La “fortuna” in Match Point: Woody Allen e Machiavelli a confronto

Il tema centrale della pellicola Match Point (2005) di Woody Allen è la fortuna: nel monologo iniziale una voce narrante fuori campo ci dice che gli uomini sono spaventati da quanto essa possa influire sulla nostra vita; un qualcosa di incontrollabile è capace di decidere l’esito delle nostre azioni, la nostra perdita e la nostra vittoria. Minuto dopo minuto, il film mostra perfettamente quanto poco a volte conti l’operato umano e con esso sia le sue buone azioni che quelle crudeli.

Il protagonista, infatti, pur reo di aver commesso omicidio ed adulterio, per una serie di eventi fortuiti riuscirà a continuare a vivere la sua vita dorata. Il match point nello sport è quel momento in cui si decide l’esito della partita: nel tennis la palla colpisce il nastro della rete e può andare nel lato avversario segnando punto oppure può rimbalzare indietro decretando la perdita. Tutto è incontrollato, tutto sfugge dalle nostre mani, che senso ha allora agire?

La visione di Woody Allen mi ha sempre colpita per il suo estremo realismo: è evidente che il regista pensi che non siamo noi a decidere l’esito delle nostre azioni, pur essendo liberi di agire. Esse non le definisce una divinità, ma semplicemente una serie di causa/effetto che non siamo noi a determinare. Il dramma è che noi siamo lasciati liberi nell’azione in un mondo che a volte in maniera incontrollata ribalta tutto ciò che abbiamo creato o inaspettatamente volge il futuro in nostro favore. Nel momento in cui riusciamo a capirlo abbiamo afferrato cosa sia realmente la vita: una serie di cause ed effetti inevitabile, fortuita, sconosciuta, che solo in parte siamo capaci di gestire. Accettare questo vuol dire accettare che la fortuna, questa entità mistica, governi la vita in qualche modo con noi e che forse abbia anche più potere. Ecco il dramma: l’essere umano è semplicemente frutto di una serie di eventi che lo hanno determinato casualmente e continueranno a determinarlo.

Queste riflessioni mi riportano al capitolo XXV de Il Principe (1532) di Machiavelli in cui l’autore definisce la fortuna: essa è l’azione del caso che influisce solo su una parte delle vicende umane, perché una delle doti del Principe deve essere la virtù. Essa consisterà dunque nella capacità di prevenire determinate situazioni, ma anche nella capacità di adattarsi a situazioni nuove e diverse volgendole a proprio vantaggio. La fortuna di cui parla Machiavelli si discosta nettamente dalla concezione medievale di una fortuna intesa come destino predestinato da un Dio e quindi ineluttabile. Sembra, infatti, che nelle pagine di Machiavelli l’azione dell’uomo acquisti nuovamente valore, dia una certa speranza all’agire umano. È importante notare che Machiavelli rappresenta l’intellettuale rinascimentale che rivendica l’arbitrio dell’uomo nel mondo e non cita divinità alcuna che domini la vita, ma solo una casuale concatenazione di eventi che a volte si verifica e che bisogna essere in grado di governare.

Si può dire che Allen concordi con Machiavelli nell’asserire che non vi è divinità alcuna che governi il corso delle vicende umane dal momento che asserire una cosa del genere andrebbe incontro ad evidenti contraddizioni e sarebbe ingiustificabile; concorda anche nel definire la fortuna come pura azione del caso che dà vita ad eventi imprevedibili.

La cosa più importante da sottolineare è che il regista perde l’ottimismo machiavelliano aderendo ad una visione più materialistica e nichilistica della vita e delle azioni umane. Allen è figlio dell’età contemporanea, del nichilismo imperante e in quanto figlio della sua epoca è spinto a pensare che oramai non conta essere virtuosi o detenere buone qualità dell’animo quando tutto è ineluttabile. Gli esseri umani non sono sempre in grado di adattarsi a nuove situazioni, né tantomeno hanno uno sguardo così lungo da poterle prevenire. La verità è che le cose succedono: al di là di chi sia il protagonista della storia, la fortuna non si cura del nostro passato, dei nostri sforzi, ma la cruda realtà è che nella vita tutto accade e non ci resta che accorciarci le maniche e provare a reagire.

Se da un lato è vero che la vita è incontrollabile e questo ci è difficile da accettare, è vero anche, come afferma Allen, che disperarci per questo ci porta solo sulla strada più facile. La vera partita nella vita la si gioca solo con sé stessi: forse non si vince o non si perde del tutto, ma ci sono le nostre scelte, c’è la vita che accade giorno per giorno e non si può che accettarla così come si presenta a noi e fare della “fortuna il nostro talento”.

 

Francesca Peluso

 

[immagine tratta da un fermo immagine del film Match Point di Woody Allen]

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Elogio della casualità e dell’imperfezione: l’esempio dell’arte orientale

Narra la leggenda che al mondo siano esistiti soltanto quattro esemplari di yohen tenmoku, le ciotole per il tè di origine cinese che presentano un motivo a stelle nei toni del viola e del blu scuro, simili a una galassia. Attualmente si conosce l’esistenza di tre esemplari, tutti catalogati dal Giappone come tesoro nazionale: il motivo è che questo motivo “galassia” è il risultato dello yohen, la metamorfosi che avviene durante il processo di cottura della ceramica. Ecco allora che le ciotole sono in realtà ognuna diversa dall’altra anche se ugualmente uniche.

Chiunque si occupi d’arte cinese e giapponese, prima o poi deve confrontarsi con la ceramica, un’arte che in questo contesto geografico non è mai stata considerata “minore” o banalmente “decorativa” come in Europa. La raffinatezza degli oggetti, da saggiare con il tatto, la vista e l’udito, è tale da chiamare in gioco la sensibilità, la cultura e l’intelligenza di chi li incontra. I giapponesi, da sempre abilissimi ad acquisire, adattare e fare propri gli oggetti di importazione, assorbono dalla Cina un tipo di manifattura che chiamano appunto tenmoku e che pone l’enfasi sugli effetti ottenibili sulla vetrina (cioè sul “rivestimento”) e che non possono essere stabiliti a tavolino. Non è possibile, nemmeno per un ceramista esperto, controllare il processo di trasformazione durante la cottura, dunque quella delle “ciotole stellate” è di fatto una combinazione irripetibile: si stima possa essere una ogni decine di migliaia di esemplari posti a cottura. Un gioiello partorito dalla totale casualità.

Questi oggetti ceramici si rifanno a un ideale di bellezza estetica semplice e rigorosa tipica del buddhismo zen che ruota attorno al concetto di vacuità. Le ciotole utilizzate per il chanoyu (la cerimonia del tè) sono realizzate con la tecnica cosiddetta raku che prevede l’estrazione del materiale ceramico dal forno quando è ancora incandescente: in questo modo, un po’ come un dolce che se estratto troppo presto dal forno si sgonfia, la ceramica si raffredda molto velocemente e la vetrina prende forma in modo repentino, dunque in modo imperfetto. Saggiando con le dita e con le labbra la superficie del manufatto si percepiscono delle irregolarità, dei veri e propri “vuoti di materia” (segni, avvallamenti, strati e gocce di colore…) che contrariamente al nostro dolce non lievitato sono segni di eccellenza e motivo di ammirazione. In ugual maniera l’ambiente riduttivo (cioè privo di ossigeno) in cui vengono posti inizialmente i manufatti provoca anche un vuoto a livello cromatico che si diffonde sulla superficie dell’oggetto creando disegni, forme e linee del tutto casuali, un po’ come i motivi “galassia” delle yohen tenmoku. Ecco allora che nella cerimonia del tè le ciotole (come ogni altro componente del chanoyu, dalla sala fino ai rumori e ai gesti stessi che si compiono)1 diventano un’occasione per meditare sul concetto chiave della filosofia dello zen: il vuoto appunto. Il vuoto come esperienza estetica diventa veicolo di meditazione e più imperfetta è la ciotola, più il vuoto viene percepito, dunque più ci si avvicina a quello stato di illuminazione, inteso come non-attaccamento e come vivere nel qui ed ora, che costituiscono lo scopo della meditazione.

Altra ode all’imperfezione nella ceramica giapponese è la tecnica (ormai molto nota anche in Occidente) del kintsugi. Essa prevede la riparazione del vasellame ceramico rotto o crepato attraverso il versamento di metallo liquido con lo scopo di “ricucire” e rinsaldare le crepe. La fragilità del manufatto viene dunque esaltata, non nascosta, e lo si fa attraverso metalli preziosi come il rame, l’argento e l’oro, che danno all’oggetto “rotto” un valore economico addirittura maggiore. Il senso del kintsugi è quello di mostrare, attraverso l’esperienza estetica che si fa dell’oggetto, come l’esistenza sia segnata dallo scorrere del tempo, dalla transitorietà e dunque, di nuovo, dalla vacuità. Noi lo possiamo anche leggere come un elogio alla resilienza, come una accettazione e poi esaltazione della fragilità in quanto componente naturale del vivere e che può tramutarsi in motivo di forza.

L’oggetto ceramico dunque, sia quello ottenuto con la tecnica raku che riparato con il kintsugi, assume un carattere denominato sabi, termine che indica una qualità dell’oggetto data dalla semplicità e dalla manifestazione dell’essenza propria delle cose. A questo i giapponesi accostano il termine wabi, che indica l’esperienza estetica che si fa di un oggetto sabi (dunque essenziale) e in questo modo la locuzione wabi sabi è una delle modalità con cui in Giappone si può definire la bellezza: qualcosa di semplice, essenziale, naturale e dunque imperfetto, che ti fa sentire altrettanto semplice, essenziale, serenamente imperfetto, lontano da ogni attaccamento ma ben radicato nel qui ed ora, trascinato nello stato di grazia dato dalla vacuità.

Tutto questo anche con una piccola, banalissima ciotola da tè.

 

Giorgia Favero

 

NOTE

1. Per approfondire il rapporto tra la vacuità e il chanoyu (ma anche le altre discipline artistiche come il teatro no, l’ikebana e la calligrafia di china) si veda la preziosa e interessante pubblicazione di G. Pasqualotto, Estetica del vuoto. Arte e meditazione nelle culture d’Oriente, Marsilio, Venezia 2001.

Come liberarsi dalla casualità: riflessioni circa il rapporto tra caso e merito

Ci sono eventi che bussano alla nostra porta inaspettatamente. Occasioni di lavoro da cogliere al volo, opportunità di studio da accettare, senza pensarci.

Trattasi di eventi che, in un modo o nell’altro, lasciano un segno nelle nostre vite spingendoci nella direzione di un cambiamento.

Talvolta, però, si resta paralizzati in un non-senso statico, privo di punti di svolta.

“È destino”- ci ripetiamo. “Non doveva andare così”. Mentre tutto si annulla, ci rinchiudiamo in un’alienazione che annienta, lasciandoci sfuggire quelle energie che, al posto di spingerci verso il basso, potrebbero farci risalire per creare il nostro universo creativo.

Il potere della casualità sembra pertanto eliminare ogni occasione di libertà, nonché contraddire la natura intrinseca dell’essere umano, espressa infatti nei termini di persona libera.

Al fine di poter dare a ciascuno la possibilità di esprimere le proprie capacità, indipendentemente dalle fortune che il caso potrebbe offrire ad ognuno di noi, il filosofo inglese John Rawls ha introdotto un “velo di ignoranza” avente le scopo di nascondere quelle differenze di tipo economico e sociale che comprometterebbero la costituzione di una società di individui eguali e liberi. Pertanto, solo una volta assicurati a ciascuno gli stessi diritti e le stesse libertà, le differenze sociali potrebbero diventare manifeste;  ciò al fine di concretizzare una corretta politica di redistribuzione delle ricchezze, assicurando ad ogni uomo la possibilità di beneficiare dei beni sufficienti per la sopravvivenza, nonché per il proprio sviluppo personale.

In assenza di risorse sufficienti di base, dunque, lo stesso principio di merito non potrebbe essere garantito in maniera egualitaria: le persone meritevoli sarebbero coloro le quali avrebbero avuto la fortuna – casuale– di nascere e di crescere in una circostanza sociale, culturale ed economica più favorevole.

Al fine di impedire la limitazione della libertà individuale, il sociologo ed economista Amartya Sen ha proposto una teoria delle capabilities, ovvero delle capacità, avente lo scopo di restituire la dignità a ciascun essere umano, attraverso una nuova politica economica fondata sulla possibilità offerta a ciascuno di attualizzare il proprio progetto di vita. Ciò in funzione di un dialogo tra le opportunità e le libertà di ogni individuo da un lato, e le risorse fisicamente esperibili, dall’altro.

Essere meritevoli, pertanto, significa riuscire, nel nostro piccolo, a seminare le opportunità che la vita ci offre, al fine di poter coltivare quell’orticello personale impastato di libertà che ci permette di essere noi stessi, indipendentemente da ciò di cui il “destino” ci rende destinatari, per così dire, casualmente.

 Sara Roggi

Articolo scritto in occasione del primo incontro ‘Caso/merito’ della rassegna ‘Tra realtà e illusione’ promosso dall’Associazione Zona Franca

Tra Aristotele e “Sliding Doors”: la teoria del caos

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Da sempre ci interroghiamo sul nostro rapporto con il tempo, ci chiediamo se siamo davvero liberi, quale sia il rapporto tra le nostre scelte e quanto ci accade. Alla fin fine possiamo spremerci le meningi quanto vogliamo, ma le possibili risposte al nostro rapporto con il tempo e l’eziologia (questa parola si riferisce a tutti i fenomeni che hanno un rapporto di causalità causa-effetto) sono sostanzialmente tre:

  • tutto è dominato dal caso;
  • tutto è predestinato, vi è cioè un Destino per ognuno di noi predeterminato che però sfugge alla nostra capacità previsionale (o forse no?), l’astrologia e le arti divinatorie tentano di sondare questo confine insondabile con uno statuto epistemologico però insufficiente, almeno per come intendiamo la scienza contemporanea;
  • ci sono cose che dipendono da noi e cose che non dipendono da noi, ma le nostre scelte aprono a futuri condizionali (esempio: decido di scavare in un dato punto perché penso che ci sia un tesoro sotterrato che effettivamente c’è, azione: scavo=trovo il tesoro, il mio scavare o non scavare implica due futuri condizionali diversi. La catena di azioni è determinata, la mia scelta no).

A seconda di come decidete di interpretare le vostre esistenze, magari senza saperlo, sappiate che appartenete a una diversa scuola di pensiero greca. Non lo sapevate? Adesso sì.
Rispettivamente:

  • Scuola atomista: Epicuro ci dice che tutto è dominato dal caso;
  • Scuola stoica: Crisippo sostiene che tutto è predeterminato e “tutto è pieno di segni” che ci preannunciano ciò che deve venire, sta a noi la capacità di interpretarlo;
  • Scuola aristotelica: Aristotele prima e Marco Aurelio poi ci spiegano che ci sono delle nostre scelte che aprono o meno futuri condizionali o se vogliamo scenari/futuri paralleli diversi.

Sliding Doors è un film del 1998 che racconta le vicende di Helen, una giovane donna che lavora nelle pubbliche relazioni fidanzata con Gerry. Dopo essere stata licenziata si dirige affranta verso la metropolitana. Il momento topico da cui si origineranno due dimensioni parallele parte dall’ascensore, quando andando via dal posto di lavoro le cade un orecchino e incontra James (che diventerà un potenziale amante e un coprotagonista della storia).

Le nostre scelte anche più piccole contribuiscono a forgiare il nostro futuro, ma alcune sono più importanti di altre. Se forse scegliere tra una pasta al pomodoro, un petto di pollo o un’insalata impatta relativamente poco sul nostro futuro, scegliere di andare all’Università o meno e quale Università frequentare implicherà una nostra frequentazione di un certo ambiente per molti anni e ci esporrà ad alcuni tipi di scelte escludendone altre.

La nostra intera esistenza è sempre esposta alla dimensione del “se”, la dimensione condizionale del “se quella volta avessi scelto” o del “se non fossi andato lì allora”; l’immaginazione è uno strumento importante perché ci permette in maniera proiettiva di farci un’idea dei futuri possibili ed è così che l’umanità è sempre esposta alla dimensione utopica e ucronica dell’esistenza, utopica senza un luogo, ma realizzabile nel tempo, ucronica senza un tempo, ma in un luogo, un paradosso che si genera nella dimensione in cui possiamo immaginare cosa sarebbe successo se gli Alleati non avessero mai sconfitto i Nazisti o se ad esempio Giulio Cesare non fosse stato eliminato a seguito della congiura ordita da Gaio Cassio e Decimo Bruto.

Aristotele aveva ragione? Possiamo notare come la teoria formulata da Aristotele si possa ricondurre alla teoria del caos cioè «lo studio attraverso modelli di fisica matematica dei sistemi fisici che esibiscono una sensibilità esponenziale rispetto alle condizioni iniziali». In pratica prendiamo un sistema, in esso ci sono delle leggi deterministiche che non mutano (la gravità muta, ma non il modo in cui funziona la gravità), nonostante tali costanti deterministiche in tale sistema ci sono anche delle variabili dinamiche, che cambiano, che determinano una casualità empirica nell’evoluzione del sistema stesso. I fisici ci dicono che il comportamento casuale è in realtà solo apparente, dato che si manifesta nel momento in cui si confronta l’andamento temporale asintotico di due sistemi con configurazioni iniziali arbitrariamente simili tra loro, ma la parte che davvero ci interessa è che a condizioni iniziali simili i risultati possono essere estremamente diversi, come potrebbe darsi nel caso di due gemelli allevati in condizioni completamente differenti.

Un treno o una metropolitana sono esempi calzanti per quello che Aristotele considera un futuro condizionale: saliti su quel treno il nostro andare in una direzione o in un’altra non sarà più in nostro potere, almeno tra una stazione e l’altra. Una scelta determina cioè una catena di eventi, per Aristotele la nostra esistenza è composta da catene.

A questo punto tiriamo in ballo l’effetto farfalla, una semplificazione della nozione tecnica di “dipendenza sensibile alle condizioni iniziali” presente nella teoria del caos. L’idea è che piccole variazioni nelle condizioni iniziali producano grandi variazioni nel comportamento a lungo termine di un sistema, per esempio se un viaggiatore proveniente da una macchina del tempo tornasse indietro di milioni di anni e nel suo “safari” calpestasse accidentalmente una farfalla ciò potrebbe comportare un futuro completamente diverso dove magari l’umanità non si è mai evoluta o forse nemmeno esistita.

«Lo spostamento di un singolo elettrone per un miliardesimo di centimetro, a un momento dato, potrebbe significare la differenza tra due avvenimenti molto diversi, come l’uccisione di un uomo un anno dopo, a causa di una valanga, o la sua salvezza» Alan Turing, Macchine calcolatrici e intelligenza, 1950.

Scrivevo prima che se magari possiamo sottovalutare l’importanza tra lo scegliere una pasta al pomodoro, un petto di pollo o una insalata (anche se l’effetto farfalla ci direbbe di stare attenti anche a questo tipo di scelte) forse ci converrebbe riflettere di più su quelle scelte importanti che aprono a futuri condizionali diversi perché alla fin fine la nostra vita non è che la somma di tutte le nostre scelte. Se quando la nostra vita inizia il tasso di indeterminazione è molto alto e fino a quando siamo giovani il nostro spettro possibilistico è molto ampio, mano a mano che invecchiamo siamo sempre più soggetti all’effetto imbuto, cioè la riduzione del nostro spettro di possibilità: anche a 90 anni possiamo viaggiare, ma magari non sarà come farlo a 20 o almeno la quantità di futuro opzionale e opzionabile sarà probabilmente più ridotto.

 

Matteo Montagner

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

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Artisti di vita

A volte a nostra insaputa ci troviamo diretti verso un precipizio, sia che ciò avvenga per caso o intenzionalmente, non possiamo fare niente per evitarlo. 

Il curioso caso di Benjamin Button

Viviamo una vita nella piena convinzione di riuscire a segnare in agenda anche l’ora più insignificante della giornata. Agenda, ma che dico; ci sono il tablet, lo smartphone e il computer a ricordarci di aver annotato ogni cosa.
Agire in maniera programmata, sopravvivere per non vivere troppo rischiando di dimenticarsi gli impegni presi. Ogni giorno è considerato con un contagocce. Ogni giorno non è aria ma ore definite.
E a volte siamo perfino convinti che sia così, perché inconsapevoli che tutto ciò che abbiamo organizzato è disposto in quel modo apposito per essere sconvolto.

Passi veloci, passi che battono l’asfalto. Camminava Filippo in una grigia giornata di dicembre. Camminava verso il suo nuovo lavoro, aveva pianificato tutto nei minimi dettagli. Aveva preparato tutto, era pronto. L’orologio del nonno, il suo portafortuna da tempo immemore. I capelli tagliati al punto giusto, gli occhiali da sole che le aveva regalato Marta. Il sorriso non troppo ostentato eppure sicuro di esserci. Erano le otto e trentadue. L’orario era il migliore per essere puntuale. Aveva scandito ogni impegno preso, con dedizione e poca emozione. Era soddisfatto senza essere felice. Era realizzato senza rendersi conto della fatica che aveva fatto.
Navigava nel vortice delle sue cose da fare, quando all’improvviso si accorse di quella stupida dimenticanza. Un gemello soltanto ad un polso. E l’altro? Scordato.
Era presto, sarebbe riuscito a tornare indietro.
Corse le scale, varcò la soglia di casa, il gemello dimenticato era lì sul tavolo. Eccolo lì, che fortuna trovarlo subito. Proprio una frazione di secondo in fondo, non aveva nemmeno perso del tempo.
Scese in strada di fretta, per avere i minuti esattamente necessari per un caffè. Scese e fece per attraversare la strada.

Il taxi investì Filippo. In un attimo. Quel tassista che quel mattino era in anticipo, perché aveva litigato con la moglie e aveva deciso di uscire prima di casa. Quel tassista che correva più veloce del solito per fuggire dai suoi guai rinchiusi tra quattro mura. Un rumore di freni che non erano stati abbastanza pronti. Filippo era steso sull’asfalto, non si muoveva.

Rimase vivo Filippo, i medici dissero per miracolo. Chi lo sa se sia un miracolo rimanere vivi avendo perso l’uso delle gambe. Vivendo a guardare il mondo da una diversa prospettiva, smettendo di accontentarsi di sopravvivere e bramando la vita vera di ogni momento.

Una serie di coincidenze, un caso fortuito e ben poco fortunato. Chiamalo ingiusto, chiamalo sadico, chiamalo cinico. Ma pur sempre Caso. Come sarebbe vivere la propria vita da un’angolazione differente? Senza impegni e costruzioni, senza trattenere le emozioni e gioendo in un momento o sgretolandosi poco a poco?
Costruiamo idee, progetti a breve o lungo termine, non sapendo che la nostra vita è pronta a cambiare senza chiederci il permesso, non sapendo che i piani sono fatti per essere sconvolti e le aspettative per essere disattese. Conosciamo chi ci cambia la vita senza programmarlo. E perdiamo chi non ce l’ha cambiata allo stesso modo.
Io li ho visti quelli che vivono sul serio, quelli che guardano dalla prospettiva della Vita e non della mera sopravvivenza. Io li ho visti quelli che non dicono “Non ho tempo”, “Ho una serie di cose da fare”, “Devo annotarmi le cose da dire”, “Ho un progetto da realizzare in queste tempistiche” e “Voglio una relazione a queste condizioni”. Io li ho visti e li ho invidiati. Tremendamente.
Io li ho visti essere impegnati senza saperlo, li ho visti fare qualcosa e riuscire ad esserne appassionati. Li ho visti ricordare le cose che dovevano fare perché le volevano realizzare per davvero. Li ho visti viversi una relazione, li ho visti ascoltare davvero i loro amici, li ho visti baciare davvero chi amano.

Un musicista, quando suona, non annota lo scorrere del tempo. E’ immerso in una dimensione che gli altri non conoscono, la gente è lontana, i suoi timori non vivono in lui, ma escono. Non ha programmato con quanta intensità suonerà quella sera, né la sfumatura che darà al suo pezzo. Suonerà e basta, perché in quel momento si sentirà vivo.
E non farà tutto il possibile per finire di suonare velocemente perché ha un impegno successivo, perderà la cognizione di tempi e luoghi.

E’ la capacità di essere gli artisti della propria vita, non limitandosi ad esserne i meri esecutori. E’ la capacità di non scriversi il proprio destino, ma di realizzarlo con ogni mezzo.
Perché quando avremo scritto tutto – su quel tablet o su quello smartphone – qualcun altro verrà a cancellarlo. Perché quando avremo progettato e costruito, finiremo per scoprire che manca un pezzo.

Le maschere che creiamo e vengono tolte. Le idee che non ci fanno dormire ed esplodono in un sogno. Le persone che “accadono” nella nostra vita e ci cadono a pennello. Gli imprevisti che rivelano chi siamo per davvero.

La vita è un’avventura con un inizio deciso da altri, una fine non voluta da noi, e tanti intermezzi scelti a caso dal caso. Roberto Gervaso

Cecilia Coletta

[immagini tratte da Google immagini]