Educhiamoci a pensare

E pensare che c’era il pensiero”
Giorgio Gaber

 

La filosofia è sin dalle sue origini esercizio del pensiero secondo ragione. I filosofi da sempre considerano l’uomo come l’essere per eccellenza dotato di pensiero e che, proprio questo dono ricevuto da Dio oppure dalla Natura, ha il compito e la responsabilità di adoperare.

È sufficiente scorrere celermente la galleria dei sapienti per scorgere quanta importanza venga accordata da ciascuno al bisogno di pensare. Partendo da Aristotele, per il quale la mansione propriamente umana è l’attività teoretica e la felicità stessa dell’uomo consiste nella vita di pensiero1. Passando per Severino Boezio che definisce la persona come “sostanza individuale di natura razionale”, fino a Cartesio dove il cogito è il fondamento metafisico affinché si possa affermare di non ingannarsi circa la propria esistenza, approdando all’illuminismo kantiano, stagione nella quale il pensiero riceve con decisione il più luminoso dei riconoscimenti. Scrive il filosofo di Konigsberg in un celebre articolo: «Sapere aude! Abbi il coraggio di usare il tuo proprio intelletto! Questa è dunque la parola d’ordine dell’illuminismo»2.

Sempre più spesso l’uomo del tempo presente rinuncia invece all’esercizio del pensiero. La sua qualità precipua, ciò che per antonomasia lo distingue da piante e animali, sembra tragicamente perdersi nel vuoto. È sufficiente osservare la vita, le scelte e le modalità di esprimersi di buona parte degli esseri umani che compongono la società ipermoderna  per constatare che la centralità del pensiero razionale, attorno alla quale si è sviluppata la cultura occidentale, sembra sgretolarsi all’incedere di esistenze sempre più vuote e anonime.

È ancora una volta la parola filosofica che può venire in soccorso della crisi contemporanea, esortandoci a rieducare la nobile e quanto mai preziosa facoltà del pensiero. Nella complessità del tempo presente, che sembra travolgere freneticamente le esistenze, la soluzione non è infatti quella di abdicare il pensiero in favore di un’illusoria leggerezza (certamente, l’uomo necessita anche di quella, purché consapevole), quanto piuttosto riconoscerne il suo intrinseco bisogno. Invero, un uomo che non pensa è un uomo che lascia agli altri la possibilità di pensare per lui. È un soggetto che, secondo Kant, preferisce rimanere in uno stato di minorità, di eteronomia, senza mai raggiungere l’autonomia che consiste nell’esercizio costante e consapevole del pensiero libero. «È così comodo – asserisce Kant – essere minorenni. Se ho un libro che ragiona per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che sceglie la dieta per me […] Non ho bisogno di pensare […] altri già si incaricheranno per me di questa fastidiosa occupazione»3. L’uomo preferisce farsi guidare e governare dagli altri, siano essi esseri umani o istituzioni, piuttosto che accedere all’autonomia attraversando la fatica del concetto. Così facendo il soggetto diviene incapace di scegliere liberamente, di agire criticamente e anzitutto di discernere il bene dal male. Ed è questa, come ha mirabilmente intuito Hannah Arendt, la dolorosa lezione che ci giunge dal recente passato totalitario. Occupandosi del processo al gerarca nazista Otto Adolf Eichmann, la pensatrice politica tedesca ha sostenuto che, avendo completamente rinunciato a pensare autonomamente, quest’uomo aveva perduto la possibilità di agire con libertà, sottomettendosi così ad un potere superiore, in questo caso ad un potere criminale. Egli era divenuto un cieco esecutore, che avendo abdicato al lieve evento del pensiero non era più stato capace di distinguere il bene dal male. Scrive Arendt riferendosi ad Eichmann: «Per dirla in parole povere, egli non capì mai ciò che stava facendo […] non era uno stupido; era semplicemente senza idee (una cosa molto diversa dalla stupidità), e tale mancanza di idee ne faceva un individuo predisposto a divenire uno dei più grandi criminali di quel periodo»4. La profonda analisi di Arendt spiega che è proprio laddove si abbandona il pensiero che il male dilaga, poiché la ragion pratica si può esercitare moralmente solo se preceduta da una pratica della ragione.

La contemporaneità, non sta dunque solamente attraversando una crisi economica senza precedenti, ma forse e più precisamente sta avanzando verso il futuro senza pensiero. Ma quale futuro può darsi senza l’esercizio del pensiero? Anche il tessuto socio-economico può infatti iniziare a ripartire solo se vi è un utilizzo serio e ponderato della ragione autonoma, che guidi a scelte equilibrate e lungimiranti nell’agire. L’analisi profonda della realtà, scorge che la decadenza è prima di tutto una crisi di individui che in parte o totalmente ripudiano il pensiero, finendo per confluire in masse che pensano e agiscono al posto loro. Dove tutti fanno ciò che fanno gli altri (conformismo) e vogliono ciò che vogliono gli altri (totalitarismo). Uno sguardo antropologico e sociologico non può che confermare questa tendenza spersonalizzante, che si rivela proprio nel momento in cui si esclude il pensiero. In questo senso risuonano più attuali che mai le parole di Carlo Maria Martini, il quale ebbe a dire: «Mi angustiano, invece, le persone che non pensano, che sono in balia degli eventi. Vorrei individui pensanti. Questo è l’importante»5.

L’esercizio del pensiero è la condizione senza la quale non si dà libertà alcuna. Una libertà interiore che niente e nessuno ci potrà mai strappare. «Tutta la nostra dignità consiste dunque nel pensiero. […] Studiamoci dunque di pensare bene»6 scriveva Pascal. Solo così potrà avanzare un mondo moralmente orientato al bene e per questo più umano, più vivibile e dove come singolo «non devo chiedere la mia dignità allo spazio ma al retto uso del mio pensiero»7.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE
1. Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, Laterza, Bari 2017.
2. I. Kant, Scritti di storia, politica e diritto, Laterza, Bari 2019, p. 45.
3. Ivi, p. 45
4. H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Felrtinelli, Milano, 201423, p. 290.
5. C. M. Martini, G. Porschill, Conversazioni notturne a Gerusalemme. Sul rischio della fede, Mondadori, Milano 2008, p.64.
6. B. Pascal, Pensieri, Edizioni San Paolo, Milano, 198712, p. 240.
7. Ivi, p. 241.

[Immagine tratta da unsplash.com]

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Dobbiamo parlare di ciò che non conosciamo

Il ‘900 con tutte le sue contraddizioni e due guerre mondiali è stato il secolo dell’ascesa della democrazia, i Paesi occidentali hanno approvato il suffragio universale, il voto alle donne e movimenti politici a crescente partecipazione hanno segnato importanti battaglie sociali e ideologiche plasmando di fatto il mondo contemporaneo.

Il ‘900 è stato anche il secolo di Internet che ha spalancato le porte dell’E-Democracy, ha reso più fruibili le informazioni, ci ha resi tutti connessi e interdipendenti come non siamo mai stati in passato. Eppure l’alba del nuovo millennio è sempre più drammaticamente segnata dalle contraddizioni della democrazia, l’esplosione delle Fake News, il conflitto intestino tra democrazia e partecipazione. Infatti anche di fronte a individui che non sono correttamente informati o che sono in forte asimmetria informativa rispetto alle questioni il motto del nuovo millennio è: «ho diritto a dire la mia, anche se di quella cosa non so assolutamente nulla». Possiamo esprimerci ormai su tutto, i nostri social media riportano le nostre opinioni su tutto, possiamo dire la nostra e quindi ci sentiamo in dovere di farlo, anzi ci viene sempre più chiesto, basti pensare a quante piattaforme sono sorte mettendo l’utente nelle condizioni di esprimere un giudizio su qualsiasi cosa, dal ristorante a un luogo.

Si sta consumando una battaglia che seppur meno epica di Star Wars ha origini lontane, parte dall’Antica Grecia e giunge fino ai giorni nostri. Se in Star Wars l’eterno conflitto è tra Sith e Jedi ai giorni nostri si sta consumando un conflitto tra Sofisti e Filosofi, cioè tra coloro che ricercano il consenso fine a se stesso e dove l’argomentazione è il fine e non il mezzo e coloro che invece restano fedeli alla Verità.

L’intera partita si gioca nel campo delle opinioni: da un lato c’è l’idea che tutti abbiano diritto di esprimersi su tutto dall’altro una dimensione tecnocratica per cui solo gli esperti sono chiamati a decidere per la collettività.

Tutta questa vicenda non è nuova alla storia dell’umanità. Per secoli la Chiesa Cattolica Apostolica Romana con le sue messe in latino e la proibizione di interpretare in autonomia i testi sacri era diventata l’unica realtà a detenere la Verità sino alle derive più estreme dell’Inquisizione. Essa sapeva che l’informazione non è solo potere e potenzialmente controllo, ma anche che se avesse lasciato ognuno libero di interpretare i testi sacri in autonomia, soprattutto senza gli adeguati strumenti teologici, si sarebbe verificata una proliferazione di eresie. Ma torniamo ancora più indietro: la stessa religione Cattolica Apostolica Romana in fondo non è che una eresia del giudaismo, motivo per cui i Farisei perseguitarono Gesù.

Un ulteriore problema è costituito dal fatto che in fondo la realtà non è oggettiva e, come scrive Nietzsche, «non esistono fatti, ma solo interpretazioni»; l’implosione del sogno positivistico di determinare la realtà in senso oggettivo appare oggi un progetto in declino, ma se la realtà in fondo non esiste, se non è altro che una narrazione che facciamo sul mondo, emerge in tutta la sua problematicità il tema di cosa sia vero e cosa sia falso.

Di sicuro ha influito sulla messa in discussione della Verità e dell’oggettività tutta una serie di autori e correnti di pensiero che ha avuto il suo culmine in Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer; abbiamo instillato in intere generazioni l’idea che in fondo la realtà non fosse che una mera rappresentazione, del resto lo stesso Kant ci dice che noi non sappiamo nulla del Noumeno, ma che la realtà non è altro che qualcosa di generato da un sistema di categorie del soggetto, dunque è il soggetto a determinare la realtà.

I social media, il digitale e internet in generale hanno contribuito alla disgregazione dell’Autorità; il lato positivo è che vi è una maggiore democratizzazione dell’informazione: sappiamo che i regimi di tutti i tempi hanno sempre manipolato l’informazione, ma dall’altro hanno anche comportato la proliferazione di notizie false che ormai permeano la vita delle persone. L’umanità non era preparata a questo cambio di paradigma.

Negli anni si è enfatizzato eccessivamente il concetto di rappresentazione, basti pensare la moda crescente per lo storytelling che ci ha indotto a credere che le cose, la realtà, alla fine sia solo il frutto di come la raccontiamo; in parte questa idea risponde al vero. Milioni di esseri umani hanno vissuto tranquillamente le loro esistenze nella convinzione che la Terra fosse piatta o credendo nel geocentrismo: questo non faceva di certo girare il Sole intorno alla Terra, né ci poneva al centro dell’Universo e la Terra non per questo era piatta, ma la credenza induceva le persone a interpretare la realtà seppur attraverso un paradigma erroneo.

Il punto è proprio questo: seppure non accediamo al noumeno, la scienza ci permette di costruire modelli che ci approssimano alla realtà delle cose, il Metodo tanto enfatizzato da Cartesio e poi da Bacon ci consente di approssimarci alla Verità e di realizzare la sperimentazione per creare degli standard che possono essere intersoggettivamente condivisi e controllati.

Quindi è chiaro che lo storytelling va bene, va bene la narrazione, va bene la democratizzazione dell’informazione, ma non possiamo nemmeno escludere del tutto che esistano dei fatti al di fuori di noi, che possiamo provare ad analizzare, a modellizzare, a capire per approssimarci sempre di più al vero che non è assoluto, ma dinamico, eppure raggiungibile per quanto in maniera imperfetta.

«Tutti si sentono in diritto, in dovere di parlare di cinema. Tutti parlate di cinema, tutti parlate di cinema, tutti! Parlo mai di astrofisica, io? Parlo mai di biologia, io? Parlo mai di neuropsichiatria? Parlo mai di botanica? Parlo mai di algebra? Io non parlo di cose che non conosco! Parlo mai di epigrafia greca? Parlo mai di elettronica? Parlo mai delle dighe, dei ponti, delle autostrade? Io non parlo di cardiologia! Io non parlo di radiologia! Non parlo delle cose che non conosco!»1.

Dobbiamo parlare di quello che non conosciamo perché parlarne ci dona l’illusione di controllarlo; mai come oggi bisognerebbe recuperare un po’ di umiltà socratica sapendo di non sapere, recuperare la capacità di ascoltare gli altri, soprattutto chi magari ha speso anni della propria vita per acquistare quella conoscenza. Ma in un tempo in cui i nonni vengono trattati come “ferri vecchi” e l’esperienza è sempre messa in secondo piano rispetto all’innovazione siamo condannati a nuove forme di “dispensiero”.

Forse sarò elitario io, ma sono ancora convinto che la Terra non diventa piatta perché facciamo un referendum: per fortuna la realtà ha ancora la capacità di affermarsi, come la gravità continua a tenerci ancorati al suolo anche se decidiamo per alzata di mano che gli uomini possono volare o che essa non esiste.

 

Matteo Montagner

NOTE
1. Da Ecce Bombo di Nanni Moretti.

[Immagine di Gerrie van der Walt]

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Gastrite filosofica e capitalismo

«L’inganno più grande che io abbia mai fatto è stato di farti credere di essere te».

Da Revolver, film di Guy Ritchie del 2005

 

Quale migliore citazione per la vittoria definitiva del Capitalismo tanto temuto dal buon Karl Marx? Alla fine il più grande inganno della società contemporanea è essere riuscita a instillare in tutti noi l’unica e ferma convinzione che in fondo le cose non possano stare che così e in nessun altro modo. Va dato al mondo contemporaneo e ognuno di noi quindi il merito di aver piegato ogni dissenso e ogni voce critica fino a soffocare il grido di un recente passato di conquiste sociali all’ovatta del tempo.

La società occidentale, così immune alle patologie devastanti che hanno flagellato i secoli passati, vede un crescente aumento di malattie croniche di poco conto: vedasi gastriti, sindromi del colon irritabile e disturbi vari. Ovviamente esse non sono niente se paragonate a una epidemia di vaiolo, eppure questi piccoli e fastidiosi disturbi si insinuano sempre più violentemente nel vivere quotidiano di milioni di persone ogni giorno, inesorabilmente. Solitamente esse vengono derubricate alla voce stress, un termine ormai abusato e quasi dato per scontato, ma filosoficamente indagato pochissimo − in fondo siamo tutti (chi più chi meno) stressati, perché occuparcene quindi? Ma che matrice intima ha questo stress?

La società capitalista che ha una forte matrice cartesiana sorvola grandiosamente l’interazione tra fisico e mente e viceversa. Del resto niente vi fu di più grande dell’idea che in qualche modo l’esistenza fosse slegata dal tanto disprezzato corpo che con la sua caducità metteva a nudo la deflagrazione di quelle idee e derivanti ideologie che si volevano incorruttibili. Cartesio imparò bene dal cristianesimo.

Tutti noi siamo stati educati, cresciuti e abituati (ma sarebbe meglio dire addestrati) a gestire come normali certi sfoghi o reazioni del nostro corpo, perché in fondo ritenute parte dell’esistere contemporaneo come l’inquinamento ambientale, l’uso di conservanti nell’alimentazione, seppur nocivo, o lo smog perché, in fondo, si è normalizzata l’anomalia dello stare male.

Non solo Karl Marx ha fallito come ha fallito il materialismo, ma siamo ben oltre: noi stessi rifiutiamo costantemente ciò che il nostro corpo, che poi è la nostra parte più vera, prova disperatamente a dirci, e cioè che le cose così come sono non vanno bene. Nella vostra vita avete trovate o troverete un’orda di motivatori, coach improvvisati, melliflui chiacchieroni sempre pronti a dirvi che in fondo bisogna andare avanti, bisogna pensare positivo, che se hai la gastrite buttaci giù due pastiglie che passa e via. Avanti tutta verso la meta.

Che meta poi?

Una esistenza consistente, autentica?

No, in questo mondo esisti solo nella misura in cui produci un reddito, lo sanno bene le orde di stagisti e poveracci sottopagati che si ammassano alla ricerca di un lavoro “perché tanto bisogna fare curriculum”, lo sanno bene i poveri, gli storpi, gli esclusi dalla società che come la vostra gastrite vi ostinate a non voler ascoltare, anche se, in fondo, è parte di voi. Forse quella dannata gastrite è la parte più vera di voi.

Scrive bene Karl Marx nella prefazione a Per la critica dell’economia politica (1859):

«Non è la coscienza degli uomini che determina la loro vita, ma le condizioni della loro vita che ne determinano la coscienza».

Allo stesso modo tutti noi siamo stati educati che in fondo un po’ di gastrite può andar bene, che bisogna lavorare anche se ti pagano poco, che anche se stai male bisogna produrre e in fondo che stare male è una condizione strutturale dell’essere umano salvo tu non abbia la fortuna di essere un milionario, un vincitore del Superenalotto o in generale qualcuno che può vivere di rendita o ergersi sopra gli altri.

Quella dannata gastrite che prende il sopravvento è invece forse la parte più autentica di ognuno di noi, è quel mutus animi (moto dell’animo) che in fondo ci sta sussurrando dal basso del nostro ventre che le cose, così come sono, in fondo non vanno; è un richiamo ancestrale al ribellarsi e alla ribellione, perché in fondo ogni essere umano nasce libero, ma non sempre siamo capaci di sostenere o di ricordare quella libertà.

Meno Malox dopo i pasti e più e più Lex, intesa come giustizia, cioè dare a ognuno il suo. Forse seguire questo principio ci aiuterebbe a risolvere tanti problemini di stomaco in prima battuta e a costruire una società migliore nel complesso. Le cose non sono date così come sono, ma ciò che ogni giorno scegliamo di essere determina ciò che le cose sono.

«Il difetto principale d’ogni materialismo fino ad oggi è che l’oggetto, la realtà, la sensibilità vengono concepiti sotto la forma di oggetto o di intuizione, ma non come attività umana sensibile, prassi, non soggettivamente».

La vostra gastrite è reale, care amiche e cari amici, ed è dannatamente oggettiva e vi ricorda ogni dannato giorno, o almeno ci prova, che le cose non vanno come sentite che dovrebbero andare.

Meno Malox e più ribellione, provare per credere.

Matteo Montagner

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

 

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Lo sport come rilettura della realtà

Per ogni individuo lo sport è una possibile fonte di miglioramento interiore.

Pierre de Coubertin

Dopo le importanti vittorie riportate dai nostri sportivi italiani, a partire dalla tennista Flavia Pennetta per arrivare alle atlete di ginnastica ritmica passando per il Basket Italia, non si può non immaginare un collegamento tra la ricerca teorica astratta tipica della filosofia e la manifestazione puramente fisica del corpo attraverso lo sport.

La Filosofia dai più è considerata come un ‘esercizio’: per Dewey è l’esercizio del “metodo dell’intelligenza”, per Herbart è l’“elaborazione dei concetti” con il compito di mettere ordine e connessione tra i concetti e le idee fondamentali delle scienze.

La filosofia risulta, dunque, un esercizio alla vita che può  raggiungere lo scopo di conoscere la realtà abbracciando e connettendosi con tutti gli aspetti della conoscenza umana, dalla politica alle scienze, all’arte, alla religione e perché no alle discipline più pratiche come lo sport.

Non è una coincidenza se sia lo sport che la filosofia hanno visto la loro nascita dalla stessa cultura, quella della Grecia in cui lo sviluppo dell’uomo doveva considerare sullo stesso piano il corpo e la mente.

Anche lo sport, come la filosofia è un linguaggio ed un’espressione universali, rispetto a quelle attività elettive, identificabili con l’arte, la religione e la scienza, perché risulta immediato ed efficace, basandosi sui semplici concetti di spazio e tempo.

E la filosofia non si interroga anche su questo due concetti?

Pensiamo a Cartesio secondo cui gli elementi costitutivi della natura dei corpi sono l’estensione (quantità di materia e spazio che essa occupa) e il movimento, oppure Kant che considera spazio e tempo come “forme a priori” della conoscenza sensibile e molti altri ancora.

Per questo è da considerare il fatto che lo sport porta alla conoscenza e all’interpretazione della realtà umana perchéè in grado di mette a confronto l’istinto e la razionalità, lo spirito e la materia.

Lo sport è l’insieme di tutte le attività elettive dell’essere umano ed è quindi collegato alla filosofia da un invisibile filo che altro non è se non l’uomo stesso inteso come ‘misura di tutte le cose’.

Lo sport diventa così uno strumento nelle mani dell’uomo per liberarsi dalla condizione di schiavitù in cui si ‘auto’-limita, cercando di esplorare se stesso; infatti non appena l’uomo fa sport dimentica i suoi problemi che affiggono la sua vita e quella degli altri,  tutto questo perché lo sport ha delle regole per regolamentare i rapporti e queste sono valide universalmente.

Sport ed etica rappresentano un connubio imprescindibile, senza il quale il primo non potrebbe essere riconosciuto ed efficace in tutto il mondo.

Lo sport insegna a non odiare l’avversario ma a rispettarlo ‘nella buona e nella cattiva sorte’, accettando la sconfitta e apprezzando la vittoria meritata.

Ecco che allora si può intravedere il collegamento imprescindibile tra la ricerca attratta della filosofia e l’attività concreta dello sport: quest’ultimo è da considerarsi come la metafora della vita però basata su precise regole cui non si può sfuggire.

 Valeria Genova

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Neuro, ergo sum

Anche senza aver mai masticato troppa filosofia, al segnale di un “cogito” o di un “ergo”, tutti abbiamo sempre saputo come completare la ormai celebre filastrocca cartesiana del “Cogito, ergo sum”. Che lo sappiate o meno, la sconcertante ovvietà del “Penso, quindi sono” ha stravolto l’andamento della filosofia, conferendo all’uomo un livello di autocoscienza, con cui abbozzare qualche risposta all’ancestrale domanda del “chi siamo?”.

Esseri pensanti, per cominciare: il solo fatto di poter pensare mi dà la garanzia di essere, di esistere come entità che pensa e di dormire sonni tranquilli sulla mia natura di essere umano, se mai qualcuno potesse aver sofferto di insonnia per riflessioni esistenziali (filosofi a parte)…

Se mi addentrassi ancor di più in questa apparentemente banale discussione, il mio lettore mi accuserebbe a ragione del noto delitto delle “seghe mentali”, che tecnicamente potremmo definire “speculazioni filosofiche”. Non mi resterebbe che ammettere la mia colpa, ma… ripensandoci, lui stesso ha appena ribadito quanto espresso da Cartesio!

La sua secca e disarmante considerazione ha infatti dimostrato proprio quello che la filosofia gli stava spiegando: l’attività cognitiva (messa in atto in questo caso per liquidare la filosofia) ha dato conferma della sua presenza, del suo antagonismo nei miei confronti e dell’eterea esistenza di qualcosa che pulsa incessante sotto i nostri ragionamenti: il pensiero.

Se oggi possiamo camminare eretti, immersi nell’agio e nelle comodità del Ventunesimo secolo, esibendo il nostro pollice opponibile su smartphone e smanettando sui tablet, non dobbiamo ringraziare soltanto Steve Jobs e il suo garage, ma dobbiamo partire dalla mente e dal cervello umani. Nel corso della storia dell’uomo infatti, per ottenere un costante miglioramento della tecnica, la via del progresso è sempre passata per la necessaria presa di coscienza della propria condizione: l’autocoscienza, mezzo e fine delle nostre attività mentali.

Il pensiero ha però posto anche i confini del nostro mondo: un perimetro tracciato a suon di colonne d’Ercole, oltre cui si nascondevano paesaggi troppo appetibili per non superarle e macchiarci così di un peccato mortale, la tracotanza (ὕβϱις, in greco). E così con il meta-pensiero (il pensiero del pensiero, lo studio del pensiero) abbiamo tratto il dado: filosofia e neuroscienze hanno spostato l’asticella del concesso, della conoscenza e ci prospettano estensioni di sviluppo ed evoluzione che sembrano un affronto a Dio. Ma non abbiamo fatto altro che affrontare il nostro passato e rendere onore al nostro logos, innalzandoci col petto in fuori rispetto al verdastro orizzonte che potevamo scrutare quando ancora stavamo a gattoni.

Non siamo stati fermi dove Dio o la Natura ci avevano messi, ci siamo trovati su un trampolino di lancio. Il volo è tutto una fase ascendente, non c’è gravità che tenga di fronte alla spinta generatrice, conservatrice e migliorativa dell’attività cognitiva tipica dell’uomo.

Allora capiamo che non stiamo spingendo troppo sull’acceleratore, perché sin dal principio c’era il logos, si pensa cristianamente; ma anche molti pensatori laici attribuiscono alle funzioni logiche (etimologicamente) una funzione primaria, essenziale e vitale. Questo logos racchiude una dicotomia inscindibile di pensiero e parola, gli artigli più affilati che la Natura abbia mai forgiato, il tutto messo in circolo grazie alla rete più affascinante e multimediale che ci sia al mondo.

No, non è internet, ma il sistema nervoso. Miliardi di neuroni che intervengono costantemente nel farci capire e apprendere gli stimoli esterni, capaci di creare collegamenti sinaptici sempre più raffinati e deputati al progresso, all’evoluzione della macchina umana.

Lo sviluppo delle neuroscienze ricopre dunque un’importanza fondamentale per la nostra esistenza, dato che l’analisi delle facoltà cognitive collima perfettamente con una ricerca filosofica rigorosa e puntuale.

Cosa farcene di tutto questo? Scomodare la filosofia dall’Olimpo della conoscenza, per donarle una formalizzazione concreta, che ci accompagni nella crescita dell’autocoscienza.

La tecnica avanza velocemente, non possiamo continuare a rincorrerla, ma dobbiamo condurla verso il destino di cui siamo – forse – gli unici artefici.

 

Giacomo Dall’Ava

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Anselmo e l’esistenza di Dio: tra realtà e Intelletto

I primi secoli del Medioevo furono per l’Occidente cristiano un periodo di tumultuosi mutamenti politici e sociali, non certo l’ambiente più adatto per la speculazione filosofica.

La ripresa del fervore culturale si ebbe a partire dal IX secolo, con la nascita dell’Impero di Carlo Magno. L’obiettivo del sovrano franco di riunire la cristianità sotto l’autorità dell’Imperatore e della Chiesa era perseguito con la spada ma anche con il libro: fornire un panorama culturale comune alle genti riunite nell’impero ispirandosi alla Roma di Costantino I. È perciò grazie al patrocinio della corona che poté nascere la schola palatina ad Aquisgrana: un gruppo d’intellettuali che diede forma a quella che sarà la cultura e la filosofia del Medioevo centrale, che sarà perciò chiamata Scolastica e che sopravviverà di secoli all’effimera esperienza dell’impero carolingio.

Una delle figure più interessanti della Scolastica è quella di Sant’Anselmo. Nato ad Aosta nel 1033 da nobile famiglia, fu frate benedettino e attraversò diverse abbazie fino a diventare nel 1079 abate del monastero di Bec, in Normandia, e infine arcivescovo di Canterbury nel 1093, sotto il regno del re normanno d’Inghilterra Guglielmo II il Rosso, figlio di Guglielmo il Conquistatore. Anselmo aveva fama di essere più uomo di pensiero che di potere, guadagnandosi spesso la simpatia popolare. Una volta ottenuto l’arcivescovado, egli divenne tuttavia un difensore della riforma gregoriana, nata nel 1046 con l’intento di ripristinare l’antica purezza della Chiesa di Roma (il X secolo era stato un tale periodo di corruzione da essere definito saeculum obscurum negli Annali Ecclesiastici), e i cui obiettivi principali erano l’affermazione del potere papale su quello dei vescovi e del potere ecclesiastico su quello civile. Mentre il papa si scontrava quindi con l’imperatore, Anselmo entrò in attrito con il re d’Inghilterra, e fu costretto due volte all’esilio, da Guglielmo II e dal suo successore Enrico II Beauclerc. Riappacificatosi con re Enrico, Anselmo si reinsediò a Canterbury e mantenne la carica fino alla morte, nel 1109.

Il pensiero di Anselmo fornisce un buon ritratto del panorama culturale del Medioevo centrale: un erede del neoplatonismo di Agostino e dei commenti aristotelici di Boezio che presenta però molti aspetti innovativi, introducendo dibattiti tutt’ora sentiti, come il rapporto tra ragione e fede. Anselmo riservava molta attenzione al ruolo della ragione. Secondo il santo, il fondamento di ogni sapere è ancora individuato nella fede (credo ut intelligam), ma la ragione diviene uno strumento essenziale per comprendere i dogmi della fede.

Nel Monologion (1076), Anselmo dimostra a posteriori l’esistenza di Dio. Nel mondo vi sono molte cose buone: nessuna di queste è buona in assoluto e ognuna di esse presuppone un bene assoluto da cui traggano il loro grado di bontà. Questo bene assoluto è Dio. Lo stesso ragionamento si può applicare ad ogni valore: nulla è perfetto e tutto presuppone l’esistenza di una somma perfezione, di Dio.

Nel Proslogion (1078), l’esistenza di Dio è invece dimostrata a priori. Per Anselmo ognuno, anche lo stolto «che disse in cuor suo: Dio non c’è», ha il concetto di Dio. Ma il concetto di Dio è il concetto di un essere di cui non si può pensare nulla di maggiore. Ed è impossibile che un tale Essere esista solo nell’intelletto e non nella realtà: se esistesse solo nell’intelletto, allora sarebbe possibile pensare qualcosa di maggiore, cioè che esista anche nella realtà. L’argomento si fonda sul presupposto che ciò che esiste nella realtà è “maggiore” di ciò che risiede nel puro intelletto.

Le argomentazioni di Anselmo furono oggetto di dibattito già tra i suoi contemporanei. Molti pensatori medievali e moderni, fino a Cartesio, Spinoza e Hegel considerarono valido il ragionamento dell’abate di Bec. Ma intanto già Gaunilo di Marmoutiers si era rivolto al suo contemporaneo Anselmo sostenendo che dimostrare qualcosa sul piano del pensiero non significa dimostrarne l’esistenza: dalla possibilità logica non deriva la realtà. Altri che non accolsero le dimostrazioni di Anselmo furono Kant e Tommaso d’Aquino.

L’obiezione di San Tommaso (1225-1275) è quella forse più importante, perché su di essa si baserà la linea ufficiale della Chiesa: per l’Aquinate l’argomentazione anselmiana è valida solo se si presuppone già l’esistenza di Dio, che va dunque presupposta per sola fede.

 

Umberto Mistruzzi

[Immagini tratte da Google Immagini]

Dubita e conoscerai

Il dubbio è uno dei nomi dell’intelligenza.

Jorge Luis Borge

Il dubbio fa parte della nostra vita.

Difficile che la certezza caratterizzi la nostra esistenza.

Spesso, però, si confonde il dubbio con l’ignoranza, con l’incapacità di scegliere.

Il dubbio cos’è in realtà?

Il dubbio non compromette la ricerca della verità, anzi, è esso stesso che ci spinge verso un continuo bisogno di “trovare” dentro alle cose il significato primo.

In Filosofia il dubbio è proprio la premessa della ricerca sia della verità, dunque parliamo di dubbio metodico, sia della consapevolezza dell’impossibilità di trovare quello che si cerca, quindi ci troviamo di fronte ad un dubbio scettico.

Socrate è stato grande maestro del dubbio metodico, con il suo ricercare la verità dubitando delle asserzioni degli interlocutori che si ritenevano sapienti e riducendole all’assurdo.

Il dubbio di Socrate non è da considerarsi scettico in quanto in lui vi è una certezza, che invece manca agli altri, cioè quella di non sapere: proprio questa consapevolezza estranea agli altri rende Socrate più sapiente e in grado di ritenere ogni forma di sapere veritiera solo se innata e proveniente da se stessi.

Ma nel corso della nostra vita possiamo dubitare di tutto?

Assolutamente no, in quanto già del dubbio stesso non possiamo dubitare, si tratterebbe di una contraddizione!

Il dubbio sembra, dunque, unica fonte di sapere perché esso non esisterebbe se io non stessi cercando una presunta verità: il dubbio ci porta, così, ad una certezza, quella dell’errore.

Cartesio stesso afferma che l’attività del dubitare è ciò che permette di giungere all’essere.

Cogito ergo sum.

Nella nostra società, a mio parere, vige il dubbio scettico, cioè la convinzione di non poter conoscere la vera natura dei fenomeni. Oggi, infatti, il dubbio è considerato indizio di insicurezza e incapacità di prendere delle decisioni, a causa della fine delle certezze tradizionali, la consapevolezza che non esistono più verità privilegiate.

Ai giorni nostri il dubbio viene a coincidere con la «sospensione del giudizio», ma non ritenuta, come una volta, l’atteggiamento corretto perché solo in questo modo poteva nascere la tolleranza delle opinioni e dei comportamenti altrui, ma considerata come atteggiamento vigliacco di chi non è in grado di prendere una posizione.

Eppure, se pensiamo bene, i dubbi affiorano quando non crediamo a qualcosa che sentiamo e/o leggiamo, quindi da una nostra inconsapevole voglia di sapere e solo questa sete di conoscenza (inconscia) rende l’Uomo essere intelligente e ragionevole.

Valeria Genova


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LA NUEVA GNOSEOLOGÍA DE MERLEAU-PONTY

A diferencia de Descartes que fundamenta el dualismo res pensante y res extensa Merleau-Ponty plantea claramente la necesidad de un cambio epistemológico radical.

La corporalidad fenoménica es lo auténticamente relevante y esencial para trascender el espiritualismo idealista cartesiano. Como escribe Fernando Martínez Rodriguez en relación con el enfoque de Merleau-Ponty:

El cuerpo fenoménico se va a erigir en un auténtico trascendental. La subjetividad se va a construir a través de la subjetividad corporal.

Y es que lo visible fenoménica y empíricamente es lo que debe contar realmente como conocimiento. Porque la denominada conciencia, razón o mente posee componentes físicos y materiales que son el origen de su función pensante y reflexiva.

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