Come Carroll a caccia di Snark

Quando una valigia si riempie di parole, l’assale una gran voglia di parlare. Questa valigia, per l’appunto, è piena di ritagli di cartoncini su cui sono impresse parecchie parole. E sta per aprirsi e parlare.

Ecco che un’onda di ritagli si infrange sul pavimento. Per terra ora c’è un mare di parole. Sono tutti sostantivi, alcuni molto lunghi, altri più corti, ognuno con un significato diverso. Le mani dei bambini come vascelli solcano in ascolto questo mare, è un’esplorazione semantica in cui ritrovano parole note e ne scoprono di ignote.

Ci sono nomi che portano significati concreti e quotidiani, ce ne sono altri più strani e lontani. E poi ci sono nomi un po’ particolari che non sembrano avere un riferimento nitido, ma che hanno un significato un po’ a metà strada tra quello di altre due parole.  Come “mandarancio”: chi è che sa dove finisce il mandarino e dove incomincia l’arancio?

Di parole un po’ sfocate ne esistono a bizzeffe, sia per un uso consueto e concreto – come “mandarancio” – sia con riferimento più strano e desueto. In francese questo tipo di parole si chiama mot-valise, che letteralmente si traduce con “parola-valigia”.

Se è vero che ne esistono in grande quantità, quelle che non esistono sono certamente la maggior parte. Le mani dei bambini esplorano questo misterioso, ignoto mare. Navigando trovano un “mandacchio”, un curioso frutto tra il mandarino e il pistacchio, un “perancio” e un “kakiwi”: avete capito di quali due frutti sono frutto questi due frutti?

Ma le parole-valigia più fantasiose arrivano col mare mosso. Quando i frutti si mescolano con le verdure e gli insetti coi mammiferi, quando i fiammiferi e le briciole si mescolano con gli astri e i pianeti, quando le possibilità del quotidiano si mescolano con l’invenzione.

Il gioco di scoprire parole-valigia affascinava Lewis Carroll talmente tanto da dedicare un poemetto epico proprio a una di queste parole: Snark. È difficile dire cosa sia uno Snark: probabilmente ha qualcosa del serpente (snake) e qualcosa dello squalo (shark), ma non è detto che non abbia anche parti lumacose (snail) e tratti ringhiosi, cortecciosi e aggrovigliati (bark, snarl). Sicuramente non è un essere innocuo.

Per amplificare la potenza immaginativa del suo Snark, oltre a questi giochi polisemici, Carroll ricorre anche ad altre strategie. Innanzitutto ne proibisce qualsiasi illustrazione ed evita descrizioni dettagliate: questo perché qualsiasi contorno, figurato o verbale che sia, che vada oltre una bozza della figura fantastica ne inchioderebbe la libertà immaginativa. Rappresentare l’indescrivibile, particolareggiare l’ineffabile disambiguando il mistero, tradisce le possibilità della fantasia e ne imprigiona il senso.

In secondo luogo Carroll impregna i personaggi e le dinamiche narrative di nonsense. I dialoghi, nel loro succedersi, non hanno senso compiuto, i legami di causa-effetto sono derisi, le abituali correlazioni cadono. L’irragionevole irrompe nel quotidiano, l’assurdo prevale sulla coerenza e lo straniamento non ha scopo, ma è legge del quotidiano. E questa è una difesa senza compromessi della potenza caleidoscopica dell’immaginazione, un elogio senza mezzi termini della fantasia che si fa regola suprema della narrazione.

Infine, il culmine del genio fantastico è raggiunto da Carroll al termine del poemetto quando uno dei membri della ciurma impegnata nella caccia allo Snark, lo incontra. E quando vede la sua forma e i suoi colori, quando il fantastico diventa ai suoi occhi reale, ecco che l’osservatore sparisce. Come a confermare, nei fatti narrati, che la fantasia muore se costretta entro troppi dettagli che ne indispongono la libertà.

Allenare l’immaginazione, oltre che un gioco, è un esercizio prefilosofico e filosofico utile ai bambini. E figurarsi uno Snark, a partire dalle parole che Carroll usa per tratteggiarne la figura e dalle situazioni narrate nel poemetto, oppure inventare altre figure fantastiche a partire da una parola-valigia, sono strade possibili per incontrare la filosofia e imparare a navigare in un nuovo, diverso, mare.

 

La valigia del filosofo

 

[Photo credit La valigia del filosofo]

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“It” è un film che banalizza la cognizione dell’orrore

Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, il filosofo americano Noël Carroll provò a teorizzare nel libro The Philosophy of Horror (1990) il paradosso dell’orrore. Si tratta di una variazione del più tradizionale paradosso della tragedia, dovuto al filosofo David Hume e riducibile alla domanda: “perché siamo attratti da cose che (se fossero reali) riterremmo orribili?” La notizia che un film come It abbia incassato al box office statunitense oltre duecento milioni di dollari nelle prime due settimane di programmazione, è la dimostrazione che il pubblico è ancora molto attratto dal fascino dell’orrido. Ma che cos’è l’horror? Per Carroll si tratta di un genere eminentemente moderno, che ha avuto origine nel XVIII secolo in Europa con la cosiddetta letteratura gotica. Nell’analizzare l’horror Carroll evidenzia come questo genere sia un dispositivo che funziona nella sua totalità. Tuttavia, il filosofo mette in rilievo alcuni elementi tipici che appaiono essere più importanti di altri nella costruzione della finzione scenica. In particolare: la presenza nel cast di un gruppo di protagonisti generalmente umani (nel caso di It si tratta dei ragazzini che fanno parte del Club dei perdenti) contrapposti a un’entità mostruosa che li minaccia e che, a seconda dei casi, può assumere molteplici forme (tra cui quella umana).

Il successo del romanzo pubblicato nel 1986 da Stephen King è in gran parte dovuto alla sua capacità di riuscire a raccontare con incredibile efficacia un male archetipico, confinandolo in una mostruosa personificazione mutaforma delle paure di ognuno di noi. It è un mostro senza genere (anche se nel libro si ipotizza la sua propensione verso il lato femminile), è la personificazione di ogni nostra paura e si nutre del terrore che riesce a suscitare nelle sue vittime. L’unica soluzione possibile per eliminare un antagonista simile è compiere una crescita personale, superando le paure primordiali dell’infanzia e arrivando alla maturità dell’età adulta, dove i turbamenti non scompaiono ma si evolvono a una fase più consapevole rispetto al terrore di cui si nutre It. Nel nuovo adattamento cinematografico diretto da Andy Muschietti, gran parte di queste tematiche vengono banalizzate e ridotte a una lotta, nemmeno troppo spaventosa, tra un gruppo di ragazzini e un clown assassino (personificazione preferita del mostro creato da King).

Chiariamo una cosa: il nuovo lungometraggio di Muschietti non è del tutto esente da meriti. È girato con grande maestria registica, cura con grande attenzione gli elementi della messa in scena e, con un cast di tutto rispetto, ha il coraggio di prendere una serie di soluzioni narrative che in qualche modo lo rendono libero e indipendente dal peso incombente del romanzo a cui si ispira. It è un film che reclama una sua indipendenza ma che al tempo stesso si dimentica di mettere in scena l’elemento chiave nel conflitto tra il mostro e i ragazzini, vale a dire: l’immaginazione. La parte del viaggio onirico di Bill raccontata da Stephen King, poco prima dello scontro con il clown Pennywise, sarebbe stata una componente fondamentale da mettere in scena per mostrare allo spettatore come rabbia e coraggio non siano sufficienti, in questo caso, a eliminare un antagonista così spaventoso. Serve immaginazione per vincere le proprie paure ma Muschietti sembra dimenticarlo, portando in scena un film che punta molto sullo spavento più immediato e concreto, causato da esplosioni sonore a tratti esagerate e sulla diabolica fisicità del giovane Bill Skarsgård che interpreta It scegliendo saggiamente una prova di sottrazione attoriale, ispirata ai grandi antagonisti del cinema muto. Fatta eccezione per la splendida sequenza iniziale infatti, il clown di Skarsgård è un personaggio quasi muto e presente in scena pochissime volte, divenendo così una presenza metaforica più che un personaggio vero e proprio. In attesa di vedere la continuazione della storia cinematografica nel secondo capitolo dell’opera, questo primo vero adattamento cinematografico di It rimane un ottimo prodotto commerciale per la grande fruizione di massa, anche se la paura dei produttori di fallire al botteghino ha impedito all’opera di galleggiare verso l’Olimpo dei grandi film, rischiando di far naufragare una delle più belle storie mai scritte nella banalità ordinaria dell’intrattenimento orrorifico, già visto decine di volte sul grande schermo.

 

Alvise Wollner

 

[immagine tratta da google immagini]

 

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Crostate rubate

Era tarda sera e ci fermammo a dormire alla locanda. Saremmo rientrate a casa l’indomani.

Non c’erano tende né persiane e la luce ci svegliò molto presto. Quando arrivò l’ora della colazione, ci presentammo nella sala. La bambina, che era solita frequentare la locanda, si accorse subito che al menù della colazione mancava la cosa più importante: le crostate!

Quasi l’avesse letta nel pensiero, la locandiera entrò nella sala insieme alla cuoca e gridò. Chi ha rubato le crostate?.

Forse non c’era bisogno di gridare, pensai, dato che non c’era per nulla confusione ed eravamo, in sala, soltanto quattro: al nostro tavolo io, la bambina e la mia amica, e nel tavolo in fondo quel bambino che avevamo incontrato il giorno prima nella città senza nome1. Ad ogni modo, ci voltammo verso la locandiera con aria curiosa. Il bambino fu il primo ad avanzare un’ipotesi, e lo fece con un tono che rispondeva alla gentilezza della cuoca.

Forse ti sei dimenticata di essere una cuoca, stamattina, e ti sei scordata di prepararle, le crostate.

Ma la cuoca non soffriva di amnesie, quindi l’ipotesi era da escludere. E aveva usato una marmellata di ribes rossi che sarebbe scaduta il tredici novembre del duemiladiciotto, gracchiò.

Risolverò questo caso! Continuò il bambino. Forse allora le ha mangiate la cuoca, le crostate. Sì, magari stamattina non voleva soltanto cucinare cose buone e mangiare, come fanno i cuochi, gli avanzi dei pasti. Probabilmente stamattina aveva molta fame e si era pappata tutto!

Non è possibile, gli ricordò la bambina, ineccepibile. La cuoca è celiaca e quelle crostate contengono glutine.

Mmm… Forse oggi è il Giudigiugno?

Cos’è il Giudigiugno? Intervenne la mia amica.

È un giorno di giugno in cui le persone lanciano le torte giù dalle finestre e dai balconi per centrare i passanti, spiegò la bambina.

No comunque, oggi non è il Giudigiugno, rispose la bambina. E poi, puntualizzò, le torte che si lanciano il Giudigiugno devono contenere la panna montata. Non mi risulta che le crostate abbiano la panna!

Forse, allora, qualcuno ci ha fatto uno scherzo e ha nascosto le crostate ai ribes rossi nella cassaforte dietro al quadro dell’anatra2!

Veramente quell’anatra è un coniglio, comunque no, è impossibile: qui non ci sono passaggi segreti, disse la bambina dopo aver scostato il quadro.

Allora qualcuno per dispetto deve averle dipinte di… di… verde, e averle messe su quella lunga tovaglia verde con la quale adesso si mimetizzano!

Scrutammo la tavola e spostammo la tovaglia: era leggera e non vi era nulla su di essa.

Ho capito! Si fece serio. Ci dev’essere stato un equivoco. La donna delle pulizie ha scambiato il cestino delle crostate con quello del bucato e le crostate sono finite in lavatrice. Mamma mia, speriamo di no!

Tranquillo, neanche questo è possibile perché la lavatrice è vuota. Hai comunque tantissima fantasia, dissi io.

A volte riesco a credere a sei cose impossibili, prima di fare colazione3.

Invece, irruppe la mia amica, è possibile che manchi qualcuno, tra noi?

C’era effettivamente un ospite ancora, tra coloro che non si erano già svegliati. Era uscito senza fare colazione, o così ci aveva detto. La locandiera insinuò che doveva essere stato lui, anche perché ogni volta che alla locanda si sforna una torta, lui non si tira mai indietro. Come aveva fatto a non pensarci prima e com’era lampante questa prova, esclamò rimproverandosi.

Sembravano non esserci dubbi, ma la bambina osservò: non siamo un po’ troppo frettolosi? Non è detto che, se finora è sempre accaduto così, anche stavolta non faccia eccezione. Non c’era scritto da nessuna parte, dopotutto.

L’osservazione della bambina non faceva una piega e fu molto apprezzata. Ma ancora di più fu apprezzata la cuoca, che era già tornata in cucina a imbastire una nuova pasta frolla.

La valigia del filosofo

 

NOTE:

1 Cfr. Dove trovammo la valigia del filosofo.

2 Cfr. Zuppe larghe un metro.

3 Cfr. L. Carroll, Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie, cap. V.

 

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