Spettri e contraddizioni: rileggere il Manifesto del Partito Comunista oggi

«Uno spettro s’aggira per l’Europa – lo spettro del comunismo1

Un incipit ben noto, un testo di cui non si può dire altrettanto. Per quanto il Manifesto del Partito Comunista (1848) scritto da Marx e Engels sia un documento fondamentale e più volte ripreso ai fini di una contestualizzazione storico-politica, esso sta vedendo un declino popolare quando popolare doveva essere il suo stampo e il suo indirizzo.

Pensiamo a come un manifesto che affronti di facciata questioni politiche – nel senso del bene comune – quanto umane denunciando le contraddizioni del periodo storico sia ora un oggetto di interesse per i soli intellettuali, per gli umanisti, per gli storici che si confrontano con le questioni storico-sociali dell’800.

Un manifesto per il popolo, che parla del popolo chiamandolo in causa in uno scenario occupato dall’ingombrante progresso tecnico e dalla crescita economica. Un panorama che sta vedendo la sua composizione in maniera autoregolata con la relativa maturazione di un’umana contraddizione di fondo. Il processo storico delineato dallo stesso Marx vuol considerare la formazione di contraddizioni – non logico-formali – intrinseche nei vari periodi storici i quali sono portatori delle stesse possibili vie risolutive. Contraddizione e richiamo al conflitto.

«La storia di ogni società esistita fino a questo momento è storia di lotte di classi»2.

Questa è l’anticipazione di uno dei grandi temi propri del pensiero marxiano e che trova la sua fortuna nel dispiegarsi del materialismo storico e dell’edificazione iper-razionale della società capitalistica. Difatti lo stesso sistema economico che veniva a definirsi e affermarsi nel corso dell’800 sarà il primo riferimento del conflitto e dell’emergenza delle relative contraddizioni. Da un’urbanizzazione che sembra essere una risposta al discorso sulla produzione vi è lo spostamento, il decentramento e dunque l’apertura alla suddivisione classista nonché fagocitazione totale del sistema. È il determinarsi di una crisi tra quelle che sono le dinamiche di un sistema che vede dei possessori dei mezzi di produzione e che sono posti verticalmente rispetto ai lavoratori assoggettati a tali mezzi. È dar conto di una polarizzazione, un’opposizione antitetica tra un signore e un servo hegelianamente parlando3, tra un oppresso e un oppressore4 coinvolti in un contesto promotore di disparità.

La diseguaglianza è portata da una netta posizione di oggettivazione della figura che compie il lavoro, che è oggettivata nella produzione secondo necessità differenti. Necessità ancora dispari per quelle che sono le due componenti ovvero un capitalista che deve massimizzare il profitto e godere dei prodotti eteronomamente dati dall’altro oggettivato, mentre quest’ultimo in virtù di una necessità in termini di sopravvivenza.  La proposizione di tal dinamica dovrebbe far storcere il naso ai più, non solo agli studiosi di dinamiche sociologiche.

La diseguaglianza socio-economica si instaura nel discorso di Marx ed Engels ma non risulta poi essere così lontana dall’ordinamento sociale odierno che la favorisce e contribuisce ad una sempre maggior ghettizzazione. Gli effetti li si possono riscontrare nei conflitti, nelle “lotte di classe” che non hanno ancora abbandonato il nostro corso storico. Assistiamo all’esplosione di odio e razzismo con una crescita di sentimenti nazionalisti che non poggiano su basi che sappiano rendere conto di loro stesse, un’opposizione che vede l’individualismo e anche l’invidia sociale come motori considerati piacevoli e arbitrariamente giusti, migliori da molti. Dagli studi di Wilkinson e Pickett5 possiamo addirittura osservare come, tra i tanti effetti delle diseguaglianze e della sperequazione dei redditi si vengano a definire problematiche quali la crescita dello stress influenzato dalla minaccia del sé sociale, dunque da un confronto con gli altri sempre in ottiche competitive.

Questi sono solo alcuni degli spunti che possono fuoriuscire da un discorso su un testo che sa esser un classico storico-politico non ancora esaurito. Con questo non voglio affermarmi come un comunista o inneggiare ad un’ideologia che non considero assolutamente attuale, no. Credo nel valore di un testo che penso si sia rivelato profetico per quelle che sono tematiche all’ordine del giorno in molte, troppe agende politiche che spesso non incontrano i giusti strumenti per proporre le relative pratiche.

Concludo invitando a ripensare che se il Manifesto di Marx ed Engels nasce condito di un forte carattere popolare e mondano penso che sia da riscoprire in questi stessi termini e non secondo una ghettizzazione accademica che non farebbe altro che riproporre la dinamica di diseguaglianza – stavolta culturale – a cui assistiamo ogni giorno anche in relazione all’espressione soggettiva di ognuno di noi. Proprio ora che la libertà d’espressione prolifera nell’incompetenza e nella solitudine data dall’individualismo sociale si dovrebbe ripensare ad un’educazione che si prenda l’incarico di aprire ad una conoscenza di portata più ampia. Specie in relazione ad un testo così permeato di pregiudizi, di sguardi preoccupati alla sola vista di un lettore che verrebbe etichettato come “rosso”. Invece ci si dovrebbe riappropriare della nostra cultura di appartenenza, di quel che è stata la produzione della storia nazionale e internazionale che ha visto contraddizioni che oggigiorno si stanno riproponendo attraverso diseguaglianze e mercificazione ma che non hanno gli strumenti per individuare le risoluzioni che già sono implicite. Vanno scoperte.

Lettori di tutti i paesi unitevi!

 

Alvise Gasparini

 

NOTE
1. K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito del comunista, Einaudi, Torino 1998, cit., p. 3.
2. Ivi, cit., p. 7.
3. Cfr. G. W. F. Hegel, La fenomenologia dello spirito, Bompiani, Milano 2001.
4. P. Freire, La pedagogia degli oppressi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1971.
5. R. Wilkinson, K. Pickett, La misura dell’anima. Perché le diseguaglianze rendono le società più infelici, Feltrinelli, Milano 2012, pp. 84-97.

[Immagine di copertina: Lewis Hine, Centrale elettrica]

 

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Immigrazione e disuguaglianze secondo la dialettica servo-padrone

Otto miliardari nel mondo hanno la stessa ricchezza di 3,6 miliardi di persone. Il rapporto Oxfam ci informa di una dato impietoso, impossibile da concepire per la portata dello squilibrio. La bilancia pende drasticamente da un lato, riempiendo le tasche di un’esigua minoranza di miliardari della moneta attuale, il potere. Le disuguaglianze sociali sono la naturale conseguenza di tale disparità economica, riconsegnando dunque determinati ruoli sociali alla varie componenti. Solo attraverso ciò si delineano le figure in gioco, si determinano le persone in base al reddito, alla propria posizione da soggettività in mezzo ad altre soggettività  immerse in una logica competitiva.

La corsa al guadagno diventa ragione di vita e ragione dei popoli imponendosi come legge globale, interiorizzando la prospettiva capitalistica nell’ideale umano. L’ideale che diventa ossessione, il guadagno utile e necessario diventa desiderio e bramosia di qualcosa di più, sempre di più, guadagnare per guadagnare. Poste tali dinamiche economiche vanno considerate anche le differenti condizioni socio-culturali nel panorama mondiale. Difatti il capitale si centralizza, si accumula nei grandi centri, risucchiato dalle zone ricche di risorse da derubare e saccheggiare fin dai tempi delle prime colonie. Decentramento e creazione di disparità diventano una realtà sempre più evidente ed è la base della disparità data dalle otto persone in rapporto ai 3,6 miliardi citati ad inizio articolo.

La differenza di condizione sociale stabilisce ruoli, scrive copioni per i vari attori in scena. Servo e Padrone e non sono più delle fantasie letterarie o figure hegeliane de La fenomenologia dello spirito. Difatti la dialettica si instaura effettivamente, la condizione di sfruttamento è da identificarsi con chi è stato derubato, con chi si è ritrovato inferiore economicamente e socialmente a quelle otto persone che detengono il potere, ovvero la componente rappresentata dal Padrone. Le due figure sono assolutamente attuali anche in virtù delle condizioni lavorative che prevedono un lavoratore assoggettato ad un datore di lavoro. Proseguendo per questa linea, infatti, il rapporto dialettico tra le due figure che sono in contatto per uno scambio di servizi e benefici, si evidenzia la dipendenza che emerge da entrambe le fazioni. La dipendenza data da un servo che è pronto a compiere quel determinato lavoro poiché potrebbe trattarsi della sua unica possibilità rimasta. La dipendenza data da un padrone che, magari, non sa svolgere un lavoro e la possibilità economica lo rende assoggettato e sostenuto dal frutto del lavoro del suo sottoposto.

Disperazione e pigrizia agiata si equilibrano, trovano realtà e non solo teoresi nel fenomeno dell’immigrazione e della condizione di disoccupazione che attanaglia i vari paesi europei. La crisi economica, in molti casi, porta ad un abbassamento delle aspettative, ad un’accettazione di condizioni di sfruttamento e di inferiorizzazione e il farsi servo di migranti in fuga da un paese in guerra o privo di condizioni favorevoli e di giovani in seria difficoltà nell’approccio al mondo del lavoro. Dunque un semplice squilibrio dato da un’ambizione umana sempre crescente riesuma personaggi che pensavamo esistessero solo all’interno delle favole e dei racconti capaci di farci volare con la fantasia quali il “buono” ed il “cattivo”.

La verità ultima è che siamo ancora immersi in logiche infantili biunivoche basate sul conflitto tra il bene ed il male e forse è quello che la gente, il popolo brama di più, ne è quasi assuefatto. Il tema dell’immigrazione come tanti altri trattati nei quotidiani e nella vita pubblica e sociale riesce a soddisfare quel bisogno di conflitto che l’uomo infelice, l’uomo insoddisfatto e magari proveniente da un ambiente subculturale richiede per potersi sentire padrone della scena, della discussione e della ormai svalorizzata “cosa pubblica”.

Il capro espiatorio è servito attraverso una comodità di accusa e scelta che si copre gli occhi davanti a discorsi più complicati preferendo la soluzione semplice, la scorciatoia mentale destinata a non risolvere le questioni, bensì accentuarle e incriminarle sempre più per scaricare odio ed insoddisfazione. Tale condizione persevera e viene tutelata dalle molte piccole coscienze che credono di essere in una condizione privilegiata, da tutti quelli che credono di essere i padroni e quindi di dover recitare tale ruolo non curandosi empaticamente della situazione di chi invece risulta essere meno agiato e fortunato, come si suol dire “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”. Eppure in un panorama del genere chiederei a chi è, o almeno si sente, padrone se egli o ella si senta sicuro/a di quella condizione, se si senta tutelato dal momento che senza un adeguato servo si ritroverebbe incapace di auto-sussistere. Chiederei se il servo rimarrà sempre servo perché, può darsi, che esso possa essere già altro da sé e se ragioniamo nella cara logica biunivoca…

Alvise Gasparini

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Il Capitale Umano: scippo ben riuscito

A questo punto possiamo chiederci: come mai gli economisti si sono impadroniti di questa forma linguistica che sembrerebbe essere più competenza di filosofi, psicologi e pedagogisti? Gli economisti hanno ben capito quello che altri non avevano messo sufficientemente in rilievo, vale a dire che esiste una stretta correlazione tra benessere collettivo e Capitale Umano, che tutti gli investimenti che una comunità fa per migliorare le condizioni di vita dei propri cittadini si traducono col tempo in un aumento del reddito pro-capite. Insomma, il Capitale Umano viene considerato un investimento in un bene che produce rendimento.Molteplici studi a livello internazionale ci dicono che a un anno di istruzione in più dei lavoratori corrisponde una crescita del prodotto pro capite del 5%; e ancora, che le persone in possesso di una laurea specialistica guadagnano almeno il 50% in più di coloro che hanno soltanto un diploma. Ma non basta. Il Capitale Umano riduce anche la propensione a delinquere e produce effetti positivi sulla salute.

Perché un investimento sia produttivo è necessario, però, agire prima che i giochi siano fatti puntando decisamente sui processi educativi ai quali l’individuo viene sottoposto, quindi su scuole efficienti, docenti preparati e aggiornati, buon livello culturale familiare, supporti e iniziative per i giovani, e molto altro. Tutte cose che gli studi filosofici hanno più volte sottolineato e che sembrano sfuggire troppo spesso all’ambito dell’Economia e di chi se ne fa portavoce. Basti pensare alle numerose ricerche sull’incidenza positiva che la frequenza al nido ha sui bambini piccoli ad esempio per capire come “Il Capitale Umano” associato tendenzialmente a persone adulte sia invece strettamente legato a tutte le fasi dello sviluppo della persona, in quella sede i più piccoli non si limitano a stare fisicamente in un luogo diverso, ma esperiscono soprattutto a interagire con altri che non siano i familiari, vivendo ruoli e esperienze stimolanti. Sembra addirittura che il futuro dei cittadini dipenda, almeno in parte, dalle opportunità di apprendimento di cui hanno goduto nei primissimi anni di vita.

Nonostante a livello economico venga troppo spesso inflazionato il termine Capitale Umano è anche vero che possiamo facilmente accorgerci di come le nuove generazioni crescano spesso in una situazione di povertà educativa dove i beni materiali proliferano, ma mancano investimenti sugli aspetti dei valori che andranno a costituire la parte più intima della persona.

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