“Et des que je l’apercois
Alors je seans en moi
Mon Coeur qui bat”.
La vie en rose – Edith Piaf
Esistono Donne che del proprio talento non sono mai abbastanza consapevoli nell’arco di un’intera vita. Non sono persone comuni, tantomeno individui qualunque. Non si confonderebbero in mezzo ad una folla, non li confonderesti con nessun altro, perché urlerebbero la loro personalità pur senza emettere una sillaba.
C’è chi sa fare delle proprie parole idee. C’è chi sa riordinarle con abile maestria. E poi c’è chi, per talento nato nel momento stesso dell’emanazione del primo vagito, sa metterle in musica. Senza collocarle con un ordine esatto, senza che siano parole ricercate. Sono solo musica pura, sono solo una melodia che riempie chi le ascolta, arricchendo la vita quotidiana di stati d’animo ricercati.
Edith Piaf inizia a cantare per le strade all’età di sette anni, esibendosi insieme al padre contorsionista. E’ già arte la sua voce, è già sentire l’ugola insanguinata di un passerotto: purezza e tragicità, in una sola minuta bambina. Una piccola donna a cui l’esperienza ha già insegnato a camminare sulle proprie gambe, a contare – cantando – soltanto sulla sua voce.
Toni aspri ed aggressivi contrapposti a dolcezza e femminilità: essere meno forti di quanto sia il nostro agire, questo forse è il più grande segreto dei grandi. Nessuna questione di genere, soltanto un’essenza di capacità, in un concentrato di tensione che si evolve costantemente.
Straordinario è chi, rimanendo infelice per tutta la propria vita, riesca ad infondere gioia attraverso la propria arte. Non è per la sofferenza che ha dentro, ma è per il modo di comunicarla. Lasciano senza fiato le canzoni di questa artista, proporzionalmente a quanto fiato impiegava lei.
Vivere soltanto quarantotto anni, in un’epoca dove la ferocia della Seconda Guerra Mondiale ha privato le persone di qualsiasi speranza, significa osservare la morte prendersi le parti migliori e peggiori del nostro tempo. Le espressioni degli uomini andati in guerra, quelle delle mogli che hanno lasciato, la morte che brucia dentro e fuori dalle case, dai volti, da ogni azione. Canta “La vien en rose” per sovrapporsi a tutto ciò, per creare un inno alla vita. Ad una vita felice, quella che lei non aveva mai conosciuto e non avrebbe mai avuto.
Sfruttata dal padre, abbandonata dalla madre, cresciuta nel bordello gestito dalla nonna, luogo in cui impara cosa sia l’amore. Spiegato dalle prostitute che lavoravano lì dentro; è sempre così, chi sembra più distante da un sentimento è chi lo coltiva e comprende meglio degli altri. Incostante nelle sue relazioni, amichevoli ed intime. Costante soltanto nella sua musica, quella che sarà sempre una luce nella sua vita di ombre.
Nel 1955, durante la sua esibizione alla Carnegie Hall di New York, viene investita da sette minuti interi di standing ovation. Una lode meritata. Per la sua voce enorme. Per il suo corpo esile. Per la figlia persa a soli vent’anni. Per le sue mani che tiene sempre dietro la schiena perché se ne vergogna. Quelle mani che, nel suo passato, tenevano un cappello per chiedere le elemosina. Quelle mani, nel suo presente, dense di dolore e rigonfie per i troppi farmaci.
Incurante dei soldi guadagnati; cosa potevano valere in cambio di un po’ Amore? Anche i sentimenti più superficiali possono sembrare meglio del niente, se a quello si è abituati.
Il niente che aveva diventa un importarsene di niente. Il dolore che cresce in lei ogni giorno rende per ogni passo un po’ più grande la sua arte. La sua vita sfortunata che lascia alla musica un’immensa fortuna.
Ossimori comunicanti; a questo corrispondono azioni e le conseguenze in cui si evolvono.
Cantava “Niente”, per darci tutto: semplicemente Edith Piaf.
“Non, rien de rien
Non, je ne regrette rien
C’est payé, balayé, oublié
Je me fous du passé!
Avec me souvenirs
J’ai allumé le feu
Mes chagrins, mes plaisirs
Je n’ai plus besoin d’eux”.
Non, jene regrette rien – Edith Piaf
Cecilia Coletta
[immagine tratta da Google Immagini]