Il trapianto di testa tra realtà umana e ricerca del postumano

L’impegno costante dell’uomo moderno-contemporaneo è sempre stato rivolto al miglioramento delle condizioni della propria vita. Questo obiettivo ha indotto l’uomo stesso ad avviare ricerche per la progettazione di strumentazioni che gli permettessero di superare eventuali ostacoli legati alla sua naturale fisicità.

La scienza attuale aspira ad oltrepassare il tradizionale modello antropologico per forzare le barriere poste in essere dalla natura cercando di superarle attraverso il progresso scientifico e la tecnologia.

Le differenti correnti di pensiero etico e filosofico hanno sempre inciso, ovviamente in modo contrapposto, sui mezzi realizzati dalla capacità produttiva dell’uomo e sui fini verso i quali rivolgere tali strumenti.

Tra i tanti propositi emerge quello del neurochirurgo italiano Sergio Canavero che, nel febbraio del 2015, aveva presentato l’ambizioso e dibattuto progetto HEAVEN/AHBR, nell’ambito del quale si proponeva di eseguire il primo trapianto di testa.

Nonostante le perplessità sollevate dalla comunità scientifica, nel novembre scorso Canavero e il suo collega Ren Xiaoting dell’Università di Harbin, hanno annunciato il successo del trapianto di testa su un cadavere attraverso la congiunzione di colonna vertebrale, nervi e vasi sanguigni, durante un intervento chirurgico di circa 20 ore. A detta dei due neurochirurghi, il prossimo passo sarà eseguire la procedura su un paziente vivente tetraplegico.

La prima questione che pongo, riguardo il possibile successo di tale pratica, è di ordine prettamente scientifico ed è relativa alla natura del cervello stesso che, senza la necessaria ossigenazione, inizia a deteriorarsi e a morire in pochissimi minuti: sarebbe quindi possibile mantenerlo in vita abbastanza a lungo da avere il tempo di ricollegare le innumerevoli connessioni neurali?

In secondo luogo, volendo essere precisi, un intervento su due cadaveri non può essere definito trapianto e pertanto risulta inadeguato parlare di trapianto di testa; ma anche a voler tralasciare questo aspetto, si può intendere come riuscito un intervento su pazienti già morti sui quali non è quindi possibile riscontrare gli esiti dell’operazione effettuata? Relativamente agli esiti dell’intervento, cosa succede alla testa trapiantata nel nuovo corpo e, viceversa, cosa succede al corpo nel quale è stata trapiantata una nuova testa?

È scientificamente noto che le altre parti del corpo condizionano la nostra neurologia, ovvero la modalità con cui generiamo pensieri e azioni, quindi, la nostra attività mentale può essere condizionata da fattori esterni al cervello; ciò significa che trapiantare una testa in un nuovo corpo potrebbe dar vita ad una nuova persona, oppure la testa manterrà inalterata la sua antecedente coscienza? Se, come è stato dimostrato da numerosi ricercatori, lo stesso ecosistema batterico del nostro corpo influisce sul modo in cui le persone pensano e sentono, con un trapianto la testa verrebbe inserita in un microbioma estraneo originato dall’essere stata innestata in un nuovo corpo. Detto ciò risulta improbabile che tutti i nostri tratti psicologici dipendano esclusivamente dalle cellule presenti nella nostra testa, è invece credibile che la maggior parte dei nostri tratti psicologici derivino dal passaggio di informazioni tra corpo e cervello.

Nonostante non sia chiaro in quale percentuale un cambiamento nel corpo potrebbe alterarne le caratteristiche psicologiche, il cervello verrebbe comunque sommerso da sostanze chimiche e segnali estranei del nuovo corpo che non è possibile ritenere ininfluenti o secondari.

Le perplessità etiche relative a queste tipologie d’intervento richiamano alla necessità di adottare una condotta cautelativa e non sono fonte della paura legata al progresso scientifico o del prospettarsi di scenari futuri aberranti, ma riguardano la concreta possibilità di ledere la vita umana nel tentativo di liberare l’uomo stesso da vincoli naturali che egli stesso ritiene restrittivi e che tenta di superare attraverso il progresso scientifico-tecnologico che, a sua volta, agisce spesso dimentico di reale concretezza e scevro di ogni riflessione etico-antropologica.

 

Silvia Pennisi

 

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Non dovremmo essere fedeli come i cani

Dovremmo imparare a essere fedeli come le arvicole della prateria, non come i cani. I cani amano un padrone per abitudine: se lo ritrovano in custodia e guarda caso questo padrone è anche un distributore automatico e gratuito di cibo. E così diventano fedeli. Stanno al suo capezzale se sta male, lo riconoscono e lo cercano con devozione, certo, ma sotto sotto c’è un po’ di opportunismo evoluzionista.

Ma cosa sono invece queste arvicole della prateria? Dei roditori, dei piccoli criceti che si amano alla follia e praticano la monogamia più dei cristiani.

Secondo uno studio pubblicato su Nature, condotto presso la Emory University ad Atlanta, in Georgia, il desiderio di fedeltà e della classica “relazione stabile” deriva da un collegamento nervoso, che rafforza gli scambi tra l’area decisionale e quelle della gratificazione e del piacere. Ho scritto “desiderio di”! Non “obbligo di una relazione stabile”. Perché ormai la stabilità è vista come una gabbia, un matrimonio che ci costringe alla fedeltà (almeno a quella manifesta e dichiarata).

Invece questi piccoli roditori − e anche qualche sporadico caso nel mondo − sentono proprio il desiderio di stare con un loro simile, e uno soltanto. Di amare quello e basta.

In questo caso il cuore non c’entra niente: l’amore non sta lì dove passa il sangue che viene pompato nel resto del corpo. Quello batte, continua a battere e al massimo cambia ritmo. Ma è un ritmo dettato dal cervello, dai nostri condizionamenti e da quel flusso più o meno inconscio di pensieri che ci accompagnano in ogni istante della giornata.

Quando un pensiero è piacevole, l’area del cervello della gratificazione si accende, lavora, intensifica le trasmissioni tra neuroni. Cresce.

I ricercatori statunitensi hanno analizzato le connessioni nervose degli esemplari femmina di quei criceti, in particolare tra la corteccia prefrontale (che riguarda la sfera decisionale) e il “nucleo accumbens” (ovvero il centro della gratificazione e del piacere). Dai risultati di questo studio è emerso che più le due aree comunicavano tra loro, più la femmina desiderava una relazione duratura con il maschio.
E quindi? Quindi più le scelte che si prendono portano anche piacere e gratificazione, più la relazione sarà duratura. Non è scontato. C’è di mezzo una stretta connessione tra le scelte che si fanno per se stessi e il relativo benessere che ci portano. Se scegliamo per noi e questo ci porta un grande piacere, di conseguenza aumentano le probabilità di una relazione monogama, e per di più felice.

Poi bisogna vedere se il cervello delle arvicole della prateria funziona come quello degli esseri umani.

Dai test su questi roditori è comunque emerso che la base fisiologica dell’amore e della fedeltà si trovano nel cervello. Quindi è un amore che passa per la decisione, per la scelta. Non una fedeltà da cani, legata all’abitudine e alla ricerca di un padrone. No, niente di tutto ciò, nessun padrone in amore, ma solo decisioni rafforzate dal piacere.

Questa potrebbe essere insomma una delle chiavi per risolvere i problemi di coppia. Smetterla con ‘sta cosa della monogamia per forza, per promessa o per morale. Quella non porta alcun legame con la gratificazione. Buttiamoci invece nelle scelte personali, consapevoli, libere e assaporiamo il piacere che ne deriva.

Perché non è detto che funzioni come sosteneva Goethe: «La fedeltà è lo sforzo di un’anima nobile per uguagliare un’altra più grande di lei.» La scienza alcune volte spazza via anche le frasi più romantiche, i racconti a cui era bello credere. Non ci sono anime di serie A e di serie B. Ci sono decisioni e responsabilità da cui derivano emozioni e sentimenti. E pure il battito del cuore a cui siamo tanto legati in amore.

Giacomo Dall’Ava

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Sindrome di Homer Simpson: cambiare fa schifo

Diciamoci la verità, cambiare fa schifo e non ce ne importa nulla dell’evoluzione umana né, tantomeno, di quella personale. Ci interessa soltanto “stare bene”, ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. Badate bene, non il “massimo risultato” e basta, né mettere in atto uno sforzo sufficiente per il massimo risultato. Vogliamo ottenere quel che si può con questi minimi sforzi.

Lo chiamano anche principio dell’omeostasi: tendiamo a conservare le nostre caratteristiche al variare delle condizioni esterne. Una persona in equilibrio cercherà di mantenere quel prezioso equilibrio, non cercherà in alcun modo di migliorarlo. Sia mai, quanta fatica per niente.

E se stiamo leggendo un articolo di una rivista filosofica, tramite un dispositivo tecnologico e grazie a una rete internet, probabilmente non ci sta andando proprio malaccio. Possiamo anche continuare su questo binario. Certo ognuno con le proprie nevrosi e i propri grattacapi quotidiani, ma ce la stiamo cavando. Pacca sulla spalla e ci riassettiamo sulla poltrona che ci ospita, comodamente.

Chi ce lo fa fare  questo ulteriore sforzo per cambiare?

Nelle sessioni di coaching che mi capita di fare – in ambiti che spaziano dal mondo del lavoro all’intimità della famiglia – mi sono reso conto che le principali situazioni che ci fanno muovere il culo dalla condizione in cui ci troviamo sono tre:

  • Lo schiaffone in faccia
  • Il colpo di culo
  • La lenta e graduale ricerca del miglioramento

Il primo è il classico esempio di cambio del proprio stile di vita dopo un infarto. La morte viene a bussarti alla porta, con tanto di falce alla mano. Poi l’angelo della vita ti prende per i capelli e ti riporta sulla terra. Personalmente, spero non mi capiti mai, altrimenti la calvizie potrebbe rappresentare un problema non più estetico.

In queste circostanze si cambia per forza di cose, lo scossone ricevuto crea un “trauma” (parola che in origine aveva anche il significato di “muovere”, “passare al di là”). Ormai sei passato al di là di una soglia, il dado è tratto.

 

Nel secondo caso si cambia a caso, non sai bene cosa ti abbia fatto cambiare, né perché la situazione ad un certo punto sia mutata. Ti sei trovato al momento giusto nel posto giusto. Eppure non accade quasi mai a te, ma agli altri. E in molti casi la persona in questione non si è nemmeno sforzata troppo per far accadere questa circostanza. Non ce ne vogliano gli amanti della legge dell’attrazione: si tratta di culo (fortuna, in gergo). Non serve alcuna aneddotica, abbiamo tutti assistito a colpi di fortuna (sempre altrui) che ci pare di meritarci ma che a noi non arrivano mai.

 

Il terzo caso è l’unico su cui possiamo esercitare un minimo di progettualità e di forza di volontà. L’unico meccanismo con cui possiamo contrastare una cattiva abitudine, quel sassolino nella scarpa che non è che ci impedisca proprio di camminare, ma ci impedisce di farlo serenamente e a pieno regime.

 

Si tratta di abitudini. Le abitudini rappresentano il 45% di tutte le azioni che svolgiamo ogni giorno. E l’unico modo per contrastare un’abitudine è costruirci sopra un’altra abitudine. Ovviamente, per farlo, occorre un lavoro di lenta e graduale ricerca del miglioramento. In soldoni? Fatica e impegno.

Ma l’economia cognitiva del nostro pensiero ci trattiene dal farlo. Il cervello cerca di confrontare ogni novità con qualcosa di già conosciuto, prova prima di tutto a incastrarla in qualche categoria già creata. Il nuovo gli dà fastidio, e cerca in tutti i modi di ricondurlo a qualcosa di già noto per fare meno sforzi e non dover cambiare idea sul mondo.

Per questo in pochi, pochissimi, scelgono questa terza via. Gli altri aspettano speranzosi il bacio della dea bendata, o attendono a dita incrociate uno schiaffo da cui rialzarsi.

Ma d’altronde nessuno è da biasimare. Cambiare fa schifo. Quando scopriamo che con il minimo sforzo possiamo ottenere un minimo risultato soddisfacente, ci fermiamo lì. Zoppichiamo con il sassolino piuttosto. Piuttosto che levarlo e iniziare a camminare, a sudare, a marciare con la piena responsabilità della nostra andatura.

Insomma l’homo sapiens sapiens, che tanto si vanta della supremazia della sua specie, procede per un banale meccanismo di scelta: l’euristica del soddisfacimento. Si tratta di considerare un’opzione per volta e se ne esaminano le caratteristiche importanti. La prima opzione accettabile sarà la nostra.
Alla faccia del progresso della specie e del miglioramento personale.

 

Giacomo Dall’Ava

 

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Karl Marx scienziato cognitivo

<p>Portrait of Karl Marx, date unknown. (AP Photo/Kurt Strumpf)</p>

Nella prefazione a Per la critica dell’economia politica (1859) Karl Marx esprime uno dei concetti più determinanti e rivoluzionari della sua intera opera filosofica. Il riferimento è alla distinzione tra struttura e sovrastruttura come sistemi regolatori della società: la struttura è «il vero fondamento su cui sorge una sovrastruttura […] non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza». Per Marx ogni ipotesi di modifica dei dati sovrastrutturali sarebbe illusoria ed improduttiva in assenza di un profondo rivolgimento della struttura. Le rivoluzioni si compiono modificando la struttura e non la sovrastruttura. Nella filosofia marxiana la struttura è insita nei rapporti economici di una realtà sociale e la sovrastruttura dall’apparato ideologico utile al consolidamento della struttura di riferimento. «La cornice giuridica […] codificata e formalmente egualitaria» è stata l’espressione sovrastrutturale con cui è stato eretta l’ideologia dello Stato fondato sui rapporti economici egemonici della borghesia (Michel Foucault).

La vera e grande provocazione è rivedere Marx in chiave di filosofo della mente ed alla luce delle scienze cognitive. Marx filosofo cognitivo è realmente rivoluzionario. Per le scienze cognitive “noi siamo il nostro cervello” e dunque, ciascun essere umano, al di là di illusorie utopie sovrastrutturali fondate sul libero arbitrio assoluto ed incondizionato, non è altro che un intricato gomitolo di neuroni, sinapsi, neurotrasmettitori ed epigenetica; quando l’individuo deve scegliere, il cervello “pesca” le mosse da intraprendere da quanto ha stampato in questo apparato biologico che costituisce la propria personalissima libreria, senza possibilità alcuna di uscire dal proprio gomitolo biologico. In questo modo relegando l’idea di libero arbitrio “uguale per tutti” al libro dei sogni e delle ideologie più fantasiose. Il libero arbitrio non è impedito da psicologismi ed impalpabili devianze della personalità ma è dettato dai timbri cerebrali che hanno impresso nei componenti del cervello il loro disegno. La psicologia e la legge sono le grandi mistificanti ideologie volte a sorreggere l’utopia del libero arbitrio assoluto; sono l’espressione massima della dottrina sul feticismo delle merci, questa volta al servizio dell’ideologia del libero arbitrio.

Legge e psicologia sono i servi sciocchi di questa ideologia sovrastrutturale dominante, dall’Illuminismo sino ai giorni nostri. Una rilettura della dottrina marxiana di struttura e sovrastruttura, ideologia e merce  in chiave neuroscientifica rende il grande filosofo un vero rivoluzionario. La struttura e la sovrastruttura marxiana rappresentano un modello cognitivo dell’io agente. Esattamente come accade nella società, anche nel cervello si può individuare una struttura più profonda, ancestrale, che caratterizza ed influenza tutto l’io cerebrale (la struttura) ed una sovrastruttura “neurale-ideologica” rappresentata dall’impianto cerebrale e comportamentale meno profondo ancorché, all’apparenza, più visibile e vistoso (si pensi, banalmente, ai ruoli sovrastrutturali di medico, giudice, avvocato, pubblicitario, musicista, marito, moglie, amante, ecc. Tutte condizioni portatrici di propri statuti cognitivi sovrastrutturali). Per Marx la sovrastruttura è l’ideologia mistificante volta solo a consolidare la struttura economica; per la filosofia della mente è, a sua volta, un’ideologia mistificante, costituita dal sistema appreso nel corso degli anni che svanisce e si dissolve dinnanzi alla necessità di salvaguardare la struttura. Come già sostenuto sul coté letterario da Giovanni Verga (Fantasticheria e I Malavoglia), ciascuno rimane legato a poche ma decisive tradizioni ataviche che fanno sentire l’ostrica (di qui il suo concetto letterario-filosofico-cognitivo) al sicuro dai pesci feroci del mare. Motivo per cui l’ostrica può anche ipotizzare e convincersi di voler tentare determinate strade che la sua sovrastruttura cognitiva ha conosciuto e appreso, ma la struttura atavica del mondo cognitivo dell’ostrica (secondo la metafora verghiana) relegherà tali conoscenze a sovrastruttura, a pura ideologia incapace di modificare realmente la struttura (neurale) e dettare le scelte dell’io. Con buona pace per il libero arbitrio kantiano che ci vorrebbe pronti e razionali, al momento dell’agire, per essere, addirittura, con le proprie scelte, giudici universali di se stessi e dell’umanità intera (Critica della ragion pratica). Marx in chiave cognitiva è ancor più stupefacente che in chiave politico-economica.

Cosa resta allora della grande dottrina del libero arbitrio, della possibilità per l’uomo di indirizzarsi razionalmente e di decidere in nome delle regole, della legge e dei costumi morali e sociali in essere? Insomma: cosa resta dell’Età dei Lumi su cui è stato costruito il nostro mondo contemporaneo, le nostre leggi, i nostri sistemi di responsabilità giuridica, morale e sociale? Una merce da vendere nel mercato ideologico delle mistificazioni. Solamente la convinzione che l’essere umano ricade sempre nel peccato originale, nel volersi erigere a Dio terreno, ad essere superiore e razionale, esattamente come il Dio in cui vuole credere. Rimane la vanità delle vanità: il libero arbitrio assoluto ed incondizionato.

Luca D’Auria

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Giacomo Rizzolatti: intervista alla mente dei Neuroni Specchio

Quello che distingueva l’essere umano da tutte le altre specie viventi (e soprattutto da quelle animali), era la grande abilità cognitiva. Un cervello più grande degli altri, più sviluppato. Ma non siamo stati neurologi per secoli interi, comunque abbiamo potuto vedere la nostra superiorità da semplici dati di fatto: contare, ragionare, progettare, realizzare, inventare. Tutte azioni precluse al resto dei viventi.

Oggi tutto questo idillio di razza superiore è finito.

Non siamo più primi, forse nemmeno secondi. Siamo guardati dall’alto al basso dalle macchine, dagli algoritmi, dalla tecnologia. Contare, ragionare, progettare, realizzare, inventare. Tutte azioni che una macchina sa fare meglio di noi, molto meglio. E più velocemente.

Eppure siamo ancora aggrappati a un filo, a una caratteristica che ci posiziona (per ora) ancora al di sopra delle macchine e dei robot. I sentimenti. L’empatia. Le emozioni.

Dobbiamo smetterla con questa corsa alla bravura: ci sarà comunque una macchina più brava e veloce di noi. Possiamo però fare la differenza con una relazione nuova, di valore, profonda sentimentalmente.

Allora chiediamolo alla neurologia, alle neuroscienze, cosa dobbiamo fare. Su cosa possiamo fare la differenza.

I neuroni specchio sono una risposta. A tratti sono “La Risposta”. E sono stati scoperti in casa nostra, grazie all’eccellenza italiana, dal professor Giacomo Rizzolatti a cui abbiamo fatto questa intervista.

 

Se dovesse spiegare a un ragazzino cosa siano i neuroni specchio, senza banalizzare questa straordinaria scoperta, ma facendola comprendere ai non addetti ai lavori, come li descriverebbe?

Ci sono dei neuroni, sia nella scimmia che nell’uomo, posti nella corteccia motoria, che rispondono sorprendentemente non solo al movimento, infatti la corteccia motoria è connessa al movimento, ma anche alla visione di azioni fatte da un’altra persona. Una nota importante è che la stessa azione che quel neurone fa fare alla scimmia ad esempio, è quello che eccita il neurone quando la scimmia vede farlo da una persona.

Dato che ha collaborato e discusso anche con filosofi sulle tematiche dei neuroni specchio, in che modo pensa che la filosofia possa aiutare la ricerca e le riflessioni nelle neuroscienze e negli ambiti scientifici?

Il mio team era fatto tutto da medici e un biologo (quello che ha scoperto i neuroni specchio), successivamente i neuroni specchio hanno suscitato molto interesse nell’ambito della filosofia, in particolare di quella fenomenologica. Giordano Giorello un giorno mi ha invitato a tenere un seminario a Milano e lì ho conosciuto Corrado Sinigaglia, il quale ha avuto un training specifico proprio in fenomenologia, in quanto ha fatto un lungo periodo a Lovanio a studiare gli archivi Husserl.
A questo punto abbiamo deciso di scrivere questo libro che ha avuto molto successo. Prima di questo contatto milanese sono stato invitato alla Sorbona per discutere ancora con filosofi fenomenologi, riguardo la nostra scoperta.

La capacità del filosofo è quella di andare a fondo delle definizioni, di trovare delle definizioni anche quelle degli scienziati, che pure sono attenti, per vedere se ci sono degli errori logici, delle contraddizioni con altre cose. Poi, nel caso di Sinigaglia, con cui collaboro già da diversi anni, lui ha imparato molto in neuroscienze, quindi è in grado di discutere con competenza e questo è molto importante perché i filosofi spesso – i grandi filosofi – hanno anche conoscenze in qualcos’altro come fisica, matematica, biologia, per cui quando fanno filosofia hanno anche una parte scientifica.

Con tutto questo interesse per il cervello, è esplosa una “neuromania” che ha coinvolto anche chi – a differenza sua – non dovrebbe essere stato interessato così tanto alla scienza e alle dinamiche del cervello. In che modo le neuroscienze possono dare un valore aggiunto anche alle altre discipline, come ad esempio alla psicologia?

La psicologia in generale descrive i fenomeni, se questi fenomeni poi possono essere descritti in modo più approfondito immettendoci i meccanismi, non toglie niente alla descrizione psicologica. Per esempio sull’attenzione ci sono dei lavori di Michael Posner, che ha inventato un paradigma che dimostra che l’attenzione c’è, è un fatto vero e non è solo una speculazione. Bene, molte cose che abbiamo fatto noi ed altri, mostrano quali sono i meccanismi alla base dell’attenzione. Quindi dirigiamo lo sguardo su cose interessanti o meno. Io direi dunque che c’è un arricchimento. Certo, poi ci sono delle esagerazioni, se uno pensa che può spiegare le religioni guardando il cervello, allora è semplicemente uno stupido.

Se i neuroni specchio sono neuroni sensorimotori che si attivano osservando un’azione senza compierla e senza aver avuto intenzione di farlo, quando vediamo un’azione che rientra nel nostro bagaglio di potenzialità attuabili, significa dunque che il nostro cervello ne sta facendo esperienza? Se vedo un padre che dà uno schiaffo ad un figlio, è come se il mio cervello abbia fatto esperienza dell’azione violenta? O forse del gesto subìto?

Qui è vera l’interpretazione. Nel caso specifico che ha citato c’è anche una componente emozionale, comunque quando io vedo un atto come quello che dice lei, capisco l’azione mediante un certo circuito dei neuroni specchio e capisco anche l’aspetto emozionale che ci sta dietro, cioè la violenza fatta sul bambino e li comprendo entrambi automaticamente. Poi quello che faccio dipende dalla mia cultura, la mia volontà, i miei rapporti con questa coppia, ci sono molti fattori. Se vedo che è un papà buono, che semplicemente dà uno schiaffetto al bambino, non agisco; ma se vedo che è un criminale che dà un schiaffo ad una signora, allora se sono una persona per bene intervengo.

Si sente spesso collegare il concetto di empatia con quello di neuroni specchio: è possibile che la ricerca futura possa direzionarsi verso scoperte utili all’essere all’uomo nel mondo delle relazioni con il prossimo? Si può intervenire o educare il cervello abituandolo con la sola vista e contaminandolo quindi con caratteristiche e situazioni vitali e positive?

Innanzitutto l’empatia, come la usiamo noi scienziati o perlomeno nel mio gruppo, è semplicemente la capacità di capire mediante un meccanismo fenomenologico, quindi automaticamente, senza ragionamenti, l’azione ed emozione altrui. Quindi l’empatia è un meccanismo di comprensione. Poi come si possa gestire, io non l’ho studiato, ma penso che sicuramente ci siano dei meccanismi di controllo. Ad esempio un chirurgo quando opera vede sangue, ma non gli suscita l’emozione che porterebbe ad una persona non abituata. Di conseguenza ci sono certamente dei meccanismi di controllo, ma ancora non è conosciuto come questi meccanismi si possono sviluppare: sentire di meno le emozioni oppure per potenziare la capacità empatica. Alcuni hanno provato dei farmaci come l’ossitocina, che sugli animali effettivamente migliora il rapporto tra esseri. Nonostante ciò, siamo ancora lontani da una soluzione e l’utilizzo di farmaci rimane pericoloso.

In che modo il mondo virtuale può sfruttare il meccanismo dei neuroni specchio e aumentare le potenzialità di un essere umano?

Se per realtà aumentata intende internet, è molto preoccupante. Internet è splendido come fonte di conoscenza: se non ricordo quando è nato il ministro Richelieu in pochi istanti posso sapere tutto su di lui; ma per quanto riguarda i rapporti interpersonali, è un grosso problema. Non c’è più quel rapporto corporeo e immediato che ci dicono le neuroscienze essere fondamentale. Una volta, 30 anni fa, quando si pensava che fossimo semplicemente elaboratori e computer, non c’era un’attenzione a questi dettagli. Invece oggi sappiamo che il rapporto corporeo, umano, tra persone è fondamentale per lo sviluppo della personalità.

Ad esempio, una persona, un genitore, che invece di parlare col bambino parla al telefono, trascura il bambino e anche lei si inaridisce. Quindi c’è un notevole rischio che questa realtà estesa diventi un pericolo per i rapporti sociali, per creare rapporti sani, tra individui o tra genitori e figli.

Giacomo Dall’Ava

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La forza dell’abitudine. Ovvero come smettere di mettersi le dita nel naso o di guardare il telefono quando non squilla

Cammini, fai altro, sei impegnato, ma senti vibrare il telefono.
Ti infili una mano in tasca e controlli la notifica.
E così tutte le volte che ti capita di averlo in tasca o a portata di mano. Sempre, quindi.
E poi c’è la curiosità di vedere se qualcuno ti ha scritto, ti ha taggato o ha apprezzato qualche tua azione sui social. Anche quando non vibra.
A un certo punto la mano scivola al telefono in automatico.
Si è creata un abitudine. Ma non solo, si è creato qualcosa di ancor più forte: un rito.
Il rito dell’abitudine. E così per la maggior parte delle azioni che ci partono in automatico: segnale, routine, gratificazione. Segnale, routine, gratificazione. Questo è il circolo vizioso che si mette in atto. E poi a ripetizione ogni giorno, ogni ora, ogni minuto.

Dopo un po’ il segnale non serve nemmeno più, tant’è che possiamo mettere silenzioso e fregarcene dell’input. Controlleremo comunque in maniera spasmodica il telefono come se fosse in perenne stato vibrazione, e per qualcuno non serve nemmeno il “come se”.
Alla base ci sta la gratificazione di un bisogno, qualcosa che ardentemente vuoi soddisfare e che ti richiederebbe troppe energie se ogni volta dovessi riprogrammare l’azione per farlo.
E allora trovi un modo semplice, veloce, immediato. Lo metti in atto un po’ di volte e ti prendi tutta la goduria del risultato.

Se vuoi stroncare un’abitudine devi quindi provare a farlo all’inizio, quando ancora c’è il segnale che ti chiede di trovare una soluzione al bisogno.
Se arrivi troppo tardi, cioè se la tua gratificazione parte anche quando non c’è più il segnale, è – appunto – troppo tardi.
Non abbiamo più margine di manovra per estirpare quella dannata abitudine.
Prendi un bambino (per carità non prendere te come esempio: eri l’unico a non farlo). Prendi un bambino e insegnagli a non mettersi le mani nel naso. Puoi farlo, ma prima che quella sia diventata un’abitudine radicata. Se arrivi un attimo dopo, il gesto gli parte in automatico e non c’è più un controllo consapevole sul movimento.

Come fare? In questo caso intervengono forze maggiori. I poteri forti che riescono a influenzarci anche contro la nostra volontà o contro la nostra consapevolezza: la pressione sociale.
Ma per lo smartphone non c’è nessuna pubblica gogna se lo controlliamo in maniera forsennata e incontrollabile.

Allora dobbiamo ricorrere a qualcos’altro. Anche perché personalmente molti non la ritengono nemmeno un’azione automatica di cui liberarsi. Fa parte di quel meccanismo spontaneo, come quando si apre il frigorifero anche se non stiamo cercando del cibo. Facciamo solo un rapido check-up, e se qualcosa ci cattura, la cattureremo a nostra volta.

Abbiamo bisogno di qualcosa che vada oltre la chimica sinaptica.
Il cervello risente della crisi da millenni, e cerca di mettere in atto un’economia cognitiva che punta al risparmio. Risparmio di tempo, di energie, di ragionamenti.
Se qualcosa è superflua, non la fa.
Se capisce che il telefono lo guardi anche quando non suona, smette di aspettare che suoni per darti l’idea di guardare se è suonato. (Che poi non si è nemmeno sicuri che sia colpa del cervello, che sia lui a lanciare alla persona l’idea di fare qualcosa di spontaneo e inconscio.)

Non c’è scampo insomma, se arriviamo dopo il superamento di questa soglia. L’abitudine ha già preso casa e cambiato gli infissi. Non si sfratta.
Quando insomma non abbiamo alcun motivo intrinseco o estrinseco a cambiare abitudine, o non ci rendiamo nemmeno conto di averne una, come fare?
C’è solo un modo per farla andar via, per farla annichilire sotto gli sferzanti colpi della nostra motivazione e della nostra sete di miglioramento.

Per togliere un’abitudine possiamo solo costruirci sopra un’altra abitudine.

Dobbiamo quindi impegnarci nel costruire un ciclo dell’abitudine forzato sopra all’altra abitudine. E quindi: segnale, routine, gratificazione. Ma questa volta controllati. Fino a che non serviranno più né il segnale né il nostro controllo. E dobbiamo essere intransigenti, dannatamente intransigenti.
Chiodo schiaccia chiodo, insomma. Eppure ci avevano detto che quando si viene lasciati da una ragazza non funziona.
Con il cervello invece sì.
E non sto dicendo che “ragazza” e “cervello” siano due cose opposte, sia chiaro.
Ma chiodo schiaccia chiodo funziona. O al limite lo facciamo funzionare, schiacciandone uno sullo schermo del telefono per fissarlo al tavolo.

Giacomo Dall’Ava

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Intervista a Eugenio Borgna: tra psichiatria e filosofia

Eugenio Borgna è primario emerito di Psichiatria dell’Ospedale Maggiore di Novara e libero docente in Clinica delle malattie nervose e mentali presso l’Università di Milano. Fra le più recenti pubblicazioni ricordiamo: Parlarsi. La comunicazione perduta (Einaudi 2015), L’indicibile tenerezza (Feltrinelli 2016) e Responsabilità e speranza (Einaudi 2016).
Ho l’occasione di incontrare il professore successivamente al suo intervento al Festival di Pordenonelegge. Si concede alle mie domande e ai microfoni dei miei due gentili colleghi e amici. Ci accoglie con la cordialità e la pacatezza dei gesti che lo contraddistinguono in ogni sua manifestazione, sia essa scritta o orale e con la coerenza di chi cerca di vivere i valori dei quali si fa portatore. Al termine di ogni domanda si sincera di aver esaudito le mie richieste. Una delicatezza autentica, di un uomo di grande cultura e profondità spirituale, che nella propria esistenza ha scelto di condividere la sua straordinaria sensibilità e umanità per avvicinare le ferite dell’anima ed alleviarne le sofferenze, attraverso l’ascolto, la comprensione e l’empatia.

Professor Borgna, nel suo ultimo libro Responsabilità e speranza lei afferma che «conoscere se stessi e gli altri è il modo più intenso di essere responsabili. Ma la vita è, insieme, proiezione di speranza». Può illustrarci quale rapporto intercorre tra responsabilità e speranza?

La speranza allarga la capacità che noi abbiamo di prevedere le azioni che esercitiamo sugli altri. Se la speranza non c’è in noi, vi è il rischio di esaurire il giudizio. Senza la speranza il futuro si chiude, si raggruma, si isterilisce. Finché la speranza vive in noi, come ha continuamente detto Leopardi, riusciamo a vivere. Senza speranza diventiamo delle monadi con porte e finestre chiuse, senza riuscire a intuire quello che c’è nell’animo delle persone. La speranza è memoria del futuro, è la premessa affinché si costruiscano relazioni umane autentiche fondate sulla corrispondenza, la concordanza e la pace; nonché la capacità di intuire, accettare e accogliere le nostre debolezze senza mai sottolineare e rimarcare quelle che sono le differenze negli altri.

Cerchiamo poi di cogliere il sorriso di un’anima anche quando le lacrime scendono senza fine. Ci sono lacrime che testimoniano un sorriso ancora più umano, ancora più creativo, ancora più capace soprattutto di oltrepassare le terrificanti barriere dell’odio, della violenza, del risentimento. La speranza va intesa come “nemica mortale” della violenza. Se si spera poi, si riescono a cogliere e intravedere scintille, apparentemente invisibili, che ci aiutano a dare un senso alla vita. Attraverso la speranza la nostra vita si fa più intensa, più capace di carità, di fede, più capace soprattutto di vivere e comprendere i dolori indicibili del sofferente. Senza speranza, potremmo anche essere giganti del pensiero, ma con i piedi di gesso.

Lo psichiatra Viktor Frankl sosteneva che l’uomo che non si proietta/progetta nel futuro facilmente smarrisce il senso della propria vita. Cosa ne pensa? E in che modo, secondo lei, la speranza ci apre al futuro?

Conosco molto bene i libri di Frankl. Credo che riescano a cogliere alcuni aspetti essenziali della vita dello spirito. Al contempo ritengo che lo psichiatra viennese sia però minato da quella che per me è stata la sua defaillance e cioè il pensiero di poter generalizzare situazioni, come quelle che lei mi ha descritto, che valgono solo in determinate circostanze e soprattutto con determinate personalità. Quindi, senza dubbio il pensiero di Frankl è un lume e una finestra aperta per uscire dai grovigli dell’egocentrismo e della solitudine. Tuttavia, eviterei di trasferire questa indicazione pratica e terapeutica in un sistema ideologico. Per cui, una tesi così secca come quella che lei mi ha espresso, non mi sembra sempre sostenibile. Riconosco comunque la qualità dei suoi scritti, tradotti anche dalla Morcelliana, che hanno senza dubbio un grande valore euristico.

In che misura la filosofia, e la fenomenologia in particolar modo, si sono integrate nella sua attività di medico psichiatra a diretto contatto con la sofferenza?

Come accade di frequente nella vita certe strade si aprono così, improvvisamente, senza che vengano direttamente cercate. Inizialmente io in clinica universitaria mi occupavo di neurologia, ma di casi di psichiatria ce n’erano pochissimi e venivano considerati come non degni di uno studio scientifico, come invece avrebbero dovuto essere tutti i casi di neurologia. Tuttavia, incontrando alcuni pazienti, ospiti in questa clinica famosissima, mi sono accorto che gli aspetti materiali, organici, cioè neurologici, mi interessavano relativamente, mentre mi interessava il risvolto interiore, cioè come quei pazienti vivevano i propri disturbi, le proprie malattie, i propri handicap, la propria disperazione. Da lì, quindi, ho seguito i pazienti che non avevano problemi neurologici specifici, ma che invece erano pazienti depressi e ansiosi. Quindi, non i grandi pazienti psicotici, cioè non schizofrenici, ma depressi, ansiosi, ossessivi. Ho capito che volevo seguire quella strada, altrimenti non avrei combinato niente, anche perché non ho grandi attitudini mediche pratiche, chirurgiche.

Inoltre, essendo uno dei pochissimi psichiatri italiani che conoscono il tedesco, ho potuto leggere, nel 1955, Allgemeine Psychopathologie, grande libro di Jaspers (scritto quando aveva appena trent’anni e che ancor oggi si studia), uscito nel 1913 in Germania e tradotto in Italia nel 1964. Jaspers a trent’anni si ammalava di tubercolosi e non potendo più fare lo psichiatra divenne filosofo. Uno dei grandi filosofi, che introdusse un nuovo parametro di conoscenza della psicologia sulla base delle idee fenomenologiche che erano state introdotte da Husserl prima e da Scheler dopo, per cui l’oggetto della psichiatria non sarebbe più stato il cervello, come oggetto neurologico, ma l’anima, cioè i sentimenti, le emozioni, i pensieri, i comportamenti che si possono riconoscere però soltanto se noi cerchiamo di metterci nei panni di chi soffre. Sembra la scoperta dell’uovo di Colombo, eppure questo concetto dell’einfuhlung, cioè dell’immedesimazione, ha davvero cambiato il mondo. Infatti, immergendoci e cercando di ricostruire la storia e le vicende della vita del paziente ci si è accorti di come avesse grande importanza nella cura anche il sentire come proprie queste sofferenze e il capire che non appartenevano ad un altro mondo, anche se espressione di esistenze lacerate e sofferenti; spesso dotate di qualità umane superiori a quelle che noi nella nostra umanità raggiungiamo.

Per esempio, Jaspers ha scritto un libro su Van Gogh, applicando per la prima volta anche nella storia dell’arte la categoria dell’immedesimazione per capire il motivo di questi particolari gialli del pittore olandese, questa sua schizofrenia, l’orecchio tagliato e l’esito del suicidio.

Il concetto stesso di speranza sembra oggi molto lontano dal vocabolario di adolescenti e giovani, che si confrontano con una società che spesso non crede in loro, se non a parole, e che è priva di ogni genere di certezze e stabili opportunità. Quale consiglio si sente di dare loro affinché non perdano la speranza nel futuro e in particolare in un futuro migliore?

Questo è un tasto molto delicato perché tendo, anche con i pazienti, a non dare consigli, tendo a non fare domande. Tendo, se ci riesco, a fare in modo che chi sta male, riesca a dire le cose che sente e se le sente, perché non sono un poliziotto come tanti psichiatri o psicologi che fanno domande in continuazione perdendo di vista il rapporto terapeutico e la relazione. Per cui, i consigli possono essere solo quelli che vengono dalla testimonianza, dall’esperienza, dagli studi e dai libri di alcuni importanti psichiatri o filosofi fra i quali Basaglia o Jaspers (pur nella complessità dei suoi scritti) o magari qualcuno dei miei libri relativi alla speranza.

Alessandro Tonon

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La fine della psicologia e l’avvento delle scienze cognitive come strumento irrinunciabile per l’operatore giuridico

Trattare il tema dei risvolti cognitivi, cerebrali, neurologici e mentalisti che possono avere ricadute sul processo penale, sia per ciò che attiene il soggetto destinatario del giudizio di colpevolezza (od innocenza) sia per i “protagonisti tipici” della “contesa togata” (accusa, difesa e, in ultima analisi, il giudice) non deve rimanere un esercizio di stile o una “chiacchiera” più o meno colta; è necessario cogliere le ricadute di detta materia nuova “nel pratico” e ciò al fine di gestire meglio la materia processuale e, se possibile, individuare una nuova frontiera al tema della legalità e del giusto processo (il “due process of law” della Costituzione americana ed il “giusto processo” del nostro articolo 111 della Carta Costituzionale).

Al fine di evitare che la sponda giuridica spazzi via le nuove conoscenze è importante non rischiare di cadere nella trappola (quasi un bias cognitivo-processuale) in cui è cascata la psicologia: questa infatti si è affermata con forza nella società come un aspetto determinante del decidere dell’uomo, ma le regole giuridiche l’hanno relegata ai margini della vicenda giudiziaria, stabilendo, sia in ambito sostanziale che processuale, la sua irrilevanza. Valgano ad esempio due dati normativi: gli “stati emotivi e passionali” non incidono sulla libertà di scelta e dunque sulla volontà dell’agire criminale e, dall’altro, il decidere del giudice è, sempre e comunque, libero (e dunque non influenzato o influenzabile dalla psiche) salvo le patologiche e quasi paradossali condizioni soggettive di cointeressenza con la vicenda del giudizio, così come statuito dalla disciplina sulla ricusazione e l’astensione. Come dire: chi delinque e chi deve giudicare sono soggetti che, nel loro “fare” specifico, si distaccano dall’uomo comune, il cives di tutti i giorni per il quale, al contrario, i giudizi (e talvolta le giustificazioni) di ordine psicologico sono il consolidato e normale metro di valutazione rispetto alle condotte prescelte (purché extragiuridiche). E’ ultroneo scomodare il filosofo Popper per affermare che la psicologia non è una scienza in quanto i suoi assunti sono (forse) affascinanti ma del tutto privi di falsificabilità e dunque mai potranno entrare nell’Olimpo delle conoscenze “vere”.

E’ indimostrabile che l’uomo agisca in virtù di moti dello spirito o di impalpabili reminescenze della propria vita inconscia. In questo senso le scienze cognitive (considerate nella globalità delle discipline che compongono lo studio del cervello) riportano il pensiero interiore (la mente) ad analisi molto più “terrene” e concrete. Il cervello è come una montagna innevata e le connessioni neurali come le tracce che gli sciatori lasciano sulla neve. Più un percorso viene solcato, maggiore ed automatica sarà la scelta a favore di quei solchi già impressi che saranno la pista prescelta per una nuova “discesa dalla montagna” (metaforizzando così il tema del sistema decisorio del cervello). Modificare i percorsi neurali è possibile (per la plasticità del cervello) ma è, allo stesso tempo, quasi impossibile in quanto, “electa una via”, il cervello, che è una macchina a risparmio energetico, adotterà, in via intuitiva, sempre quella sperimentata. Da qui le euristiche ed i bias che sono proprio il frutto degli automatismi con i quali la corteccia decide “saggiamente”, secondo una modalità paragonabile al sistema del “copia e incolla”. Ma la diversità delle situazioni reali costituisce un pericolo di errore nella scelta del percorso; la bibliografia esperienziale può infatti azzeccarci oppure no, rilevare assonanze e similitudini più o meno reali. I passaggi della psicologia sono, dunque, messi in crisi, non solo dal diritto, ma anche dalle scienze cognitive. Al posto degli “umori soggettivi” vi sono gli stati fisici da cui possono derivare gli stati mentali ma senza che questi ultimi possano avere vita autonoma (semmai l’aspetto emotivo della memoria bibliografica è data da un altro stato fisico, quello offerto dal “condimento” – positivo o negativo – che i neurotrasmettitori “spruzzano” nel momento in cui si ha una connessione neurale e dunque la formazione di un “pattern” bibliografico nel cervello).

Ed ancora: in luogo dell’inconscio si ha la memoria bibliografica che è composta da queste “stampe esperienziali” che si accumulano quotidianamente nel cervello (con il sistema dei “like” operato dai neurotrasmettitori) e che vengono riesumate dai neuroni al momento del fare. Questi, a velocità altissima ed in modalità precosciente, pescano dalla memoria neurale l’azione da compiere (quella con il miglior “rating”) e danno vita al copia e incolla del fare. Il diritto teme che tutto ciò vada ad intaccare il libero arbitrio. In effetti la gamma delle scelte, alla luce di questo funzionamento cerebrale, non è assoluta e kantianamente universale, ma è il frutto del vissuto e dunque parziale e limitata. Ma ciò non deve far temere per la tenuta del dolo: questo infatti diviene il prodotto delle micro-scelte quotidiane, non spostando la responsabilità dal soggetto agente verso scelte deterministiche e neolombrosiane.

In ogni caso, per evitare che le scienze cognitive siano respinte dal diritto (nel timore che queste possano sconvolgerne i dogmi) non bisogna forzarne l’inserimento nel tessuto normativo ma debbono diventare uno strumento da utilizzare “sotto traccia”, al fine di “leggere il processo” nei suoi passaggi salienti. Al pari di come lo sportivo “legge” la gara e sa adattarsi alla realtà per raggiungere la mossa vincente, così l’operatore del diritto deve muoversi nell’agone giudiziario tenendo sempre per mano, da un lato, la norma e la sua interpretazione, dall’altro, il funzionamento del cervello, le modalità operative delle euristiche e dei bias e ciò per cogliere, attimo dopo attimo, la mossa migliore sulla scacchiera processuale. Questa non è psicologia (che, come scienza, è ormai divenuta un utensile del passato): è conoscenza del funzionamento del cervello.

Certamente anche le scienze cognitive ed in specie la prammatica delle neuroscienze possono avere dei risvolti pratici. Basti pensare alla scoperta di lesioni della corteccia cerebrale tali da influenzare in modo patologico il decidere. Ma questi risvolti, al pari di quelli psichiatrici, operano in via eccezionale e, come detto, sulla patologia (l’infermità). Mentre la conoscenza della materia cognitiva opera sulle modalità ordinarie del fare umano. Che non cambiano e non possono cambiare per il solo fatto della commissione del reato o dell’indossamento della toga. Ma non solo: anche il tema probatorio può far emergere la materia cognitiva: basti pensare alle euristiche ed alle trappole mentali che può causare la prova scientifica. Ancora una volta: non è psicologia, è il prodotto di ciò che il cervello sa di una determinata materia. Per tutte queste ragioni, talune di ordine “tattico”, altre di ordine più tipicamente probatorio, il diritto penale cognitivo, materia introdotta da Justice of Mind come pilastro del diritto del Nuovo Millennio, deve divenire lo strumento fondamentale per chiunque voglia approcciarsi ai temi giuridici.

Luca D’Auria

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La paura che corrode

In ogni giorno di festa, quando mettiamo piede fuori casa in mezzo alla gente, stiamo iniziando a sentire una sensazione diversa. Ci assale una sorta di agorafobia negli spazi aperti, una paura sociale quando siamo con gli altri, in autobus, passeggiando attraverso una piazza gremita di gente. Pensiamo che possa accadere il peggio, che i fatti di cronaca più terribili possano in quell’istante coinvolgere la nostra città, la nostra vita. Ci guardiamo attorno, attendiamo un’esplosione infernale, cerchiamo di capire da dove potrebbe arrivare e pensiamo a come fuggire…

Invece non accade nulla, continuiamo a fare la passeggiata che ci eravamo programmati, senza però goderci neanche quel giro in santa pace.

L’esplosione non c’è stata e la nostra vita è ancora al sicuro, ma cosa è successo dentro di noi?

Un’esplosione in realtà l’abbiamo subita, siamo stati dilaniati da un ordigno diverso, silenzioso. Un’arma di distruzione di massa ecologica – perché non rovina l’ambiente – ma provoca danni insanabili se lasciata agire costantemente.

Una bomba di paura, terrore, inquietudine e ansia ha pervaso tutto il nostro corpo. Gli effetti sono devastanti. La paura è una emozione che deriva dalla percezione di un pericolo, reale o supposto: non serve cioè che il pericolo ci sia davvero, ma basta che noi ne percepiamo la possibilità. È un’emozione primaria, governata prevalentemente dall’istinto, non possiamo disinnescarla nemmeno con la forza della ragione, con il pensiero della nostra sicurezza.

Ma il terrore che ci ha pervaso non scompare dopo l’esplosione, rimangono radiazioni e conseguenze su tutto il corpo. Le principali reazioni corporee alla paura possono riguardare infatti l’intensificazione delle funzioni fisico/cognitive e l’aumento del livello di attenzione, del costante stato di vigilanza che ci porta stress, tensione, desiderio di fuga. Diventiamo delle belve intente a proteggere il nostro territorio, la nostra incolumità da un nemico che non esiste ma di cui abbiamo paura.

Mentre passeggiamo con lo sguardo sospettoso, il sistema nervoso simpatico (responsabile delle reazioni in caso di emergenza) è più che mai attivo: aumenta il battito cardiaco, la pressione sanguigna, la quantità di glucosio per i muscoli che devono contrarsi per l’attacco o la fuga. Anche se effettivamente non stiamo registrando alcuna informazione paurosa, perché stiamo soltanto facendo shopping, il nostro pensiero terrorizzato innesca l’amigdala, che prende il comando delle nostre reazioni, inibendo le parti del cervello responsabili del pensiero.

Come fermare allora questa concatenazione dannosa di eventi? Se rimaniamo immersi in uno stato di paura, anche quando l’oggetto della paura non c’è, entriamo nella cosiddetta ansia anticipatoria. Ma se anche questo stato d’animo rimane insensato, perché continua ad anticipare qualcosa che non accade, come liberarsene?

Sostituendo.

Dobbiamo sostituire ogni pensiero di paura con un pensiero di speranza, ricostruzione, positività, anche nel dolore di quello che succede. Se non lo faremo, il nostro cervello rimarrà “marcato”, perché accumula ricordi di eventi che ci hanno impaurito, proprio per metterci al riparo da nuovi eventuali pericoli. Ogni volta che cammineremo per strada, non staremo più godendo dell’euforia della giornata, ma innescheremo inconsapevolmente una valanga di reazioni dannose: il battito cardiaco aumenta, i muscoli si contraggono, le pupille si dilatano e il respiro si fa più profondo e rapido.

Il cervello non distingue un pensiero ipotetico da un reale bisogno di fuga o attacco in una situazione di pericolo. Per lui anche il solo pensiero che possa succedere una cosa diventa allarmante e stravolge il nostro equilibrio. Per calmarlo non possiamo fare altro che immergerci in pensieri diversi, forzarci di pensare ad aspetti positivi e propositivi.

Usciamo di casa a testa alta, per goderci un’altra giornata di sole e per schiacciare ogni pensiero di terrore con il nostro benessere.

 

Giacomo Dall’Ava

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Le euristiche del giudice ed il processo penale. Anche il giudice può cadere nelle trappole mentali

Il mondo della giustizia (penale) è un mondo di decisioni. Il giudice è il decisore per eccellenza. Nelle sue mani sono racchiuse le sorti dell’accusato. A sua volta l’accusato è imputato di aver deciso di trasgredire le regole su cui si fonda la comunità in cui vive. Le scienze cognitive affrontano il tema della decisione mettendo in luce come il cervello, con i neuroni, le sinapsi ed i neurotrasmettitori, determina le decisioni nell’interazione col mondo, utilizzando i percorsi “stampati” nelle connessioni cerebrali. Tutto questo è il frutto dell’apprendimento. Questo è il vero pilota della nostra vita, spesso automatico in quanto “sicuro di sé” (l’apprendimento serve proprio a non dover sempre “ragionare” su ogni scelta) e gioca una partita a scacchi con il DNA ed il caso. Ne scaturisce un uomo ben diverso da quel “legislatore universale” che vorrebbe Kant; chi potrebbe dirsi capace di decidere in modo così “angelico” come avrebbe voluto il Padre Nobile dell’illuminismo? E’ vero, l’Occidente è figlio di quella tradizione che, però, presa dogmaticamente, rischia di trasformarsi in un paradigma antistorico. Il diritto penale applicato è uno dei campi che restano maggiormente ancorati a questo dogma. Il giudice deve decidere secondo il suo “libero convincimento” ed il reo deve aver deciso con “libertà d’intendere e di volere”.

Sia concesso qualche ragionamento sul giudice. Il codice impone che la decisione sia logica, libera, rispettosa delle regole processuali. I caratteri quasi religiosi di questo strumento di gestione della collettività sono di immediata intuizione. La toga, lo scranno ed i simboli dell’Ordine giudiziario ne sono la rappresentazione “pop”. Questi sono solo all’apparenza inutili. Lo “jusdicere” deve affascinare, fare paura, creare rispetto. E non essere discusso nei suoi aspetti più profondi: quelli che attengono alla libertà del decidere. Oggi qualsiasi scienziato cognitivo afferma che è una chimera sostenere la piena logicità del nostro fare; le euristiche e cioè le scorciatoie che in ogni istante il cervello plastico prende per agire senza sorprese, determinano il fare e convincono la coscienza di aver scelto “la via giusta”. Talvolta è così; altre volte si tratta di trappole mentali che determinano i bias cognitivi e cioè errori di rapporto tra il mentale e la realtà che vuole una risposta. Questi colpiscono tutti, sempre. Sono modalità decisorie normali, utili ed adattive. Insano sarebbe un metodo diverso. E’ vero per tutti e tutto tranne che per il giudice? Non risultano individuate da nessuno le trappole mentali e dunque le euristiche causatrici di bias cerebrali specificatamente riferite alla funzione della decisione giudiziale. Di contro, la psicologia cognitiva, come è noto, ha catalogato quelle più comuni che inficiano il ragionamento.

Un seppur superficiale e non esaustivo elenco delle trappole mentali giudiziarie è necessario ed utile per una corretta comprensione della decisione giudiziaria. Alle comuni euristiche possono affiancarsi le seguenti trappole mentali tipicamente giudiziarie:

Tolomeo mental trap: la trappola mentale di Tolomeo riguarda tutti gli errori nei quali può incorrere il giudice rispetto alla prova tecnica o scientifica. Tale fonte conoscitiva esula infatti dalle sue competenze e dunque chi decide può essere fuorviato dall’idea astratta che un certo mezzo conoscitivo porta con sé (si pensi alla prova del DNA) trascurando le emergenze che nel singolo caso possono rendere non affidabile la fonte di prova.

Aristotele mental trap: la trappola di Aristotele consiste nel rischio che il giudice confonda il tipo di sillogismo da applicare in sede giudiziaria; in specie non utilizzi il metodo induttivo che va dal particolare (la fonte di prova) al generale (la prova della commissione del fatto) ma si attesti sul sillogismo deduttivo che, per definizione, non dimostra nulla in quanto la premessa maggiore contiene già la conclusione.

Wig mental trap: è la trappola della parrucca (simbolo del giudicante ma anche delle parti processuali). Si può verificare ogni qualvolta il giudice non valuti la prova così come offerta dall’istruzione ma faccia prevalere il proprio ruolo di garante della collettività e dunque si trovi a decidere in base a ciò che ritiene giusto per il ruolo ricoperto più che in base agli atti.

Josef K mental trap: è la trappola mentale dell’accusato. Nel celebre romanzo di Kafka (Il Processo) Josef K viene accusato e condannato e il protagonista stesso non trova la modalità per dimostrare l’infondatezza dell’accusa.

Giovanna d’Arco mental trap: la trappola mentale di Giovanna d’Arco può colpire il giudice nella valutazione della deposizione vittima del reato. In questi casi il giudice può dare eccessivo credito alla versione di chi lamenta di aver subìto un reato oppure, al contrario, la vittima può essere, a suo volta, “vittima” di uno svilimento delle proprie ragioni.

Dr. Watson mental trap: è la trappola mentale del poliziotto. Investe il giudice ogni qualvolta crede alla ricostruzione della polizia anche se questa diventa un postulato.

Black money mental trap: la trappola del “denaro nero” riguarda il giudizio che attiene ogni utilizzo sospetto del denaro stesso.

Eyes mental trap: la trappola mentale degli occhi attiene a tutte quelle situazioni in cui il giudice deve porsi nella condizione di “cosa avrebbe visto” l’agente prima della commissione del fatto e non già “guardando” al suo comportamento in ragione dell’evento accaduto.

Ink mental trap: la trappola dell’inchiostro si ha ogni volta in cui il giudice è chiamato a decidere sulla base di documenti o, ancora di più, di intercettazioni trascritte. Queste ultime possono infatti essere lette in svariati modi e sensi in quanto la trascrizione scritta delle medesime non permette di comprenderne i toni e dunque il valore “indiziante” delle medesime.

Due process of law mental trap: la trappola mentale del “giusto processo” è l’errore di sistema processuale per cui il giudice sente per prima la versione dell’accusa. Questa garanzia giuridica per l’accusato, sul fronte delle scienze cognitive, costituisce trappola mentale in quanto i neuroni vengono “segnati indelebilmente” dalla prima versione proposta (al giudice).

Pop justice mental trap: la trappola causata dal “lato pop” della giustizia attiene a tutte quelle influenze esterne che possono riverberarsi sul processo (si pensi alla così detta giustizia mediatica) ma ancora di più riguarda la funzione general preventiva della pena. Questa infatti può portare il giudice a decidere proiettandosi verso la società e non già rimanendo strettamente legato alla prova.

Old sage mental trap: è la trappola mentale del “vecchio saggio” o “saggio precedente giurisprudenziale” preso in esame dal giudice. In realtà è esperienza comune verificare come la giurisprudenza, anche consolidata, non sia sempre immediatamente utilizzabile come “stare decisis” in una nuova.

Hans Georg Gadamer mental trap: la trappola mentale di Georg Gadamer si verifica ogniqualvolta in giudice applica l’ermeneutica in luogo dell’epistemologia. L’ermeneutica, infatti, metodologia tipica dello storico, consente di “riempire” i vuoti informativi usando la scienza propria dell’interprete. Comprendere le trappole mentali del giudice non è un modo per svilirne l’attività ma, anzi, per consentire una maggior aderenza giuridica delle sentenze alle esigenze imposte dalle regole sulla prova penale.

Luca d’Auria

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