Facciamo che io ero un bambino di nove anni…

Serjoza si fece pensieroso, fissando il viso del portinaio già studiato fino nei minimi particolari, e in ispecial modo il mento […] che nessuno aveva visto, eccettuato Serjoza, che non lo guardava mai altrimenti che dal basso.

(L. Tolstoj, Anna Karenina)

Questo non è un autentico punto di vista dal basso, non è il punto di vista di un bambino di nove anni; è il punto di vista di un uomo oltre i quarantacinque che vuole fare il bambino di nove anni. Non siamo in basso, ci siamo abbassati.

Per Tolstoj sono passati trent’anni dall’ultima volta che ha reclinato il collo all’indietro per poter guardare un adulto in faccia. Dopo trent’anni piega le ginocchia, tocca terra e si riposiziona ad altezza bambino, si immedesima.

Facciamo che io ero un bambino di nove anni…

Il punto non risiede nella riuscita o meno dell’illusione. Poco ci interessa. Quel che importa è che a qualsiasi livello l’autore sia stato in grado di immedesimarsi nel suo bambino o nella sua bambina, resisterà sempre una distanza:      

“Il padre gli parlava sempre […] come se lui fosse rivolto a un certo ragazzino immaginato da lui, uno di quelli come ce n’è nei libri, ma niente affatto somigliante a Serjoza. E Serjoza […] cercava sempre di fingersi proprio questo ragazzo libresco.”

L’adulto osserva il bambino dall’alto, con uno scarto di centimetri che non gli è dato colmare e lo renderà per sempre miope. L’adulto guarda il bambino attraverso un filtro, un filtro che ha qualcosa della narrazione: non a caso il padre di Serjoza gli parla come ad un bambino libresco, immaginato.

Ma Serjoza è un bambino libresco e il suo vero padre, l’autore, non può fare altro che investirsi lui stesso nella parte, così come Serjoza cerca disperatamente di fare pur di compiacere le aspettative del padre-maestro.

Il capitolo ci parla dell’educazione di Serjoza. Doppiamente interessante per noi: non solo bambini, ma bambini in classe.

Il bambino di Tolstoj “sprofonda in meditazioni”: cioè, secondo gli adulti che lo circondano, si distrae. Non è un bravo studente, si perde osservando i bottoni sul panciotto del padre e dimentica i nomi dei patriarchi perché Enoch è il suo preferito e “all’assunzione di Enoch vivo in cielo si collegava tutt’un lungo ragionamento” a cui Serjoza si abbandona.

Eppure la sua anima si proclama “colma della sete di conoscenza”.

Secondo gli adulti, il problema è uno: Serjoza è svogliato.

Secondo Serjoza, i problemi sono due: quel che gli viene insegnato e il modo in cui gli viene insegnato. La materia è “inutile”; ma l’attributo “inutile” segue un aggettivo gravissimo: “noioso”. Ciò che gli viene insegnato è inutile poiché noioso.

Ed è noioso perché “il maestro non pensava quel che diceva”: Serjoza lo capisce dal tono con cui pronuncia le parole. “Ma perché si sono messi tutti d’accordo per dire queste cose sempre a un modo?”, si chiede “con tristezza”. Recidere la connessione tra apprendimento e godibilità è un delitto, ci dice Serjoza, ci dice Tolstoj. Riesce ad impedire all’insegnamento di funzionare.

Perciò al di là dello studio della materia, della filosofia coi bambini, indaghiamo a lungo la figura stessa del Filosofo coi Bambini. Il “personaggio”: che si muove, modula la voce, il tono, l’accento, gesticola, controlla ogni muscolo del viso e del corpo – in una parola, recita. Insegnare è un atto di recitazione. Non solo serve a catturare e poi mantenere viva l’attenzione per l’intera durata del laboratorio; nutre la curiosità, la partecipazione, l’entusiasmo, la voglia. Questo presuppone un’enorme quantità (e una particolare qualità) di energia.

Maestri meravigliosi lo fanno continuamente, ovunque. Per poter evitare di scrivere sulle pagelle “è bravo ma non si applica”, si applicano in prima persona. Allo stesso modo, venti Filosofi mettono in discussione il loro lavoro con un allenamento intenso, fatto di sessioni da sei ore e venticinque bambini.

E quando uno dei venticinque si perde, in realtà sono io che lo perdo. Penso a Serjoza e a quanto non possa permettermi di stancarlo, fingendo di non sentire quanto stanca posso essere io stessa di riacchiapparlo, per ogni volta che serve riaccenderlo.

Perché Serjoza è svogliato. Ma lo è soprattutto perché i suoi adulti sono svogliati.

Eugenia Bartoccini

www.filosofiacoibambini.net

Welcome back September!

Con l’arrivo di Settembre le giornate diventano sempre più corte, si è costretti a salutare il mare, le vacanze sono un lontano miraggio e le energie ritrovate si concentrano sull’inizio di una nuova stagione, un nuovo anno!

Siamo tutti nostalgici delle calde giornate distesi al sole ma anche pieni di buoni propositi per il futuro che ci attende in questo nuovo anno; la scuola è alle porte con tutti gli impegni che essa comporta, tra cui, il primo riguarda sicuramente la ricerca dei libri di testo; libri per studiare ed imparare, libri per esercitarsi, libri ‘obbligati’.

Per indorare la pillola amara dello studio, la redazione de La chiave di Sophia vi propone alcuni titoli di libri da leggere ‘per voglia’ di:

un viaggio senza ritorno

Isola grande Isola piccola di Francesca Marciano

Nove racconti di amori, incidenti travolgenti, nuove vite e abiti lasciati ‘soli’.

aspettare

Le fragili attese di Mattia Signorini

Una pensione e gli ultimi clienti che hanno messo in pausa la loro vita.

riflettere in modo genuino

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Tutto cambia di Carlo Maria Cirino e Giorgia Aldrighetti

Gli amici di Filosofia coi bambini giungono al loro quarto saggio dopo Cos’è un cucchiaio?, Cos’è il destino? e L’Isola. Fare filosofia con le menti pure dei bambini porta all’esplorazione di se stessi e del mondo circostante.

vivere vivendo

Anna di Niccolò Ammaniti

Una tredicenne, la Sicilia in rovina e la ricerca del fratellino. Un viaggio alla scoperta del senso.

avere solo l’indispensabile

Solo bagaglio a mano di Gabriele Romagnoli

Da un’esperienza particolare dello stesso scrittore giornalista, la consapevolezza che spesso ‘perdere’ significa ‘avere’.

Valeria Genova

[Immagine testo di Filosofia coi bambini e Immagine copertina tratta da Google Immagini]

 

«Maestro, arrabbiarsi tanto fa male alla salute» (Il violoncellista Gōshu, Miyazawa Kenji)

<p>Filosofiacoibambini</p>

A scuola si fantastica. Elémire Zolla precisa: «si è condannati a fantasticare» (Storia del fantasticare, 1964). Nelle classi piene di cartelloni, mattonelle, polvere di gesso; lungo i corridoi semideserti o invasi da improvvise quanto attese ricreazioni; nei giardini dove si corre, ci si afferra, si scava e più raramente si trova qualcosa; davanti alle macchinette del caffè o nell’ufficio del Dirigente Scolastico.

Ma nessuno fantastica impunemente, né a scuola, né da nessun’altra parte. È così, punto e basta. È così anche se nessuno ce l’ha mai detto. Come la gravità: funziona anche se non siamo d’accordo. Anche se nessuno ci ha mai fatto assaporare la differenza che corre tra fantasia e immaginazione. Anche se ci hanno riempito le orecchie di parole quali “creatività”, “ingegno” e via di seguito, come se sapessero di cosa si tratta. Si parla di “fantasia”, si chiacchiera di Arte, si finge di sapere cosa sia Poesia, dimostrando abilità, educando alla profondità (ma che sia straordinaria, nientemeno). Ma la vita è la verità. E la vita è Campanella che alza la mano. E «subito altri quattro o cinque scolari lo imitano. Anche Giovanni sta per farlo, ma la sua mano si ferma a mezz’aria» (Una notte sul treno della Via Lattea, Miyazawa Kenji). La verità delle cose piccole. La verità dei piccoli. La loro e basta.

Banalizzare la filosofia, idealizzare il bambino, mercanteggiare sul prezzo di un’attività che non ha prezzo. Si tratta di una pratica indispensabile, punto. Un momento tranquillo, durante il quale sedersi a inanellare pensieri colorati su fili resistenti ai rovesci della vita. Sono bambini è vero. Ma sono anche le persone più intuitive, suggestionabili, immaginative, divertenti e allegre del pianeta. Se non loro per primi, chi altro dovrebbe mettersi a riflettere su ciò che ci circonda? E sugli abissi e le vette che ci attraversano?

La filosofia coi bambini non si impara. Alla filosofia coi bambini si può venire semplicemente introdotti. La porta che affaccia sul giardino è socchiusa. Nessuno è lì ad aspettare. Varcando la soglia, da soli, si nota come ogni foglia, ogni rametto, ogni granello di polvere si trovi sistemato con cura. I bambini sono già filosofi. Ce lo ricorda Epicuro, di cui si narra che, piccolo, stanco dei maestri, si avvicinò all’arte marziale del pensiero.

Alla filosofia coi bambini si arriva percorrendo sentieri tortuosi di bosco. Ma anche lastricati semplici, autostrade. Quando poi la si osserva, è come vedersi spalancare davanti agli occhi la porta della camera dei tesori. Il filosofo è concentrato, presente. Le lusinghe lessicali, le belle frasi, le facili conclusioni non lo abbacinano mai, neppure di striscio. A lui interessa che l’arte venga praticata e che l’allenamento prosegua senza sosta. Anche perché di risultati in filosofia non v’è traccia e la più grande soddisfazione resta racchiusa, da sempre, nel dimostrare d’essersi irrimediabilmente sbagliati. Beato colui che dopo aver costruito con cura il castello di carte della sua conoscenza alla fine saprà ribaltarlo con un soffio di mano!

Filosofare, filosofeggiare. Che brutte parole. Star seduti a raccontarsi i propri pensieri, dentro bar o sale da tè. Primedonne che a poco a poco prendono la parola argomentando, anzi, filosofando sui perché, sulle cause (finali, semmai efficienti, di sicuro mai materiali). E il discorso che vira inesorabilmente sul vago. E vagheggia la giustizia, l’amore, l’amicizia, la lontananza, il sacro, il profano. Chiaroveggenti in fila per venire illuminati dalla grazia di un riflettore. Per non parlare di quanti, con la scusa di saper leggere una storia, s’improvvisano a far domande ai bambini. Nervosi personaggi, madonnari disabbigliati, apprendisti lanciatori di coltelli dalla punta arrotondata.

«Maestro, arrabbiarsi tanto fa male alla salute». È vero. Ma l’universo, pur obbedendo all’amore di quanti (e sono tanti) si spendono per un’estetica dell’insegnamento, andrebbe comunque sarchiato, innaffiato e liberato dalle foglie vizze. Il castello di carte cadrà, comunque, allo scoccare della prima risata sincera. Su questa certezza fondiamo il futuro e ci alleniamo a essere filosofi e maestri, attenti all’altrimenti e non paghi del quieto vivere.

Carlo Maria Cirino 

Filosofiacoibambini

[Immagine di Filosofiacoibambini]

Perché Filosofiacoibambini?

Nel leggere un post sul web intitolato “La filosofia nella scuola elementare” decido di farne una veloce Sentiment Analysis per vedere le opinioni degli utenti. Scorro i commenti che dimostrano curiosità, interesse e fiducia nel progetto, leggo con perplessità le opinioni sarcastiche, passo i commenti polemici e poco pertinenti dettati dalla non lettura informata del post e infine mi soffermo su quelli critici. In quest’ultimi scorgo più che altro paura, insoddisfazione, divergenza di vedute e poca chiarezza rispetto a cosa voglia dire effettivamente portare la filosofia all’infanzia.

FilosofiacoiBambini non è la sola pratica filosofica che si occupa di ciò, ma è quella che più mi sento di portare avanti. Vediamone alcuni punti.

#1 FILOSOFIA? BAMBINI

La questione del linguaggio è una tematica che mi sta particolarmente a cuore. Scrive M. Black “se la grammatica ci insegna qualcosa di filosoficamente rilevante bisogna trattarla con maggior rispetto”. C’è, infatti, un forte dibattito dettato dalla necessità di trovare quel termine corretto che unisca la parola “filosofia” ai destinatari di tale pratica, ossia i bambini. Ecco perché nel punto di domanda in #1 si troveranno varie preposizioni, ognuna delle quali, volta a sottolineare alcuni aspetti ed escluderne altri. Non posso fare a meno di notare che spesso la differenza terminologica altro non è che una presa di posizione, con il solo fine di differenziarsi dagli altri “addetti ai lavori”. In linea con M. Black mi sento di dire che il linguaggio, rappresentando la realtà, è parte della realtà esso stesso; le terminologie utilizzate non devono perciò avere pretese universali e metafisiche. Importante è adattarsi alle regolarità e irregolarità che l’esperienza ci fa scoprire, quindi è necessario che la lingua sia idonea a esprimere ogni cosa com’è o come potrebbe essere.

#2 APERTURA ALLA RICERCA

Martha Nussbaum nel volume Non per profitto parla di uno squilibrio tanto dannoso quanto attuale: la crisi mondiale dell’istruzione. A sottolineare il disagio di tale situazione sono le parole che accompagnano il suo discorso: “crisi strisciante” e “crisi silenziosa”. FilosofiacoiBambini, consapevole di ciò, pur agendo in svariati contesti, privilegia lo svolgimento della pratica filosofica nelle scuole (dall’infanzia alla primaria), che restano le migliori palestre per la mente. Proprio nella scuola dovrebbe esserci la costanza di portare avanti un percorso ben strutturato per vederne gradualmente i frutti. Le varie situazioni non sono sempre uguali; si incontrano sempre difficoltà nel momento in cui setting rigidi non si aprono alla fiducia del rinnovamento. Dietro ai laboratori svolti c’è una strutturata ricerca sperimentale – da parte di persone motivate e preparate – volta a osservare molte variabili, tra cui: diverse personalità nelle classi, componenti emotive, tendenze comuni, standardizzazione delle risposte, linguaggio usato, tipologie di ragionamenti, velocità di feedback, dinamiche di gruppo, etc. Il tutto viene monitorato con video, appunti e altro materiale. Ci teniamo costantemente aggiornati, progettiamo, sperimentiamo allenamenti nuovi con il fine di diffondere il metodo utilizzato in più luoghi possibili; scriviamo, partecipiamo a convegni e conferenze per presentarne i risultati.

#3 SHARING FILOSOFICO

In un mondo connesso, lo è anche la filosofia. Creazione, condivisione e diffusione sono tre parole chiave che FilosofiacoiBambini cerca di realizzare al meglio. L’accelerazione

delle dinamiche sociali nell’era dei social media porta con sé nuove esigenze e nuovi bisogni di comunicazione. Per esempio, visitando quotidianamente la pagina Facebook, Twitter e sito web, i genitori, gli insegnanti, o chi semplicemente è interessato potranno avere piccoli scorci su che cosa effettivamente si fa in classe. Si cerca di rendere fruibile, in tempo reale, le esperienze che quotidianamente sperimentiamo pubblicando post, articoli, aggiornamenti sugli spostamenti dell’associazione, riflessioni, foto, pensieri, informazioni logistiche, squarci di laboratori e così via. La velocità e la praticità dell’online permettono di cogliere al balzo varie tipologie di feedback da parte degli utenti e quindi gestire al meglio il passaggio funzionale di informazioni.

#4 RICETTIVITA’ AL CAMBIAMENTO

Rivoluzione è anche Evoluzione. È necessario essere ricettivi nel senso etimologico di “atto a ricevere”; capire quello che è stato per reggere bene le nuove esigenze. Fare filosofia coi bambini equivale a captare il cambiamento del tessuto sociale in maniera critica; i bambini di oggi non sono più quelli di ieri, non guardano più gli stessi cartoni animati, i giochi sono cambiati, le relazioni anche, le esperienze quotidiane sono più che mai diversificate e gli input che ricevono sono triplicati. Bisogna capire quali sono i nuovi bisogni in modo tale da lavorare qualitativamente su essi. Per fare ciò, è indispensabile includere nello studio tutte le varie realtà che circondano il bambino; da qui la necessità di una formazione rivolta anche agli insegnanti e ai genitori.

#5 PRATICA DI CREATIVITÀ

Leggendo i commenti del post di cui parlavo all’inizio mi soffermo su: “insegnamento che a quell’età sarebbe assurdo”, “fughe in avanti”, “creazione di una generazione di disadattati”. Vorrei rispondere che la pratica filosofica rivolta all’infanzia non è una filosofia dell’ipse dixit, non è sostituzione ad altre materie, ma integrazione e ampliamento; non è settorialità di vedute, ma apertura interdisciplinare a 160 gradi, non è ragionamento astratto, ma dialogo e ascolto sulle cose “a portata di bambino”; essa non è necessaria ma possibile, quindi realizzabile. In questo modo i bambini si abituano al pensiero logico, a quello trasversale, migliorano le funzioni esecutive, verbalizzano concetti, collegano campi semantici diversi, dimostrano capacità di problem solving e spesso li ritroviamo a ragionare “in team” nel momento in cui prendono decisioni comuni. Essendo liberi di pensare, diventano liberi di agire.

Carlo Maria Cirino -filosofiacoibambini

www.filosofiacoibambini.net

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Felicità…#100!

Si legge da un frammento di T. S. Eliot da quattro quartetti:

“I momenti di felicità…

ne abbiamo avuto esperienza, ma ci è sfuggito il significato”.

Che cosa voglia dire essere felici è una questione che vanta secoli di riflessioni filosofiche; vari modelli di eu̯dai̯monía si sono susseguiti per capire quale fosse la vera vita felice. La felicità viene collocata da molti filosofi come il fine ultimo di ogni uomo, ma la querelle su cosa voglia dire essere davvero felici sembra senza fine.

Cos’è che ci rende felici? E cosa ci svela la semantica della parola “felicità”? Essa è un accadere o un attendere? È qualcosa che va perseguito o ci imbattiamo in essa per puro caso? È qualcosa che esiste per sé, o non è altro che il piacere provato dalla cessazione del dolore?

Stando al modello tragico, il capriccio divino sembra essere l’unico responsabile (e garante) della felicità umana e quest’ultima, così come ci mostra Sofocle nella tragedia dell’Edipo re, non è altro che immagine fragile di “un’ombra che subito precipita”. Tale angoscia sull’instabilità cessa quando iniziamo a concepire la felicità non solo come “fortuna”, indipendente dal libero arbitrio, ma come qualcosa che l’uomo deve coltivare da sé. Scopriamo che l’anima, per il filosofo, può divenire dimora della felicità, quale benessere, cura di sé e assenza da turbamenti. Ma felicità è ancora tanto altro: è l’equilibrio del giusto mezzo, o all’opposto, è edonismo espansivo senza limiti. L’infelicità, perciò, non è altro che il prezzo da pagare da parte della stupidità umana, la quale, cieca difronte ai bisogni veri dell’anima, si imbatte in cose inutili o peggio ancora dannose.

Anche filosofiacoibambini s’interroga su questo e cerca di farlo cambiando prospettiva; ci sediamo in cerchio accanto ai bambini e ne parliamo con loro: la domanda che ci interessa non è “che cos’è la felicità?”, ma piuttosto “quali sono le cose che rendono felici?”. Una lunga freccia verticale viene così tracciata su un foglio: più si sale e più la felicità aumenta, più si scende più diminuisce trasformandosi nel suo opposto, la tristezza.

Cose che rendono felici: i piccoli, ad alzata di mano, elencano una svariata quantità di cose che li rendono tali. I bambini non si chiedono se quelle “cose” fanno felici tutte le persone in generale o solo loro individualmente, ma questo poco importa, rendono felici e basta.

La sensazione che si percepisce immediatamente è la semplicità con cui i bambini vivono il presente. Senza pensarci troppo, per loro felicità è qualcosa che, anche avendola provata una sola volta, li ha fatti stare bene. Le parole dette sono varie, ma tutte riflettono il loro punto di vista in una determinata situazione.

Se fuori è iniziata la primavera, felicità sono “i fiori rosa che si vedono sugli alberi”, felicità è “la sorpresa che trovo dentro l’uovo di Pasqua”, oppure “le vacanze di Pasqua” che la primavera porta con sé.

Felicità, per i bambini, è un giusto equilibrio fra il dare e prendere qualcosa di bello: “ricevere un regalo”, “dare un bacio a un amico”, “regalare dei mazzi di fiori o una collana a qualcuno”, oppure “prestare un giocattolo a un bambino”. Felicità sono i luoghi con le persone che li fanno stare bene: “la mia casa”, “la scuola con i miei amici”, “quando vado a casa della nonna” o il “parco giochi quando festeggio il compleanno”. Felicità è il bello estetico che la natura gli offre, “un’ape su un fiore”, “i colori di una farfalla”; oppure, sono le singole cose che arrivano alle loro menti in maniera intuitiva ed immediata: “le campane che suonano”, “un gelato”, “un biliardino”, “una torta con le candeline”, o “un fiume che vedi scorrere”. Felicità sono le emozioni e le relazioni che instaurano con persone ed animali. Ricorre spesso l’immagine dei cuori che simbolicamente rimanda a diversi riferimenti: “amore per la mamma e il papà”, “un cucciolo da tenere in braccio”, due amici che insieme fanno “tutto, tutto, ma proprio tutto!”. Ci sono poi cose che, dette con entusiasmo massimo, sono così rare e stravaganti da conquistarsi le posizioni più alte nella scala della felicità. “Vedere cosa c’è sulla luna”, “andare nello spazio”, “trovare una perla vera dentro la conchiglia in fondo al mare” sarebbero per i bambini felicità… cento!

Come piccoli filosofi -con sofisticati ragionamenti e dettagliate parole- i bambini sono in grado di capire la diversa importanza delle cose che rendono felici. Per esempio, “l’anello al dito di due persone che si sposano” rende più felice di “avere tanti regali per il compleanno”. “Non avere nessuno con cui giocare” è di certo molto più triste del “dover mangiare il minestrone con le verdure” o ancora, che “la noia” è più triste di un “gioco rotto”, ma molto meno triste del “dover andare all’ospedale”.

Le cose tristi, si sa, rendono tristi; ma perché fissarsi su di esse quando una cosa felice può risolvere tranquillamente una che non lo è?

Sono stupita nel vedere la creatività e la dinamicità di pensiero con cui, trovando molte alternative e soluzioni, riescono a reinterpretare cose spiacevoli in chiave piacevole. Ecco che un cucciolo può aiutare a risolvere la tristezza dell’ospedale: “se tu lo tieni in braccio, questo ti fa passare la voglia di essere disperata!”. E come può la primavera risolvere la tristezza del gioco rotto? È facile: “in primavera c’è Pasqua e quindi le uova potranno avere dentro un gioco uguale a quello rotto!”. E un disegno, come può risolvermi il fastidio dato dal quel qualcuno che ti spegne la tv sul più bello? “Beh, faccio una televisione di carta, mi metto dentro e gli altri mi devono guardare!”.

Così pensando e ragionando, ogni apparente problema ha svariate possibilità di soluzione. Finito il laboratorio esco e penso.

Penso che molte persone, soprattutto noi adulti, ritengano che la felicità sia qualcosa di estremamente complesso, che occorra guadagnarsela con molta fatica, che sia un investimento di tempo o la ricompensa a una giusta causa. Molti, ragionando così, seguono la massima del “Se sei felice, non gridare troppo: la tristezza ha il sonno leggero”.

Le cose però non stanno proprio così. Dopo aver parlato e ascoltato le idee e i pensieri dei bambini in classe, mi sento più leggera. Dopotutto capisco che mi piace (molto) di più pensare alla felicità come tanti piccoli cambiamenti che ognuno di noi, con serenità, dovrebbe mettere in atto per vivere bene gli eventi che puntualmente accadono. Per questo le parole di Seneca mi sembrano più che mai vere e pertinenti: “La felicità è un bene vicinissimo, alla portata di tutti: basta fermarsi e raccoglierla.”

Giorgia Aldrighetti -filosofiacoibambini-

www.filosofiacoibambini.net/it/

 

Filosofiacoibambini versus P4C

 

Scrive Huxley ne L’arte di vedere (Adelphi, 1989):

La mobilità è la condizione normale e naturale della mente che seleziona e percepisce.

Chissà cos’avrebbe pensato Huxley della P4C. Chissà se anche lui si sarebbe annoiato terribilmente assistendo a una lezione di storia della filosofia mascherata da laboratorio più o meno divertente, durante il quale i bambini vengono invitati a problematizzare temi grandiosi quali la verità, la giustizia, l’amicizia, il valore della vita e così via. Temi che i piccoli, specialmente quelli di quattro, cinque e sei anni non si pongono ed è giusto che sia così, almeno in quei termini.

Dell’amicizia i bambini ne hanno una conoscenza empirica: “Lui è un mio amico, stiamo sempre insieme e giochiamo insieme al pomeriggio”. Della tristezza, lo stesso: “Oggi sono triste perché non ho fatto colazione; l’altro giorno ero triste perché ero rimasto a casa da solo e mi annoiavo”. È difficile capire il motivo per cui si dovrebbero portare i bambini a ragionare su questioni che in certi termini non gli appartengono, quando il lavoro da fare sarebbe ben altro e ben più efficace. Ed è altrettanto difficile capire come mai si dovrebbe andare incontro al rischio di banalizzare la filosofia, ma soprattutto di annoiare il bambino, prima ancora che egli abbia imparato a condurre il proprio pensiero acquisendo un habitus mentale filosofico.

Se, dunque, la Philosophy For Children conserva un senso nei paesi anglofoni, dove la tradizione filosofica si è andata via via costruendo su problemi, temi e grandi questioni, essa lo perde completamente in Italia, dove un approccio di quella natura risulta sterile e privo di fondamento.

L’Italia è intrisa di filosofia, di pensiero umanistico. La maggioranza degli insegnanti della Scuola dell’Infanzia e della Primaria dialoga coi propri bambini e pur non conducendo una sessione di P4C fa pressapoco lo stesso lavoro e generalmente con buonissimi risultati. Se per gli insegnanti non è una novità leggere un racconto nel quale i personaggi discutono di argomenti importanti e formativi, è invece una novità assoluta condurre un laboratorio di filosofiacoibambini. In questo caso la filosofia non è che il miglior pretesto per abituare il pensiero a ragionare, per ampliare le possibilità immaginative, per allenare la mente a farsi strada tra le cose (prima) e tra le idee (dopo). La filosofia, sì, e non la storia della filosofia. Il pensiero, non la contingenza della storia, di qualunque storia, compresa la nostra.

Filosofiacoibambini versus P4C” vuole essere una critica al metodo, agli strumenti e in parte alle finalità della P4C che se, da un lato, in Italia, ha avuto il merito di diffondere la parola filosofia anche tra i non addetti ai lavori, dall’altro ha la colpa di essersi appoggiata troppo all’esperienza americana, trovando in essa una gallina dalle uova d’oro da esportare ed esporre. In questo sensoFilosofiacoibambini, dal 2008 – anno nel quale la ricerca ha avuto ufficialmente inizio – a oggi, marca la differenza in maniera radicale sul piano educativo.

La filosofia che siamo stati abituati a conoscere al Liceo si fa da parte, mentre fa il suo ingresso il pensiero del bambino. Pensiero che non deve essere ulteriormente saturato di nozioni (a queste ci pensa già la scuola), situazioni e narrazioni (a queste già ci pensano i libri, i cartoni, i film d’animazione, i videogiochi, ecc.), ma a cui devono essere avvicinate vere e proprie esperienze filosofiche. Esperienze che precedono qualsiasi caratterizzazione particolare e che portano il gruppo classe a lavorare su oggetti, su primitivi che sono davvero le sole cose attraverso le quali potrà passare un tipo di apprendimento efficace, operativo, utile all’evoluzione del pensare critico del bambino e del suo futuro agire libero e razionale. Si rimanda dunque la storia della filosofia e l’approccio ai grandi temi a età più consone e si invita a considerare i risultati che la filosofiacoibambini, quale metodo originale, sta ottenendo tra i quattro e i nove anni d’età. Un’età critica per lo sviluppo di certe capacità esplorative del pensiero che, se allenate nella giusta maniera, possono diventare patrimonio inesauribile della persona che le possiede.

Fare filosofiacoibambini significa allenare il pensiero a indagare la realtà, senza fornirgli alcun appiglio. È un andare all’origine, uno spingersi alla fonte del pensiero, là dove i concetti si costruiscono e non vengono forniti già pronti e confezionati da un educatore che non aspetta altro che serrare le fila di ciò che si è detto, magari per trarne una morale o una conclusione di qualche tipo. Non occorre conoscere l’acqua, né sapere che fa bene ed è piacevole nuotare (a questo ci si arriva da soli), serve una mano a buttarsi in acqua. Ma la mano dev’essere dolce e fidata.

Carlo Maria Cirino – Filosofiacoibambini

[Photo credits Francesca Saltarelli]

 

Bir kaşık nedir?

Il passo più importante del programma logicista di Frege (1848-1925) consisteva nel tentare di definire le nozioni aritmetiche in termini di nozioni logiche. Immaginiamo dunque che un cameriere, appena assunto e incapace di contare, avesse ricevuto dal maître l’ordine di controllare che la quantità dei piatti presenti sui tavoli della terrazza dov’era servita la colazione non fosse né superiore né inferiore alla quantità dei cucchiaini d’argento. Il cameriere, sistemato un cucchiaino accanto a ogni piatto e controllato che la corrispondenza non avesse lasciato residui (nessun piatto senza cucchiaino o viceversa), avrebbe risolto la situazione senza troppo affanno. I bambini seguono il ragionamento del cameriere senza difficoltà, intuendo che se si trattasse di un ricevimento principesco, con centinaia e centinaia e centinaia di noiosi invitati, la situazione non sarebbe semplice, come nel caso della colazione in terrazza… neppure se il cameriere si mettesse in testa di consegnare personalmente a ciascun ospite il suo cucchiaino. Le coppie dovrebbero quindi essere disposte in ordine dal cameriere, il cui colpo d’occhio potrebbe fallire nel distinguere tra chi già ha un cucchiaino e chi ancora lo deve ricevere. L’equivalenza non sembra creare problemi, neppure per un cameriere un po’ confuso. Tanti cucchiai quanti piatti, tanti piatti quanti invitati, tanti cucchiai quanti invitati: classi di classi equivalenti, mappe senza resto. Se la domanda “quanti sono i cucchiai?” non ci spaventa, ben diverso è ciò che accade se qualcuno si azzarda a chiederci “che cos’è un cucchiaio?”. Dapprima, i bambini non ci credono: <<Un cucchiaio è un cucchiaio!>>; <<A=A>>. Poi, l’idea di trovare la maniera migliore di spiegare a qualcuno che non l’ha mai visto “che cos’è?” inizia a farsi strada. I “problemi” però, sono molti… <<Un cucchiaio è una posata>>, ma lo sono anche forchetta e coltello. <<Un cucchiaio è una cosa che serve a mangiare la minestra>>, ma anche a grattarmi se una zanzara mi ha appena punto nel mezzo della schiena. <<Un cucchiaio è una cosa grigia, di metallo, con un manico lungo e una testa arrotondata>>, ma ce ne sono anche rossi, di ceramica e a forma di cuore. La classe dei cucchiai è equivalente alla classe di coloro che mangiano la minestra? <<C’è chi beve come i cani!>>, dice qualcuno. <<E chi beve dal piatto! E chi usa le mani>>, aggiunge un’altro. La situazione si fa talmente complicata che il cameriere decide di fare un annuncio, dando per certo che tutti sappiano a cosa riferirsi quando sentono pronunciare la parola “cucchiaio”: <<a qualcuno manca una posata? Avete tutti il cucchiaio?>>. Ma è sufficiente un signore qualunque, con dei bei capelli biondi arruffati. Un signore che vive in una casetta gialla lontana dal centro in compagnia di sua moglie e del suo cane Brandy, a scompigliare le cose. Perché lui mangia la minestra con il blap e a volte quando non riesce a mettersi le scarpe prende un blap e fa leva con quello. E ha blap di ferro e di legno in cucina e blap di plastica per le feste di compleanno. Basta che un giorno egli decida, contrariamente a ogni abitudine, di portare sua moglie in quel ristorante, perché il castello del cameriere crolli: <<Scusi, ci porterebbe due blap?>>. <<Che cos’è un blap?>>, chiede il cameriere… e siamo daccapo!

[*Fare Filosofia Coi Bambini vuol dire, anzitutto, recarsi in classe ogni giorno, stare coi bambini, prendere appunti, raccogliere dati, studiare, approfondire, fare ricerca. Non ci si improvvisa Filosofi Coi Bambini, né tantomeno lo si diventa automaticamente dopo un corso di formazione. Occorre tanta esperienza sul campo ed entusiasmo: ecco perché è bene diffidare da chi ne parla tanto e magari lo insegna pure, ma nei fatti non lo pratica o peggio non l’ha mai praticato. Non trattandosi, poi, di un insegnamento esoterico destinato a pochi, non può e non deve essere “venduto”: ecco perché sarebbe bene che appartenesse a molti e che non si legasse ad associazioni, categorie, gilde, col rischio di venirne imbrigliato. In vista di queste riforme e di una sempre più necessaria riflessione sullo stato della disciplina, auspichiamo nell’apertura di un canale di dialogo coi “cugini” (di secondo grado) della Philosophy for Children Italiana].

Carlo Maria Cirino

www.filosofiacoibambini.com

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I più giovani a bordo

Essendo io il più giovane a bordo, e ancora senza il collaudo di una posizione di grande responsabilità, ero propenso ad accettare come scontata la competenza degli altri,

scrive Joseph Conrad ne Il Compagno Segreto, racconto del 1909.

Come il Capitano protagonista di quell’avventura, anche il bambino si trova, spesso, nella medesima condizione. Apparentemente sereno, cela nel subconscio la voglia irresistibile di esprimersi liberamente, di lasciar andare la sua curiosità e l’interesse per ogni percezione, ancorché deformata. D’altra parte, propenso com’è ad accettare la “competenza degli altri”, limita già da sé molti dei possibili voli ed esperimenti ai quali sarebbe istintivamente portato, fidandosi di ciò che dice il genitore, l’insegnante, l’adulto che ha vicino. E fa bene! Perché l’inesperienza in natura può essere fatale e la natura, lo sappiamo, è dovunque, specialmente per un bambino.

Imparare da chi è già passato attraverso certe prove e certi errori, permette di evitare pericoli, dolori e inutili perdite di tempo, proseguendo il miracolo dell’evoluzione culturale dell’uomo che, generazione dopo generazione, avanza senza mai (quasi mai in verità) doversi ripetere, simulando un reale e al contempo illusorio progresso, direzione, verso.

Ciononostante, la natura dà al bambino, ovvero alla parte temporale che nello sviluppo facciamo corrispondere a ciò che genericamente definiamo bambino, possibilità straordinarie. E mi riferisco in parte a ciò di cui parla, tra le righe, Aldous Huxley ne L’arte di Vedere, del 1942, ma soprattutto a ciò che ci raccontano i manuali di neuropsicologia o di neuroscienze riguardo al cervello in via di sviluppo.

Ora, questo potenziale, che fece dire a Epicuro che

mai si è troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità

e che spinse molti altri a invitare i propri interlocutori atornare come bambini, deve però essere efficacemente esplorato, pena la sua maggiore o minore dispersione.

In questo senso ecco Huxley che cita Barmark e scrive nel saggio già menzionato:

un’attenzione che si sposta liberamente è un importante sostegno dell’attività vitale. Se l’attenzione è ristretta a un campo troppo piccolo l’attività vitale tende a deprimersi.

Il bambino, come qualsiasi altro essere che attraversa una fase “infantile” dello sviluppo deve essere sottoposto a un allenamento in grado di massimizzare l’attivazione di tutto il suo potenziale. Solo così Il Mito dell’Adulto (1963) di cui parla Georges Lapassade, cadrà dinanzi ai nostri occhi, lasciandoci accorgere di quanto possa essere importante dare ascolto ai bambini, domandare la loro opinione.

Una filosofia coi bambini che sia anche una filosofia dell’infanzia, deve concentrare molte delle sue energie nel comunicare agli adulti questo genere di messaggio: che l’apprendimento non basta, occorre che sia efficace. E l’efficacia dell’apprendimento segue leggi precise che la scienza può aiutarci a scoprire, la tradizione a comprendere e il buon senso ad accettare.

Non si può apprendere efficacemente in qualsiasi luogo, in qualsiasi tempo, in qualsiasi modo e soprattutto con chiunque. L’adulto che non abbia compreso il segreto che si nasconde dietro ogni apprendimento non può trasmettere efficacemente alcun insegnamento.

Un costante lavoro su se stessi è fondamentale per chi affianca i bambini nel tempo dell’apprendimento, posto che nessuno per quanta esperienza possa avere riuscirà mai a immedesimarsi fino in fondo nella mente di un bambino: un certo grado di “luminosità” della percezione si perde nel corso dello sviluppo e non torna.

Ecco perché, se è possibile – e doveroso, a mio parere – parlare e compiere progressi in campo educativo (come si parla e si fanno progressi in campo medico, ad esempio), questi dovranno esserci d’aiuto nello sfruttare sempre meglio la breve finestra dell’apprendimento. Le neuroscienze dello sviluppo ci indicheranno la strada, ma sarà compito della filosofia guidare il cambiamento sul campo.

Carlo Maria Cirino

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