nostro organismo.

L’avvento del Nazismo invece ha cambiato anche l’accordatura degli strumenti, che da quel periodo in poi è stata mantenuta sui 440 Hz, con effetti sovra-stimolanti al lobo frontale, probabilmente per spremere al massimo la marcia delle truppe tedesche dell’epoca.

È proprio lo scarto di questi 8 Hz che ci allontana dalla fruizione più naturale della musica, quella che invece ci stimola a sincronizzare i due emisferi cerebrali, a produrre creatività e intuizioni del genio umano. Esposti a frequenze addolcite, tarate sui 432 Hz, la nostra ghiandola pineale viene stimolata alla produzione dell’ormone della vita, la somatotropina, un elisir di benessere che non avrebbe bisogno di essere prodotto da alcuna casa farmaceutica.

Se pensavamo di essere stressati per non aver studiato la lezione di pianoforte, forse non sapevamo che l’accordatura in  440 Hz non ci stava aiutando affatto.  Fortunatamente l’esercizio musicale fatto anche a scuola non serviva soltanto a fare un’ora di pausa tra la lezione di italiano e quella di matematica, ma ci ha aperto un varco su un mondo di stimoli percettivi ed emozionali.

I due emisferi hanno iniziato a dialogare con più sintonia: mentre l’emisfero sinistro si attivava nella composizione e memorizzazione di note e scale musicali, quello destro giocava a intrecciare melodie.

Con enorme dispiacere dei nostri genitori non siamo diventati né Mozart né Beethoven, ma possiamo ugualmente fruire dei benefici del “theta mode”, quello stato cerebrale che ci porta ad essere creativi e a stimolare intuizioni di ogni tipo. La creatività si sviluppa dall’alternanza dei due emisferi, come durante una performance di improvvisazione artistica, dove l’area del controllo razionale si sgancia e si spegne, per lasciare spazio a quella autobiografica, all’espressione di sé, che si accende per produrre arte e invenzione.

Giacomo Dall’Ava

Colpa di Rossi? Chiediamolo alla filosofia

Appassionati o meno di motociclismo, da un po’ di tempo siamo stati costretti dai media (o da chi a sua volta ha costretto i media) a diventare esperti di qualcosa che fino a qualche settimana fa non ci interessava minimamente. Bandiere a mezz’asta in giro per l’Italia per un evento così lontano dalle nostre vite, dalle nostre precedenti passioni. Eppure sono state sentite persino signore dal parrucchiere che commentavano la vicenda di Rossi, di un certo Rossi che ha spinto o non ha spinto un tale Marquez.

L’epilogo lo conosciamo tutti: penalizzazione per il pilota italiano, che si è visto scivolare dalle mani un titolo mondiale all’ultima gara della stagione.

Una volta spogliati del patriottismo in stile bar sport, l’interesse per la faccenda tornerà al livello che gli compete e riprenderemo a commentare le partite di calcio.

Ma per una volta potremmo invece soffermarci su questo fatto qualunque, un episodio noto ai più, che fa ancora tribolare gli animi di molte persone: Valentino Rossi è colpevole della caduta dell’avversario? La sua azione è stata intenzionale? Ha meritato la penalizzazione e la pressoché matematica certezza di non vincere il mondiale?

Lontani dal volerci porre a giudici di un fatto sportivo, possiamo però valutare filosoficamente l’operato del pilota italiano. Reato colposo o doloso?

Per poter valutare come intenzionale un’azione bisogna che il soggetto decida di agire per  raggiungere uno scopo. C’è bisogno del desiderio di arrivare a un obiettivo, indipendentemente dalle azioni che saranno compiute (tutte comunque intenzionali). Non si  tratta di  alcun giustificazionismo tra mezzi e fine (non ce ne voglia Machiavelli), dato che ogni azione che concorre allo scopo prefissato sarà giudicata intenzionale, come fosse un tassello del grande mosaico che raffigura il nostro obiettivo: ne saremo quindi pienamente responsabili.

L’intenzione di fare qualcosa coordina tutte le azioni necessarie per raggiungere  l’oggetto  del  nostro  desiderio e ne facilita il verificarsi, come spiega  Searle. L’intenzione è il collante che tiene assieme ogni nostro movimento, anche quelli più immediati e apparentemente privi di pianificazione. È il denominatore comune a cui sono ricondotti pensieri, pulsioni, agiti e azioni. Il nostro cervello è in grado  di elaborare ciò che desideriamo e intendiamo perseguire, riuscendo a farci produrre una serie di  comportamenti che a noi sembreranno istintivi, fuori dal  controllo della nostra volontà, ma che sono in realtà frutto della nostra più profonda intenzionalità.

Qual era dunque l’intenzione di Rossi? Certo è difficile fosse quella di far cadere  avversari e speranze di trionfo. Credenze, desideri, aspettative, intenzioni e volontà: tutto era volto ad altro, ogni singola azione era messa in armonia con lo scopo finale. Punti in classifica, un podio e un titolo a qualche giro di pista da lì.

Che dire quindi di quella colpevole gamba, che si sporge oltre il dovuto e fa precipitare al suolo Marquez? Fa tutto parte del potenziale motivazionale, ovvero di quelle azioni incondizionate, che però ci garantiscono di essere impegnati nell’adempimento dell’intenzione prefissata.

Di certo Rossi dirà che non aveva intenzione di far cadere l’avversario, e noi gli crediamo in virtù di un regolamento che consoce meglio di noi. Tuttavia, per fare intenzionalmente un’azione, non è necessario che il soggetto abbia intenzione di fare quella azione precisa, ma è sufficiente che abbia intenzione di fare qualcosa che gli  permetta di ottenere lo scopo finale (Bratman). Ogni  azione di questo tipo  sarà intenzionale, di qualunque cosa si tratti, anche  di una spintina, se dovesse servire.

Tra corse e ricorsi, i tifosi (perlopiù improvvisati) sono gli unici delusi: sponsor e sportivi hanno fatto il loro dovere e ricevuto i relativi incassi dalla sconfinata pubblicità derivata. A soffrirne – senza intenzione alcuna –  rimangono soltanto migliaia di persone, che pensano ancora alla filosofia come a un’illazione che non ci fornisce risposte soddisfacenti.

Fortunatamente ci pensa  il diritto, così caro agli italiani, a condannare definitivamente Rossi per un delitto preterintenzionale, un’azione le cui conseguenze sono state più gravi di quanto previsto, dato che nessuno si sarebbe forse aspettato di perdere tutto all’ultima corsa, ma nemmeno che milioni di persone si sarebbero poi disperate intenzionalmente per una gara di motoGP.

Telepatia? No, neuroni specchio

Pausa pranzo, prima di tornare in ufficio o di rimetterci a studiare, entriamo in un bar per prendere un gelato. Ci cade però l’occhio su una persona impegnata proprio nell’azione che, per colpa di quella dannata gastrite, abbiamo scelto di non fare più: prendere un caffè, corretto o liscio che sia.

Anche se attribuissimo la colpa al clima avvolgente del dopopranzo, che potrebbe farci sentire già ingaggiati nel gesto che altri attorno a noi stanno compiendo, questo non è forse l’unico fattore che ha contribuito al nostro coinvolgimento. C’è qualcosa di più cerebrale che si innesca nel momento in cui osserviamo il braccio di quello sconosciuto muoversi verso il bancone, la mano puntare la tazzina ancora fumante e le dita stringersi adeguatamente sul manico.
Eravamo così fedeli alla nostra disintossicazione, eppure il nostro cervello ha in parte vissuto l’esperienza di quel dannato caffè, l’ha afferrato e l’ha portato alla bocca, proprio come ha fatto contemporaneamente quella persona di fronte a noi.

Ne rimaniamo increduli, ma cos’è accaduto nella nostra testa in quel momento? Cosa accade costantemente quando osserviamo azioni di cui non siamo gli artefici, ma solo “passivi” spettatori? Al nostro cervello è bastato un input visivo, vedere cioè un’azione eseguita da qualcun altro, per innescare il processo sinaptico di alcuni neuroni sensorimotori (deputati al movimento in relazione a stimoli sensoriali): i neuroni specchio. Solo guardando quel movimento, si sono attivati in noi gli stessi neuroni, che si sarebbero innescati se avessimo compiuto personalmente quell’azione.

Cosa vuol dire questo? Osservare equivale ad agire? Il solo fatto di aver guardato compiere un’azione fa sì che il mio cervello registri l’esperienza di quell’attività, che non avevo nemmeno l’intenzione di fare? Teoricamente sì: le neuroscienze, a partire dalle scoperte del team di Rizzolatti, ci spiegano che in noi si attivano alcuni neuroni della corteccia pre-motoria e del lobo parietale, aree deputate al movimento e prive di funzioni cognitive. Le cellule in questione sono neuroni bi-modali, si attivano cioè non solo quando compiamo effettivamente un’azione, ma anche quando guardiamo qualcuno compierla: lavorano quindi sia quando afferriamo la tazzina del caffè, sia nel caso in cui tale movimento venga soltanto osservato.

Tuttavia, questo particolare fenomeno sembra non accadere in ogni circostanza: si pensa invece che i neuroni specchio si attivino in fase di osservazione, quando l’azione dell’altro ha un significato per noi, quando guardiamo un movimento che conosciamo, che è presente nel nostro repertorio di significati. Non si instaura infatti una speciale telepatia con l’altro, ma, dato che non siamo immersi in un mondo sterile e oggettivo, la nostra esperienza si plasma in un contesto che prende forma nella nostra mente nel momento in cui lo guardiamo e siamo in grado di attribuire ad esso un significato.

Ma il caffè noi non lo volevamo più prendere, volevamo smettere con le tentazioni e con ogni esperienza di assunzione della bevanda, cerebrale o effettiva che fosse!

Allora perché questi neuroni si attivano involontariamente, anzi anche contro la nostra volontà? L’ipotesi più plausibile sulla loro funzione è che essi contribuiscano a creare nella nostra mente un’idea di movimento, anche tramite un’azione soltanto vista e svincolata da qualsiasi possibile esecuzione. Nel cervello dell’osservatore prende forma un atto motorio in potenza, che va a creare un personale serbatoio di esperienze, guardate e riconosciute, anche se non eseguite. In tal modo possiamo arricchire il nostro vocabolario motorio con una serie di simulazioni mentali, anche mentre qualcun altro afferra una tazzina di cui non desideriamo il contenuto,

Il caffè non l’abbiamo preso, certo, né siamo più caduti in tentazione di berlo, infatti la nostra volontà e il nostro pensiero regnano ancora sovrani sulla nostra esperienza. Quella del cervello invece è una lettura di movimenti a cui diamo un significato, un incremento di esperienza motoria, per cui non possiamo affermare (per ora) che i neuroni specchio influenzino sovrastrutture personali quali la morale, l’attività cognitiva del pensiero e la capacità di prendere decisioni. Ma le neuroscienze hanno iniziato da poco a studiare questi fenomeni e i filosofi si stanno scatenando sulla loro interpretazione.

Per sicurezza, comunque, ci conviene mantenere puro lo sguardo e dedicare la nostra attenzione ai soli gesti e alle circostanze che reputiamo inclini alle nostre credenze. In pausa pranzo, domani, sarà meglio andare in gelateria.

 

Giacomo Dall’Ava

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Neuro, ergo sum

Anche senza aver mai masticato troppa filosofia, al segnale di un “cogito” o di un “ergo”, tutti abbiamo sempre saputo come completare la ormai celebre filastrocca cartesiana del “Cogito, ergo sum”. Che lo sappiate o meno, la sconcertante ovvietà del “Penso, quindi sono” ha stravolto l’andamento della filosofia, conferendo all’uomo un livello di autocoscienza, con cui abbozzare qualche risposta all’ancestrale domanda del “chi siamo?”.

Esseri pensanti, per cominciare: il solo fatto di poter pensare mi dà la garanzia di essere, di esistere come entità che pensa e di dormire sonni tranquilli sulla mia natura di essere umano, se mai qualcuno potesse aver sofferto di insonnia per riflessioni esistenziali (filosofi a parte)…

Se mi addentrassi ancor di più in questa apparentemente banale discussione, il mio lettore mi accuserebbe a ragione del noto delitto delle “seghe mentali”, che tecnicamente potremmo definire “speculazioni filosofiche”. Non mi resterebbe che ammettere la mia colpa, ma… ripensandoci, lui stesso ha appena ribadito quanto espresso da Cartesio!

La sua secca e disarmante considerazione ha infatti dimostrato proprio quello che la filosofia gli stava spiegando: l’attività cognitiva (messa in atto in questo caso per liquidare la filosofia) ha dato conferma della sua presenza, del suo antagonismo nei miei confronti e dell’eterea esistenza di qualcosa che pulsa incessante sotto i nostri ragionamenti: il pensiero.

Se oggi possiamo camminare eretti, immersi nell’agio e nelle comodità del Ventunesimo secolo, esibendo il nostro pollice opponibile su smartphone e smanettando sui tablet, non dobbiamo ringraziare soltanto Steve Jobs e il suo garage, ma dobbiamo partire dalla mente e dal cervello umani. Nel corso della storia dell’uomo infatti, per ottenere un costante miglioramento della tecnica, la via del progresso è sempre passata per la necessaria presa di coscienza della propria condizione: l’autocoscienza, mezzo e fine delle nostre attività mentali.

Il pensiero ha però posto anche i confini del nostro mondo: un perimetro tracciato a suon di colonne d’Ercole, oltre cui si nascondevano paesaggi troppo appetibili per non superarle e macchiarci così di un peccato mortale, la tracotanza (ὕβϱις, in greco). E così con il meta-pensiero (il pensiero del pensiero, lo studio del pensiero) abbiamo tratto il dado: filosofia e neuroscienze hanno spostato l’asticella del concesso, della conoscenza e ci prospettano estensioni di sviluppo ed evoluzione che sembrano un affronto a Dio. Ma non abbiamo fatto altro che affrontare il nostro passato e rendere onore al nostro logos, innalzandoci col petto in fuori rispetto al verdastro orizzonte che potevamo scrutare quando ancora stavamo a gattoni.

Non siamo stati fermi dove Dio o la Natura ci avevano messi, ci siamo trovati su un trampolino di lancio. Il volo è tutto una fase ascendente, non c’è gravità che tenga di fronte alla spinta generatrice, conservatrice e migliorativa dell’attività cognitiva tipica dell’uomo.

Allora capiamo che non stiamo spingendo troppo sull’acceleratore, perché sin dal principio c’era il logos, si pensa cristianamente; ma anche molti pensatori laici attribuiscono alle funzioni logiche (etimologicamente) una funzione primaria, essenziale e vitale. Questo logos racchiude una dicotomia inscindibile di pensiero e parola, gli artigli più affilati che la Natura abbia mai forgiato, il tutto messo in circolo grazie alla rete più affascinante e multimediale che ci sia al mondo.

No, non è internet, ma il sistema nervoso. Miliardi di neuroni che intervengono costantemente nel farci capire e apprendere gli stimoli esterni, capaci di creare collegamenti sinaptici sempre più raffinati e deputati al progresso, all’evoluzione della macchina umana.

Lo sviluppo delle neuroscienze ricopre dunque un’importanza fondamentale per la nostra esistenza, dato che l’analisi delle facoltà cognitive collima perfettamente con una ricerca filosofica rigorosa e puntuale.

Cosa farcene di tutto questo? Scomodare la filosofia dall’Olimpo della conoscenza, per donarle una formalizzazione concreta, che ci accompagni nella crescita dell’autocoscienza.

La tecnica avanza velocemente, non possiamo continuare a rincorrerla, ma dobbiamo condurla verso il destino di cui siamo – forse – gli unici artefici.

 

Giacomo Dall’Ava

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