Filosofia e fisica per una nuova chiave della realtà. Intervista a Fabio Fracas

Fabio Fracas – già Docente Invitato per la SISF/ISRE, Scuola Superiore Internazionale di Scienze della Formazione, e Graduate Research Assistant presso la Florida Atlantic University di Boca Raton, USA – è docente di Fisica applicata alla Radioterapia e alla Radioprotezione presso il Dipartimento di Medicina dell’Università di Padova, dal 2019 è Scientic Associate presso il CERN di Ginevra. I suoi attuali interessi di ricerca sono rivolti all’interazione fra il cervello e le radiazioni elettromagnetiche e meccaniche. ma è anche anche scrittore e fondatore di una scuola di scrittura, e al tempo stesso sviluppatore di giochi di ruolo, nonché critico cinematografico e musicista, nel senso che la musica l’ha studiata (è laureato in Musica Elettronica) e la compone, oltre a scriverne su riviste specializzate.

Fabio Fracas è uno di quei fisici assolutamente atipici: un grande bagaglio culturale e una predisposizione spiccata a mettere in dialogo la Fisica con tutte le arti e discipline, con la vita in generale. Umile e mosso da una forte passione, è una di quelle persone che sa osservare il mondo con quella meraviglia pura tipica dei bambini, relazionandosi così coi tanti dubbi che la scienza è capace di suscitare in chi vi si avvicina con umiltà e con passione. Il suo ultimo libro Il mondo secondo la fisica quantistica, è un viaggio attraverso qualcosa di nuovo e affascinante: lo studio della Fisica Quantistica, delle sue logiche, delle sue potenzialità, delle sue applicazioni e dei suoi possibili sviluppi. Avvalendosi di contributi nuovi e di interviste inedite e esclusive, i dieci capitoli che lo compongono ricostruiscono i momenti fondamentali del pensiero quantistico. Sullo sfondo delle ricerche più attuali, il libro utilizza le voci e le esperienze di chi con la fisica quantistica e grazie alla fisica quantistica riscrive ogni giorno un pezzo di realtà.

 

Nel tuo libro Il mondo secondo la Fisica Quantistica” (Sperling&Kupfer Editore) affermi «La fisica quantistica riscuote una così forte attenzione, anche da parte di persona che mai si sarebbero interessate alla fisica classica, perché ha l’innegabile fascino di sconvolgere tutte le nostre conoscenze, tutto ciò che diamo per scontato». A fronte di questo fascino capace di sconvolgere tutte le nostre conoscenze, può dirci con quale scoperta e con chi nacque la fisica quantistica? Forse è bene anche fissare quale sia la distinzione tra la Fisica Quantistica e la fisica tradizionale, cercando di capire che la fisica classica e la fisica quantistica sono due strumenti che hanno caratteristiche differenti e si occupano di due distinti piani della natura.

In effetti, più che di fisica tradizionale, per evitare fraintendimenti, bisognerebbe parlare proprio di Fisica Classica. Da un certo punto di vista, infatti, anche la Fisica Quantistica può essere considerata “tradizionale” poiché la sua nascita risale al lontano 1900. Nell’ottobre di quell’anno, Max Planck arrivò a formulare la famosa legge E = h ∙ ν che stabilisce che l’energia posseduta da una radiazione è proporzionale alla sua frequenza moltiplicata per un valore costante chiamato inizialmente “quanto d’azione”. Valore che oggi conosciamo semplicemente con il nome di costante di Planck. Tornando alla differenza esistente fra la Fisica Quantistica e la Fisica Classica, allora, è possibile spiegarla chiarendo che la prima si occupa di descrivere il comportamento della materia e delle radiazioni – comprese le loro interazioni reciproche – su scala atomica e subatomica. La Fisica Classica, invece, fa riferimento a tutte quelle teorie e a quei modelli che descrivono i vari fenomeni fisici a eccezione di quelli che rientrano nella Fisica Quantistica, nella Relatività Generale o in altre teorie ancora più recenti. Oltre alla meccanica, nella Fisica Classica possiamo far rientrare la termodinamica, l’elettromagnetismo, la gravità newtoniana, l’ottica, l’acustica e persino – secondo l’opinione del grande fisico Richard Feynman – la Relatività Ristretta del 1905.

«Mi rendo conto che uno dei problemi principali legati alla comprensione della fisica – e di conseguenza, della visione del mondo che essa offre – deriva dal fatto che spesso non si riesce a comunicare efficacemente la grande semplicità dei concetti che sono alla base anche delle formulazioni più complesse. È compito di chi la insegna e di chi si occupa della sua divulgazione cercare di superare questo scoglio, offrendo a studenti e lettori delle chiavi di interpretazione il più possibile semplici e dirette». Il problema di cui parli in questo breve passaggio, trovo possa essere esteso anche a molte altre discipline che molto spesso vivono chiuse entro le mura accademiche o in centri di ricerca scientifici. Inoltre, dal punto di vista di un pubblico ampio ed eterogeneo spesso si considerano la matematica, la fisica, ma anche la filosofia e la psicologica come discipline riservate solo ad un élite di studiosi. Secondo te come è possibile accorciare le distanze tra lo specialismo, tipico degli ambienti di ricerca, e un pubblico ampio ed eterogeneo? Detto altrimenti, come possono queste discipline comunicare in modo divulgativo pur rispettandone il loro rigore?

Bisogna ripartire dal concetto stesso di “divulgazione” e dall’etimologia della parola. Divulgare deriva dall’omonimo termine latino e significa diffondere fra il volgo, ovvero: rendere noto a tutti; rendere comune, generale. Quindi, quando si fa divulgazione si deve cercare di rendere generali, comprensibili da tutti, idee e significati che, nella quotidianità, non sempre lo sono. Molto spesso, a volte anche per necessità, le varie discipline – indipendentemente dal fatto che si tratti di materie scientifiche o umanistiche – tendono a sviluppare un proprio linguaggio, un lessico specifico, che permetta agli addetti ai lavori di comprendersi velocemente e senza fraintendimenti. Se portata all’esterno, però, questa stessa modalità di scambio delle informazioni risulta il più delle volte incomprensibile. È questo lo “scoglio” al quale facevo riferimento nel brano citato. Uno scoglio che è possibile superare, a mio avviso, evitando di ricorrere a tecnicismi eccessivi e rendendo accessibili con esempi e terminologie più vicine al vissuto di quel pubblico eterogeneo a cui ci stiamo rivolgendo, i temi che si stanno affrontando. È un equilibrio non semplice da ottenere perché da un lato ci sono le esigenze legate alla comprensione mentre dall’altro c’è la necessità di trasferire le informazioni nella loro integrità e senza banalizzarle. Ottenerlo, sempre dal mio punto di vista, dev’essere l’obiettivo di chiunque si occupi di divulgazione.

«Oggi, uno degli aspetti che lascia maggiormente sconcertati quando ci si avvicina alle logiche della Fisica Quantistica è il carattere di incertezza insisto al loro interno. In un mondo determinista e pragmatico come il nostro, lasciare spazio al dubbio e al non conosciuto sembra inaccettabile». Da questo passaggio penso a come Fisica e Filosofia condividano un comune denominatore che le muove, ovvero il dubbio. La prima muove il dubbio di fronte alla realtà fisica dell’esistenza, la seconda, la filosofia, nasce a partire dal ‘perché’ delle cose e dell’esistenza. Aristotele affermava che la filosofia nasce e si sviluppa a partire dal cosiddetto ‘thauma’, quella meraviglia che si genera di fronte alle cose, ma che è allo stesso tempo torpore, una meraviglia che scuote, che lascia l’uomo mai fermo e passivo, ma lo rende reattivo, generativo. Ritieni che in questo momento storico preciso ci sia ancora posto per questa meraviglia? Se sì, come è possibile riscoprirla?

Nel 1900, quando Max Planck scoprì la quantizzazione dell’energia, molti scienziati – e fra questi, Lord Kelvin – erano certi che la fisica avesse già raggiunto tutti i traguardi possibili e che non ci fosse più nulla di nuovo da scoprire, salvo l’ottenere misure sempre più esatte. Eppure, nella notte fra il 7 e l’8 ottobre di quell’anno, nacque una nuova fisica che avrebbe rivoluzionato per sempre la nostra visione del mondo e della realtà: la Fisica Quantistica. Pensare, in un qualunque campo, che non ci sia più nulla di nuovo da scoprire o da realizzare, significa rinunciare alla meraviglia della conoscenza, intesa non come sapere acquisito ma come anelito a una comprensione del mondo sempre in divenire. Come scrisse Albert Einsten nel 1921 sul diario di una studentessa mentre era in visita al liceo classico “Galvani” di Bologna – la ragazza si chiamava Adriana Enriques ed era figlia del matematico Federigo Enriques –: «Lo studio, e in generale la ricerca della verità e della bellezza, sono un campo nel quale ci è lecito restare bambini per tutta la vita». Ed è proprio con la meraviglia con cui i bambini sanno osservare il mondo che tutti noi dovremmo, dal mio punto di vista, relazionarci coi tanti dubbi che la scienza è capace di suscitare in chi vi si avvicina con umiltà e con passione.

Faynman nel suo discorso per premio Nobel per la Fisica nel 1965 si chiede «come mai si può formulare la stessa teoria – che spiega e prevede accadimenti e risultati sperimentali in un contesto specifico – in tanti modi differenti? Forse perché la natura è semplice». Il fisico Giulio Peruzzi, poi, aggiunge: «il fatto che io possa arrivarci anche da strade diverse, invece, apre nuove possibilità e mi permette una maggiore libertà d’azione e di pensiero». È interessante questo spazio di libertà d’azione e di pensiero di cui si parla, perché non solo diventa un approccio di analisi e studio efficace per qualsiasi questione in oggetto, ma perché permette all’uomo di esercitare la capacità di considerare percorsi alternativi di fronte ad un dato problema. Quanto secondo te la fisica insegna all’uomo che non esiste un’unica via praticabile di fronte ad un problema?

Il secondo capitolo del mio saggio Il mondo secondo la Fisica Quantistica” (Sperling&Kupfer Editore) ha il seguente, provocatorio, titolo: «Due è sempre meglio di uno – Ovvero, perché accontentarsi di un’unica teoria?. In effetti, nel caso della Fisica Quantistica è proprio cosi: quelle che chiamiamo con i nomi di “Meccanica delle Matrici” e di “Meccanica Ondulatoria, per fare un esempio, sono due facce della stessa medaglia e concorrono alla comune definizione della “Meccanica Quantistica». Senza entrare troppo nel dettaglio delle varie teorie, la possibilità di rappresentare la Natura con differenti modalità parimenti valide, può essere ben compresa grazie a una frase di Werner Karl Heisenberg: «La fisica non è una rappresentazione della realtà, ma del nostro modo di pensare a essa». In questo senso, la libertà di pensiero, la ricerca di un punto di vista “altro” e la capacità di immaginare differenti approcci allo stesso problema, sono alcuni dei tratti caratteristici che dovrebbe possedere, secondo me, chiunque decida di approcciarsi senza preconcetti allo studio del mondo che ci circonda.

Sulle questione dell’universalità e della verità della scienza mi torna alla mente il filosofo Karl Popper, il quale, per descrivere il proprio approccio filosofico alla scienza, ha coniato l’espressione razionalismo critico che implica il rifiuto dell’empirismo logico, dell’induttivismo e del verificazionismo. Popper pone al centro la fondamentale asimmetria tra verificazione e falsificazione di una teoria scientifica: infatti, per quanto numerose possano essere, le osservazioni sperimentali a favore di una teoria non possono mai provarla definitivamente e basta anche solo una smentita sperimentale per confutarla. Da singoli casi particolari non si potrà mai ricavare una legge valida sempre e in ogni luogo, proprio perché non possiamo fare esperienza dell’universale. La fisica quantistica cos’ha da dire nei confronti di quanto portato avanti da Popper?

Sui concetti di universalità e di verificazione/falsificazione delle teorie scientifiche, così come proposti da Karl Popper, posso fare direttamente riferimento al pensiero di Stephen Hawking: «Qualsiasi teoria fisica è sempre provvisoria, nel senso che è solo un’ipotesi: una teoria fisica non può cioè mai venire provata. Per quante volte i risultati degli esperimenti siano stati in accordo con una teoria, non si può mai essere sicuri di non ottenere la prossima volta un risultato che la contraddica.» Quella di Stephen Hawking non è solo un’affermazione provocatoria: è la base per una più profonda riflessione sul metodo scientifico e sulla sua applicazione alle nuove frontiere della fisica. Il metodo scientifico – così come definito dal celebre scienziato e filosofo Galileo Galilei nella prima metà del XVII secolo – afferma che in base all’osservazione sperimentale degli eventi è sempre possibile stabilire un principio di causalità, cioè una sequenza di azioni concatenate fra loro in cui una data causa produce uno specifico effetto. Non solo: afferma anche, tramite il principio di riproducibilità, che se tutte le condizioni nelle quali si è verificata la causa rimangono identiche, ciò che si otterrà sarà sempre il medesimo effetto. Com’è possibile, allora, che senza cambiare le condizioni degli esperimenti, Stephen Hawking dichiari che si possano ottenere risultati differenti? E la sua, fra l’altro, non è una posizione isolata. Già Werner Heisenberg, nel 1927, l’aveva espressa e persino Richard Phillips Feynman, nel 1963 tenendo una conferenza presso la University of Washington, aveva concluso che “[dalla parola ‘scienza’] molto rimane escluso, fenomeni per i quali l’approccio sperimentale non funziona, e non è escluso che siano importanti. In un certo senso sono i più importanti”.

Nella terza parte del libro affronti le possibili ricadute degli studi della Fisica Quantistica negli ambiti della biologia e della medicina. Quali interventi e quale scoperte sono state fatte in questo versante?

Gli ultimi tre capitoli de Il mondo secondo la Fisica Quantistica nascono dal tentativo di dare una cornice scientifica basata sulle nostre attuali conoscenze ad alcuni temi scottanti e di attualità che negli ultimi anni sono diventati argomento di discussione anche in contesti molto lontani da quelli della ricerca e dell’università. In particolare, ai temi legati alle applicazioni della Fisica Quantistica nei campi della medicina e delle neuroscienze. Dal mio personale punto di vista, dato che alcune delle ipotesi che ho dovuto esaminare sono attualmente in fase di studio e risultano non condivise da tutti i fisici e dalle altre figure professionali che se ne occupano, ho scelto di ritagliarmi un ruolo super partes di osservatore presentando vari punti di vista differenti, spesso anche in contrapposizione fra loro. Punti di vista, supportati da un’ampia bibliografia – disponibile nelle note – che permettessero a chi legge il volume di farsi un’idea quanto più esauriente e imparziale possibile sui vari argomenti. È stato un lavoro particolarmente complesso, soprattutto nella ricerca delle fonti, che mi ha portato a muovermi su un terreno potenzialmente minato: per questo motivo ho deciso di far parlare il più possibile gli stessi protagonisti delle ricerche, offrendo per ogni elemento trattato differenti visioni; anche critiche o totalmente contrarie.

Con l’intervento del prof. Enrico Fracco, e servendoti degli studi di grandi filosofi come Platone, Immanuel Kant e Severino, evidenzi come ‘quanto è conosciuto, è necessariamente parziale e provvisorio, inclusa la conoscenza scientifica’ e dunque ‘la realtà è necessariamente una creazione congiunta del mondo fisico e mondo della coscienza’. Puoi spiegarci meglio in che rapporto si trovano Fisica Quantistica e coscienza? Che cos’è la Mente Quantica?

In relazione al concetto di ipotesi quantistiche applicate ai processi cognitivi, conviene accennare brevemente a quella più famosa e discussa: la Teoria Orch-Or proposta dal matematico Roger Penrose e Stuart Hameroff. Questa teoria, nata originariamente come Teoria Or nel 1989, viene proposta inizialmente nella forma di un’intuizione non suffragata da evidenze sperimentali. Nel volume La mente nuova dell’imperatore, Roger Penrose suggeriva l’ipotesi che il funzionamento del cervello non fosse guidato da algoritmi logici o formali, appartenenti alla fisica classica, bensì da processi quantistici legati al collasso della funzione d’onda. Contemporaneamente, Penrose proponeva anche la nuova definizione di “riduzione obiettiva” per indicare come il momento del collasso dipendesse da fattori concreti legati al rapporto fra la massa e l’energia degli oggetti coinvolti nel processo. In riferimento alla coscienza, la riduzione obiettiva di Penrose proponeva che la determinazione degli stati che subivano il collasso avvenisse in maniera casuale e fosse influenzata anche dalla geometria dello spazio-tempo. All’iniziale formulazione della teoria – considerata fantasiosa da molti ricercatori – diede un determinante contributo il medico anestesista americano Stuart Hameroff, che propose a Penrose, come probabili siti neurologici attivi nell’elaborazione quantistica, le strutture microtubolari presenti nei neuroni. I microtubuli, infatti, sono una delle componenti strutturali del citoscheletro neuronale, e sono i principali componenti dell’apparato di trasporto neuronale a lunga distanza. Questa loro caratteristica, in base agli studi di Hameroff, li rendeva i candidati ideali per la concretizzazione dell’intuizione di Penrose. Dagli studi congiunti dei due scienziati, nel 1994, venne realizzata la pubblicazione “Ombre della mente” contenente l’attuale definizione della Teoria Orch-Or. In essa, il termine “orchestrato” fa riferimento al fatto che i microtubuli esercitino fra loro un’influenza reciproca e come in un’orchestra ben diretta, risultino contemporaneamente influenzati dalle attività classiche legate alle sinapsi neuronali. La teoria di Penrose e Hameroff è stata confutata – fra gli altri – dal fisico e cosmologo svedese Max Erik Tegmark che ha calcolato il lasso di tempo delle dinamiche rilevanti sia per le normali scariche neuronali sia per il trasporto dei segnali nei microtubuli, scoprendolo più lento del tempo di decoerenza di almeno 10 miliardi di volte. Una differenza enorme che riporterebbe i processi relativi alla coscienza dalla scala quantistica alla scala classica.

Concludiamo, come sempre succede nelle nostre interviste, con la domanda un po’ banale e un po’ difficile: che cos’è per te filosofia? Quanto la filosofia è importante nella tua professione di fisico?

Come affermo ancora nel mio saggio, l’evoluzione della Teoria Quantistica non è solo un processo storico che inizia nei primi anni del XX secolo con la scoperta dei quanti energetici e continua, fra il 1925 e il 1926, con la definizione della Meccanica delle Matrici e della Meccanica Ondulatoria. È soprattutto un radicale progresso del pensiero scientifico che proprio negli anni successivi al 1926 comincia ad assumere, spesso autonomamente, anche contorni filosofici. Con questa affermazione non intendo sostenere la tesi che dal 1927 in poi, tutte le discipline scientifiche abbiano dovuto tenere in particolare conto la filosofia perché è stata formalizzata la Fisica Quantistica e il suo innovativo modo di descrivere la materia. Ciò che sto mettendo in evidenza è che la filosofia e la fisica – che dialogano fra loro dal tempo degli antichi greci e probabilmente ancora da prima – con l’avvento della Fisica Quantistica sono state obbligate a confrontarsi profondamente l’una con l’altra per cercare di definire, assieme, una nuova chiave di lettura della realtà. Questa mia personale posizione non è condivisa da tutti i fisici ma trova i propri presupposti sia nel pensiero dei fondatori della rivoluzione quantistica (Albert Einstein, Niels Bohr, Erwin Schrödinger, Werner Heisenberg e Max Born) sia in quello di altri scienziati come Wolfgang Ernst Pauli, David Bohm, Victor John Stenger e persino Carlo Rubbia. Dal mio personale punto di vista, la filosofia ha un’enorme valenza anche a livello formativo. Sono convinto, infatti, che per la crescita di una comprensione della Natura e dell’Universo risulti assolutamente necessario il confronto sia con l’oggettività della materia sia con le idee – con le ‘elucubrazioni’, come direbbero alcuni colleghi – che tramite quell’oggettività ricercano una comprensione più profonda della realtà.

 

Elena Casagrande

 

[immagine tratta da Il Mattino di Padova]

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Fisica estrema. Intervista a Gian Francesco Giudice del CERN

Al confine tra Svizzera e Francia, alla periferia ovest della città di Ginevra, si trova il più grande laboratorio al mondo di fisica delle particelle. Un complesso sotterraneo di sette acceleratori chilometrici, concepiti e costruiti per portare i nuclei degli atomi e altre componenti subatomiche a energie elevate, per osservare in queste condizioni estreme il loro comportamento e comprendere qualcosa in più sul funzionamento dell’universo. Si tratta del CERN di Ginevra, l’organizzazione europea per la fisica nucleare. All’interno di questa struttura lavora Gian Francesco Giudice, scienziato a capo del dipartimento di fisica teorica. Siamo riusciti a raggiungerlo, per gettare grazie alla sua testimonianza uno sguardo verso i limiti della fisica. E provare a riflettere su cosa ci sia oltre.

Ma non solo: il sulla nostra rivista La chiave di Sophia #7, dedicata al tema dell’esperienza del bello, abbiamo costruito assieme a lui un dialogo per cercare di esplorare i legami inaspettati tra il mondo della fisica e la contemplazione estetica. Un articolo per chi è incuriosito dai modi in cui gli approcci di scienza e arte possono contagiarsi l’uno con l’altro.

Quando ci si avvicina ai concetti scientifici di cui si occupa un ente di ricerca come il CERN si prova una vertigine, come se ci si avvicinasse ai limiti della fisica, prossimi ai confini di uno dei campi dello scibile umano. Uno scienziato come lei, abituato a occupare la frontiera in questo continente inesplorato cosa vede nel futuro della scienza nel campo della fisica?

Senza dubbio, la ricerca sviluppata al CERN si situa ai confini della conoscenza umana. Proprio per questo è difficile prevedere cosa ci sia oltre quei confini. L’LHC, il grande collisore di particelle del CERN, sta operando con successo e sta raccogliendo una grande quantità di dati che verranno analizzati negli anni a venire. C’è enorme curiosità di capire cosa si possa dedurre da quei dati. E in tante parti del mondo ci sono esperimenti molto diversi che esplorano i fenomeni estremi dell’universo. Ho la sensazione che nuove scoperte rimescoleranno presto le carte della nostra comprensione della natura, ma c’è una grande incertezza su quale sia l’indizio giusto che farà scaturire la scintilla.

 

La fisica teorica maneggia oggetti e concetti in modo spesso distante dalla nostra esperienza quotidiana: concezioni contro-intuitive di spazio, tempo e materia, quelle nozioni che sembrano così basilari, scontate e solide. Rimanere immerso in un mondo in cui lo sforzo intellettuale richiede fluidità rispetto a idee tanto basilari, è faticoso?

La scoperta paradossale è che i concetti apparentemente contro-intuitivi di spazio, tempo e materia che incontriamo nel mondo delle particelle descrivono la vera realtà. È lì, in quel mondo lontano dalla nostra percezione, che scopriamo la vera essenza della natura. Quello che la nostra esperienza sensoriale ci suggerisce essere la realtà è solo una confusa immagine distorta dalla complessità del mondo macroscopico. Un fisico, nel suo lavoro, è sempre confrontato con la realtà fisica della meccanica quantistica e della relatività, che è lontana dalla nostra innata intuizione basata sull’esperienza sensoriale di esseri umani. Per questo nel nostro lavoro usiamo spesso analogie che ci permettono di visualizzare in modo più concreto (almeno per un essere umano) la pura realtà astratta.

 

L’importanza di sapere di non sapere, e l’idea che la filosofia come amore per il sapere nasca dalla meraviglia sono due tra i ritornelli più diffusi in campo filosofico. Forse la meraviglia nasce proprio per contrasto da uno stato di non-sapere, di ignoranza che viene illuminato con una nuova prospettiva e visione del mondo. Sicuramente il CERN ha portato nuova conoscenza, ma cosa ci sta permettendo di scoprire che non sappiamo? Di cosa potremo meravigliarci?

Più progrediamo nella conoscenza, più ci scontriamo con nuovi enigmi e nuovi dubbi. È sempre stato così nella scienza. Si dice che le ultime parole del matematico e astronomo Pierre-Simon Laplace, prima di morire, fossero: “Quel che conosciamo è poca cosa, quel che ignoriamo è immenso”. Oggi non siamo in una situazione molto diversa da allora. Le domande che ci poniamo oggi sono diverse da quelle che si ponevano gli scienziati al tempo di Laplace, ma non sono meno. Anzi. Mi faccia fare alcuni esempi. Il 95% del nostro universo è fatto di una forma di materia o energia che non abbiamo ancora identificato. I valori misurati delle masse delle particelle elementari restano ancora un mistero, così come la loro struttura ripetitiva. Eccetera, eccetera. Quel che conosciamo è ancora poca cosa…

 

Oggi sempre di più si pone il problema di come comunichiamo quello che conosciamo. Delle dinamiche della condivisione del sapere scientifico. I processi della scienza si scontrano anche con dubbi e critiche di diversi attori sociali. Quali sono secondo lei le ragioni per questa perdita di fiducia?

La diffusione dell’informazione su internet, aldilà degli infiniti vantaggi, ha purtroppo parzialmente distorto il significato di conoscenza. Affermazioni di qualsiasi tipo sono messe sullo stesso piano. False tesi possono facilmente ottenere credito e rapidissima diffusione. La scienza, che non si misura in numero di “Like” o visualizzazioni, ne paga il prezzo. Tuttavia, io sono ottimista e credo che, alla lunga, il valore della scienza rimarrà saldo. Non c’è dubbio che la scienza rimane il culmine della nostra civiltà.

 

Ci tolga una curiosità, forse più intima: qual è il suo sogno scientifico nel cassetto?

Ci sono tante domande di cui sarei curiosissimo di sapere la risposta. Domande sull’origine delle particelle, sulla nascita dell’universo, sulle leggi fondamentali. Dubito che durante la mia vita avrò le risposte a tutte queste domande. Forse il mio sogno sarebbe quello di viaggiare nel tempo, cento anni nel futuro, comprarmi un libro sugli ultimi sviluppi in fisica, e poi tornare indietro ad oggi. Mi divertirei un mondo a leggere quel libro e farmi matte risate delle idee completamente sballate perseguite oggi dai miei colleghi.

 

Un’ultima domanda. Cosa pensa della filosofia?

E’ una domanda delicata per un fisico. Molti fisici vedono la filosofia come un antiquato e inadatto modo di comprendere la realtà. Mi faccia citare alcuni tra i più grandi fisici teorici. Richard Feynman: «La filosofia della scienza è utile agli scienziati quanto un libro di ornitologia può esserlo per gli uccelli». Steven Hawking: «La filosofia è morta perché i filosofi non hanno mantenuto il passo con i moderni sviluppi in fisica». Steven Weinberg: «L’irragionevole inefficacia della filosofia» (parafrasando la famosa espressione di Wigner: «L’irragionevole efficacia della matematica»).  In realtà, la fisica è figlia della filosofia, da cui ha ereditato il pensiero logico. Nella formulazione delle sue teorie, un fisico è sempre influenzato dal pensiero filosofico, anche se il metodo scientifico finisce sempre col riferirsi all’osservazione sperimentale. La sua domanda mi ricorda che venerdì prossimo devo parlare al simposio annuale della Società Filosofica Svizzera e non so ancora cosa dire. Mi vengono i brividi a pensare che devo parlare di fronte a un pubblico di filosofi. Meglio che torni al mio lavoro. La ringrazio per la chiacchierata.

 

Matteo Villa

 

[Photo Credits: www.jotdown.es]

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Le particelle dell’arcobaleno: intervista a Mario Pelliccioni

Mario Pelliccioni è un ricercatore presso l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, e all’interno del CERN di Ginevra, in quest’ultimo è stato co-fondatore ed è tutt’oggi attivista di un gruppo LGBT. In questa intervista, con un’accurata chiarezza e una raffinata capacità comunicativa, ci racconta come la percezione morale e culturale sia cambiata nei confronti della fisica rispetto ai secoli passati, ci espone la sua opinione rispetto al ruolo della scienza nella società odierna, con un particolare focus sul rapporto tra Trump e il suo antiscientifico negazionismo del riscaldamento globale; infine ci illustra come è composto, che cosa fa e quali obbiettivi si pone il gruppo LGBT all’interno del CERN. Come si coniugano tematiche legate all’identità di genere e all’orientamento sessuale con un ambiente rigoroso e scientifico come il CERN?

 

Buongiorno Mario, intanto grazie per aver accettato questa intervista. Di cosa ti occupi esattamente all’interno del CERN? A quali progetti stai lavorando?

Sono un ricercatore dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (sezione di Torino), e lavoro dal 2008 in uno degli esperimenti principali del CERN: il Compact Muon Solenoid (CMS). Negli anni mi sono occupato sia del mantenimento e della messa a punto dell’apparato sperimentale, sia dell’analisi dei dati raccolti dall’esperimento. Ho lavorato ad una delle analisi che nel 2012 ha portato alla scoperta del bosone di Higgs, ed ora coordino uno dei gruppi che si occupa, tra le altre cose, della ricerca di ulteriori particelle di Higgs che potrebbero esistere in natura.

Bè congratulazioni, sarai molto fiero del lavoro svolto. Com’è nata la tua passione per la fisica? E qual è oggi la parte del tuo lavoro che ti entusiasma di più?

Ero appassionato di materie scientifiche fin da piccolo. Mi piace capire come funzionano le cose. Al liceo mi sono innamorato del rigore matematico della fisica, anche grazie a degli ottimi professori.
La parte che preferisco di questo lavoro è l’aspetto creativo legato al problem solving. Qui ci si trova spesso davanti a problemi nuovi, la cui soluzione sembra impossibile o non praticabile. Almeno finché non si arriva ad una via che non era mai stata pensata prima. In qualche modo, si crea qualcosa che non esisteva, e quello che era una difficoltà insormontabile può diventare facile in un attimo.

Si può dire che la fisica più di altri rami della scienza è una materia in cui la sfida più grande è quella di combattere i pregiudizi insiti nelle convinzioni comuni? Per lo meno da un punto di vista storico. Vedi Giordano Bruno, Galileo Galilei o anche solo Newton. Hai mai avuto l’impressione ancor oggi che un’idea scientifica incontrasse degli ostacoli culturali ancor prima che logici o matematici?

Può succedere, anche se le motivazioni al giorno d’oggi sono di norma molto diverse da quelle di qualche secolo fa, per fortuna. Dentro la comunità scientifica, a volte capita che si abbia investito tanto tempo, fondi, e fatica nel perseguire un’idea che poi risulta essere un binario morto. A volte un’idea nuova rende inutile un intero filone di ricerca. È normale che ci siano resistenze talvolta, ed in parte è pure salutare: se una novità non è in grado di superare un po’ di resistenza, forse non è così solida come sembra! In ogni caso, anche le critiche più feroci che ho visto fare non sono mai uscite da certi ovvi limiti di professionalità e rispetto.
Va anche considerato che gli scienziati vengono addestrati tutta la vita ad essere scettici e dubitare di tutto: questo include il risultato o l’idea che gli stai presentando in quel momento. I problemi sono spesso, ora come in passato, al di fuori della comunità, dove nel dibattito scientifico rientrano considerazioni politiche, ideologiche e etiche. Questo non è sempre un male, però.

In quali casi non lo sono? Come è possibile che uno come Trump possa mettere in dubbio per esempio lo sconvolgimento climatico? Ti sei fatto un’idea al riguardo?

La mia opinione è che la ricerca non dovrebbe avere, per la maggior parte, limiti etici o politici, ma l’applicazione delle conoscenze derivanti dalla ricerca sì. L’uso dell’energia dal nucleare, quanti investimenti assegnare alle risorse rinnovabili (e quali, e con che tempistiche), l’applicazione delle tecniche di bioingegneria più moderne devono necessariamente scaturire da un dibattito aperto (e informato, questa è la parola chiave) razionale dove il bene comune e la programmazione su lungo termine siano centrali, dove si decida cosa permettere e cosa no, dove assegnare risorse e dove toglierle. E quando si discute su come e dove la società distribuisca le proprie risorse si entra in un campo squisitamente politico.
L’esempio di Trump e del cambiamento climatico è evidente: le sue conclusioni non sono basate su considerazioni sul bene comune, e che non siano fondate su dati concreti è per così dire accidentale. Trump appartiene alla categoria di persone che invece di adattare le proprie idee ai fatti, cerca di adattare i fatti alle proprie idee (che può essere particolarmente sgradevole se sei un fatto che deve essere adattato, come nel caso di uno scienziato del clima o, per altro, un immigrato). Del resto, un dibattito informato sull’argomento nella società americana è impossibile: l’argomento è diventato completamente ideologico, con pochissimo spazio per la razionalità, e la strategia basata sul mantenere la popolazione americana ignorante in materia sta dando i suoi frutti.

E per quanto riguarda la comunità scientifica, e in particolare il CERN, quali credi siano le “problematiche sociali” che andrebbero affrontate a cielo aperto, se esistono? 

Sicuramente il fatto di essere in un ambiente internazionale con persone provenienti da tutto il mondo può presentare delle difficoltà. Ci sono diversi modi di lavorare e di relazionarsi con gli altri che devono in qualche modo coesistere. Per la maggior parte la mia impressione è che il CERN rappresenti una storia di successo a riguardo: ho visto fisici da paesi tra di loro in conflitto più o meno aperto collaborare in maniera produttiva, uomini provenienti da paesi dove la condizione della donna è tutt’altro che rosea che trattano le loro colleghe con rispetto e professionalità.
Per carità, non è tutto rose e fiori: ad esempio il gruppo LGBT del CERN ha avuto qualche difficoltà iniziale ad essere riconosciuto dal management, e qualche episodio di intolleranza si è verificato. Ma stiamo parlando di una comunità di diverse migliaia di scienziati, e sebbene questo non sia una giustificazione, i casi vanno inquadrati in questa statistica.
Vi è evidentemente una sotto-rappresentazione delle donne nel nostro mondo. Questo non è un problema esclusivo del CERN, che per altro impiega solo una frazione molto ridotta degli scienziati che lavorano qui. Non esistono soluzioni facili, soprattutto perché molte donne cambiano carriera negli anni dopo il dottorato, dove vi è tipicamente un periodo di precariato piuttosto lungo, e la carenza di protezioni e diritti rende le cose più difficili per loro. Alcuni paesi negli anni hanno cercando di arginare il problema, con iniziative come quote rosa per l’assunzione di personale, e sebbene questo aiuti crea anche delle distorsioni: il problema non è tanto che le donne non vengono assunte, è che la carenza di diritti per tanti anni le spinge verso carriere più sicure prima che venga il loro momento di competere per un posto fisso.

E per quanto riguarda questo gruppo LGBT ci vuoi spiegare in quanti siete? Che tipo di attività fate, che tipo di obbiettivi vi siete posti?

Il gruppo è nato circa 7 anni fa. Alcuni di noi “fondatori” lavoravamo negli USA in un laboratorio dove esisteva un gruppo simile, e spostandoci qui abbiamo notato che un’entità del genere mancava. Lo abbiamo creato per diversi motivi: anzitutto, è utile avere un interlocutore unico con il CERN per avanzare alcune richieste. Ad esempio, fino a qualche anno fa il laboratorio offriva certi benefit alle coppie sposate, ma non a quelle unite civilmente. Se si proviene da un paese dove il matrimonio tra persone dello stesso sesso non è ammesso (come in Italia, ad esempio), questo rappresenta una discriminazione nella discriminazione. E infatti il CERN ha cambiato le sue policy di recente, estendendo i diritti che offre alle coppie sposate anche a quelle unite civilmente.
Il gruppo funziona anche come forum: abbiamo una mailing list dove ci scambiamo informazioni su eventi legati al mondo LGBT nell’area di Ginevra, e dove forniamo aiuto e supporto a vicenda in caso di difficoltà o problemi. Organizziamo anche alcuni eventi più “sociali” come può essere una cena, una birra o una serata al cinema. Abbiamo settimanalmente un pranzo nella mensa principale del CERN, dove ci rendiamo riconoscibili usando una bandiera arcobaleno come tovaglia. E l’anno scorso l’attuale direttrice del CERN si è unita a noi in uno di questi pranzi, è stato un bel messaggio da parte del management.
L’interazione con il CERN nel passato non è sempre stata facilissima. Questo è un laboratorio abbastanza grande da avere una certa quantità di burocrazia, e ogni decisione o cambiamento di policy richiede un certo numero di passaggi e tempistiche magari un po’ lunghe: questo può essere frustrante. Ma è in generale un problema che si ha nel vivere all’interno di un’istituzione di queste dimensioni.
Fare una conta delle persone che partecipano al gruppo è difficile. La mailing list che utilizziamo è stata, volutamente, creata in maniera tale da non poter fare un censimento di tutti. Il numero di persone che partecipa ai nostri eventi o alle discussioni è estremamente variabile, ma questo è legato alla natura transitoria del CERN e più in generale di Ginevra: la gente viene qui, per lo più, per un anno o due e poi torna nel loro paese di origine con un bagaglio di conoscenze acquisite, o si sposta in un’altra nazione ancora. Personalmente sono qui da otto anni e sono considerato un “anziano”!

Mi sembra molto bello e molto utile, complimenti davvero. A proposito di cinema, non so se ti è mai capitato di vedere il film Pride di Matthew Warchus. È un esempio molto interessante di “intersezionalità”, ovvero di unione delle forze di due movimenti, in questo caso quello operaio e quello lesbico-gay, che teoricamente avrebbero fatto molta fatica ad allinearsi, ma che, una volta superati i relativi pregiudizi, riescono a portare avanti insieme una lotta larga e straordinaria. Avete mai avuto un’esperienza simile? E se potessi scegliere, con chi ti piacerebbe “allearti”?

Abbiamo proiettato quel film qui al CERN giusto l’anno scorso in un evento organizzato dal gruppo. Mi sembra che i tempi siano, per fortuna, cambiati, e che al giorno d’oggi l’intersezionalità sia già una componente imprescindibile del movimento LGBT, basta vedere la forte sovrapposizione che si ha tra questo e, ad esempio, l’attivismo femminista o antirazzista.
Alla fin fine molte delle istanze che questi movimenti rivendicano sono economiche almeno quanto sociali, ed è un grande merito della nostra generazione, secondo me, averlo riconosciuto.

Come giustamente riporti, riflette anche il rapporto tra le istanze sociali e quelle economiche. I soldi spesso si rivelano essere uno strumento d’oppressione anche senza che le persone se ne rendano veramente conto. Così come sembra che il pericolo di trasformarsi da “oppresso” ad “oppressore” sia un processo molto più sottile di quanto si pensi di essere in grado di saper osservare. Non so se hai mai sentito parlare di “omonazionalismo”, tanto per fare un esempio. Qual è secondo te un antidoto a questo tipo di “deriva”?

Ritengo che alla base di questi fenomeni ci sia un senso di colpa e un bisogno di essere accettato dalla propria comunità che è intrinseco nell’animale sociale che è l’uomo. Sei oppresso perché è giusto che sia così, e una volta uscito svolgerai tu stesso quello che credi sia il tuo ruolo sociale di oppressore, perché tu ce l’hai fatta. Mi sembra difficile che riusciamo ad eliminare completamente questo bisogno di accettazione, e allora il punto è riuscire a far capire alla gente che l’essere oppressi per un motivo o per l’altro non è indice di una colpa dell’individuo. Per lo più, è dovuto a motivi casuali o comunque esterni al controllo del singolo (dove nasci, in che famiglia, quale è la tua identità o i tuoi gusti sessuali). E questo non è un problema solo della nostra cultura e delle sue radici per così dire cristiane. Il concetto di colpa ed espiazione è diffuso in molte società.

«L’umiltà, prova esperienza comune, è la scala di una giovane ambizione. Ma, come abbia raggiunto l’ultimo gradino, volge essa le spalle alla scala e rimira le nubi, spregiando i gradini più bassi ond’essa è ascesa». Non lo dico io, ma Shakespeare1. Grazie per il tuo prezioso tempo Mario. 

Grazie a te.

 

Luca Nistler

Di professione sono un videomaker, ho 33 anni, sono laureato in Mediazione linguistica e culturale.
Ho fatto la mia tesina di laurea sull’omogenitorialità: un confronto etico e politico tra Italia e Inghilterrra.
Negli anni ho lavorato come traduttore all’interno del Milano Film Festival e Mix Festival a Milano e ho lavorato in alcune ONG.
Ho un progetto musicale di sola voce che si chiama Berg, e nel novembre 2016 è uscito il primo EP per Sangue Disken. Ho appena pubblicato su Rolling Stone il mio secondo singolo che affronta per l’appunto il tema dell’identità di genere.
Sono un attivista a tempo perso e un appassionato di fisica quantistica.
 
NOTE:
1. W. Shakespeare, Giulio Cesare, atto I scena II.
 
 
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Intervista a Guido Tonelli: il bosone di Higgs e le radici della nostra storia

Guido Tonelli, Fisico del CERN e Professore dell’Università di Pisa, è stato tra gli scopritori del Bosone di Higgs, occasione per la quale ha poi scritto La nascita imperfetta delle cose. La grande corsa alla particella di Dio e la nuova fisica che cambierà il mondo (Rizzoli, 2016). In questo libro Tonelli racconta cosa vuol dire affacciarsi oltre il limite estremo della conoscenza, fare la scoperta del secolo e capire come tutto è cominciato in quel preciso momento, un centesimo di miliardesimo di secondo dopo il Big Bang in cui si è deciso il nostro destino. In tale opera si spiegano con chiarezza ed in maniera coinvolgente i misteri sull’origine del mondo e la possibile fine dell’universo.

La storia del bosone di Higgs comincia nel 1964 e si articola nei decenni successivi fino al 2011, anno della scoperta, resa possibile solo grazie all’acceleratore Lhc (Large hadron collider) al CERN di Ginevra. Non scenderemo nei dettagli, lasceremo che sia il professore a raccontarcelo. Quello che è interessante sottolineare è che con il Bosone di Higgs è stato riempito l’ultimo tassello che era rimasto vuoto del cosiddetto Modello Standard, ovvero la teoria che descrive il mondo delle particelle elementari e le incasella in una sorta di tavola periodica. Ma il Bosone di Higgs, suggerisce Tonelli, potrebbe spiegare anche molti dei misteri del cosmo. Secondo alcune teorie, infatti, questa particella potrebbe aver giocato un ruolo importante nelle primissime fasi dell’universo, per esempio riguardo la questione dell’asimmetria tra materia e antimateria, che subito dopo il Big Bang erano presenti in quantità uguali (o quasi): può essere stata una leggera “preferenza” del Bosone di Higgs per la materia ad aver consentito a quest’ultima di sopravvivere ai primi millisecondi di vita dell’universo, mentre l’antimateria (disintegrandosi con la materia) è completamente sparita.

Per concludere, ora il Bosone di Higgs non solo lo abbiamo davanti, ma ha anche aperto una nuova fisica. E pure (anche se non ce ne accorgiamo) un nuovo modo di vivere. Queste scoperte, che potrebbero apparirci come puramente accademiche, hanno infatti un’influenza su tutti noi: basti anche semplicemente pensare alla tecnologia e a quanto essa, tramite le scoperte scientifiche, ha cambiato la nostra quotidianità. A questo proposito Tonelli ci dà una grande conferma, ed anche di questo lo ringraziamo: la continuità che esiste tra i cosiddetti saperi “scientifici” ed “umanistici” nel terreno della vita quotidiana dell’uomo.

 

La fisica, come anche le materie umanistiche – soprattutto quando si spingono a un livello molto sperimentale – richiede ingenti risorse: in cambio di questo investimento esse ci restituiscono una maggior consapevolezza. Crede che scoperte come quelle fatte al CERN comportino un cambiamento per la nostra vita quotidiana, in termini di domande fondamentali e quindi di produzione di senso per la nostra esistenza come individui e come specie? L’origine della Filosofia nasce con domande come “chi siamo?” e da “dove veniamo?”; la Fisica, per certi versi, non tenta di offrire risposte simili?

Alla base di queste ricerche, che sono sicuramente complesse e richiedono ingenti investimenti, cosa c’è? C’è una spinta primordiale che è la curiosità!

Noi siamo esseri umani e l’umanità di oggi, nata in Africa milioni di anni fa, come si è evoluta? Grazie a qualche individuo che ha cominciato a spostarsi, ma perché? Io ho il pregiudizio di pensare che non si sia spostato dalla savana verso il territorio vicino per bisogno di cibo ma credo che la spinta più grossa dei nostri antenati ominidi sia la stessa che motiva noi oggi: la curiosità, il cercare oltre le colline qualcosa che ancora non abbiamo visto. È il tratto più fondante dell’umanità.

Per esempio, se uno prende un bambino piccolo e lo mette in un recinto alto un metro, questi magari cammina malamente, ma proverà ad alzarsi e a vedere cosa c’è oltre. Ecco che allora le ricerche si fanno per soddisfare questa curiosità, che è uno dei tratti più caratteristici dell’umanità, e guai a quell’umanità che scoraggiasse la curiosità e inibisse gli individui creativi che immaginano cose che gli altri non hanno ancora visto, in tutti i campi: in quello scientifico, artistico o letterario.

Occorre dire che le ricerche scientifiche cambiano non solo la percezione del mondo, in quanto hanno effetti su di essa, ma cambiano anche la nostra vita materiale. Ogni tanto immagino che se al CERN ci fosse un grande bottone rosso, spingendo il quale si potesse cancellare dalla quotidianità la meccanica quantistica e la relatività per una ventina di minuti, la gente capirebbe di quanto le scoperte scientifiche degli ultimi cento anni siano presenti nella vita di tutti i giorni: la medicina moderna, le comunicazioni, i cellulari, internet. Non c’è niente nella vita quotidiana che non sia debitore di una scoperta scientifica.

Le cose che si sviluppano nei centri di ricerca producono nuove tecnologie che, in maniera molecolare e silenziosa, entrano nella vita di ogni giorno. Per esempio, nessuno poteva immaginare che i primi laser inventati negli anni ’40/’50 furono inventati avrebbero corretto la miopia o letto un’etichetta al supermercato o riprodotto la musica. Lo stesso vale per la risonanza magnetica: gli studi sulle proprietà magnetiche della materia esistono perché abbiamo capito come questa funzioni; quindi prima o poi, qualunque funzionamento della materia che viene compreso (anche quello più astratto) trova delle applicazioni concrete. Prima o poi questo sapere si diffonde nella vita quotidiana.

Sembra che il linguaggio della natura sia distantissimo dai linguaggi degli uomini: cosa possiamo fare per ridurre questo gap? Secondo Immanuel Kant, la mente umana non conosce le cose in sé stesse ma le impressioni dei sensi che rispecchiano solo l’apparenza superficiale delle cose. Mettendo insieme tali impressioni per mezzo delle strutture spazio-temporali, la mente costruisce la sua immagine della realtà in sé stessa, che resterebbe sempre inconoscibile (noumeno). Dobbiamo ammettere che, in fondo, non sappiamo o non potremo mai sapere nulla di certo sul mondo che ci circonda, o crede che in futuro riusciremo ad arrivare ad una spiegazione definitiva? Dobbiamo rassegnarci, come scrive Kant, al fatto che in fondo la realtà è inconoscibile?

L’ipotesi di Kant contiene un’assunzione arbitraria, cioè il fatto che non c’è nessun elemento per dire che c’è una realtà, ma non potendo verificarla o sperimentarla non si può nemmeno ipotizzarla.

Io, invece, ho un atteggiamento diverso che è molto aderente alla maniera in cui noi uomini della scienza lavoriamo.

Non sono d’accordo con chi dice che noi scienziati sveliamo attraverso il metodo scientifico la natura e osservano le leggi della stessa come se fossero lì davanti a noi e avessimo il compito di scoprirle. In realtà noi abbiamo una nostra visione del mondo che è la stessa che può avere anche una scimmia antropomorfa: per esempio lo scimpanzé quando deve aprire una noce ha un progetto, ovvero prendere un sasso, rompere la noce e mangiare il seme, quindi ha progettato il futuro dicendo “utilizzerò un utensile più duro della noce, la aprirò e mi nutrirò”. Questo progetto è la stessa cosa che facciamo noi, è un’immagine del mondo. Ma cosa differenzia la scienza moderna dalle altre immagini del mondo? Che è rigorosa, che si cambia, si plasma, è pragmatica, accetta di sbagliare, non cerca la verità ma tenta di spiegare tutte le osservazioni e, quando troverà un’osservazione che non riuscirà a spiegare, sa già che dovrà trovare un’altra spiegazione.

Questo atteggiamento pragmatico, in cui non ci si pone il problema di cosa sia la realtà, permette di costruire la propria immagine del mondo che deve essere il più precisa e rigorosa possibile, nonché riproducibile, e che funzioni fino a quando non si scopre che c’è un piccolo dettaglio non congruente e bisogna buttare all’aria tutto e ricorrere ad un altro modello. Questo è l’atteggiamento che ha fatto fare i maggiori progressi e che rende un po’ superflua la questione circa l’esistenza o meno di qualcosa di più profondo: una realtà oggettiva che esista a prescindere da quella che noi possiamo costruire.

La scienza non è altro che una nostra costruzione mentale e, proprio essendo da noi costruita, ci dobbiamo preoccupare di renderla il più accurata e precisa possibile.

Il bosone di Higgs, conosciuto anche come particella di Dio: abbiamo letto molte speculazioni a riguardo, ma di cosa stiamo parlando concretamente? Quali sono le implicazioni di questa scoperta e che scenari apre?

Abbiamo scoperto un momento particolare della nascita dell’universo nel suo complesso, così oggi noi possiamo raccontare questa storia con un dettaglio importante che abbiamo collocato temporalmente e che sappiamo descrivere e precisare: c’è un periodo della nascita dell’universo – i primi cento miliardesimi di secondo – in cui sono avvenute cose che ancora non abbiamo capito ma, dal cento miliardesimo di secondo in poi, da quando il bosone di Higgs si è installato nell’universo, noi conosciamo la nostra storia.

È come se avessimo fatto un altro passo per raccontare la nostra nascita: dal cento miliardesimo di secondo in poi questa particella speciale si è congelata perché l’universo, espandendosi, si è raffreddato. Il bosone di Higgs, che era libero e vagava come le altre particelle, si è quindi bloccato nel vuoto, si è congelato nel suo campo scalare, il quale aveva un’importante proprietà: le altre particelle interagirono con lui diventando massicce, alcune hanno preso una massa, altre un’altra, altre ancora sono rimaste prive di massa. Se questo meccanismo non fosse avvenuto, la materia non sarebbe esistita, o meglio ci sarebbe stata ma in una forma diversa, pensiamo ad un intero universo pieno di particelle che viaggiano alla velocità della luce prive di massa: un sistema perfetto ma senza l’imperfezione che siamo noi o le galassie.

La materia infatti, considerata in atomi e molecole, si è organizzata in tale modo proprio per le caratteristiche dell’atomo: c’è un protone intorno ad un elettrone e se l’elettrone non avesse quella massa ben precisa datagli dal bosone, non potrebbe orbitare intorno al protone e non ci sarebbe la materia stabile che da miliardi di anni ci circonda.

Proviamo ad allestire un semplice esperimento mentale, immaginando una conversazione ideale tra un fisico e un filosofo. Il filosofo fa presente al fisico che è impossibile risalire a cosa ci fosse prima del Big Bang, che si può parlare dell’inizio del tutto soltanto per approssimazione: resta impossibile scorgere al di là dell’universo in cui viviamo, poiché esso costituisce un orizzonte intrascendibile. Il fisico dal canto suo sostiene che, attraverso la ricerca, è possibile – o lo sarà in futuro – provare a dire perfino cosa ci fosse prima del Big Bang. Crede che l’osservazione del filosofo sia pertinente o immagina un futuro in cui sarà effettivamente possibile conoscere quanto è accaduto, per così dire, prima dell’Universo? 

Sono sbagliate entrambe perché c’è questo pregiudizio: si pensa che il tempo sia separato dallo spazio, cioè che ci sia stato il big bang, momento in cui lo spazio si espanse e il tempo sia proceduto a prescindere.

Invece no: tempo e spazio sono nati insieme. Non si può dire ‘prima’ – non esiste –, perché lo spazio e il tempo prima che ci fossero spazio e tempo non c’erano. Quindi la risposta del fisico è sbagliata così come l’osservazione del filosofo perché il fatto di essere all’interno di questo universo, quindi di questo fenomeno spazio-temporale, ci permette di capire cosa sia potuto succedere in esso; e a quel punto niente ci impedisce di immaginare altri fenomeni che avvengano in un non-tempo e in un non-spazio (non esistono spazio-tempo al di fuori dell’universo in cui siamo).

Per esempio esistono le teorie dei multiversi che ritengono che il nostro non sia l’unico universo materiale ma uno dei tanti. E come potrebbero essere verificate se non possiamo osservare e vedere da un universo all’altro?

Ci sono delle ricerche in corso sull’esistenza di questi altri universi possibili: alcune osservazioni che si fanno del nostro universo, studiando tutti i suoi angoli, vanno alla ricerca di zone in cui ci potrebbe essere l’evidenza di un altro universo, un’altra bolla che si sia sovrapposta alla nostra. Per esempio le onde gravitazionali, scoperte recentemente, potrebbero servire a tale scopo. Se uno vede una zona in cui lo spazio-tempo è increspato senza motivo e non c’è nulla che lo deforma, quella potrebbe essere una zona in cui il nostro universo si sovrappone ad un altro universo: questa sarebbe la prova sperimentale dell’esistenza di più universi.

Saperi scientifici e saperi umanistici vengono spesso contrapposti, ma non è possibile trovare tra di essi dei punti di tangenza per potersi anche integrare maggiormente? La complessità della Fisica contemporanea è giunta a livelli tanto elevati che la persona non addetta ai lavori tende a non comprendere le questioni o corre il rischio di affidarsi a formule fuorvianti, come quelle utilizzate dai media. In questo non pensa che le materie umanistiche potrebbero aiutare la scienza a costruire una narrazione accessibile a tutti ma nel contempo precisa, perché sorta dal confronto con esperti come lei?

Sì assolutamente. Io faccio fisica perché amo la filosofia. Odiavo la fisica al liceo e amavo la filosofia e mi è rimasto questo amore appassionato per il dibattito filosofico che seguo da amatore.

Il cervello è uno: io mi appassiono per le meraviglie della natura così come mi appassiono per un brano di musica o per un bel libro o per una bella discussione tra un filosofo ed un teologo. La divisione è del tutto artificiale e la considero un residuo ottocentesco: non solo le materie umanistiche arricchiscono il sapere scientifico e viceversa, ma nel momento in cui dobbiamo spingere la nostra conoscenza al di fuori del conosciuto (è questa la ricerca moderna) ci ritroviamo su un confine in cui si corrono inevitabilmente dei rischi ed è lo stesso in cui si muovono i letterati che vogliono produrre qualcosa di nuovo, gli artisti che vogliono raffigurare qualcosa di nuovo, i musicisti che vogliono fare ascoltare qualcosa di nuovo: che differenza c’è? Nessuna. Ogni volta che mi imbatto in uno di loro li sento vicini perché abbiamo tutti le stesse paure, le stesse intuizioni, – a volte giuste a volte sbagliate – ma è lo stesso atteggiamento nei confronti della ricerca del nuovo.

Ci sarebbe tutto da guadagnare ad avere un intreccio maggiore tra le varie discipline, a moltiplicare i momenti di conoscenza. Scienze naturali e scienze umanistiche sono due modi avanzati in cui si sviluppa la conoscenza e vanno conosciute entrambi: solo in questo modo ne ricaveremmo di sicuro dei benefici.

Matteo Montagner

NOTE:
Intervista rilasciataci lo scorso 3 settembre 2016 in occasione del Festival della Mente di Sarzana (La Spezia).

[Immagine tratta da Google Immagini]