Intrudere ed estrudere: l’inaccettabile opposizione di Jean-Luc Nancy

Nel 1992 il filosofo francese contemporaneo Jean-Luc Nancy ha subito un trapianto di cuore.

Ha raccontato questa estenuante esperienza nel libro L’intruso, edito da Cronopio e uscito nel 2000. Nancy basa la sua riflessione, breve ma densa, sulla coppia di sostantivi intrusione/estrusione, due termini che si oppongono ma che al contempo si richiamano cercandosi, abbinandosi, dandosi reciprocamente un senso. Non potrebbe esserci estrusione senza intrusione: quando, infatti, scegliamo di estrudere qualcosa – ossia di eliminarla, allontanarla – è perché essa viene percepita da noi come un intruso da scacciare, come un estraneo che ci crea problemi, ci invade o richiede troppo da noi; magari un impossibile che non possiamo o non vogliamo dare.

Il cuore di Nancy, quello con il quale è venuto al mondo, diventa l’organo da estrudere: appare come un intruso all’interno del suo stesso sistema corporeo, un intruso che non è più in grado di svolgere il suo compito e che mette a rischio la salute del filosofo. Si rende quindi necessario un trapianto: un altro cuore, un cuore che si attende come un libro fuori catalogo ordinato in libreria. Il cuore di un altro, capace di salvare la vita di Nancy, ma solo dopo un’intrusione violenta, fantascientifica, quasi impossibile da immaginare.

Scrive Nancy: «Dal momento in cui mi fu detto che era necessario un trapianto, tutti i segni parvero vacillare, tutti i riferimenti capovolgersi» (J.L. Nancy, L’intruso, 2000). Il suo cuore, che gli «saliva alla gola come un cibo indigerito», lo stava abbandonando. Per sopravvivere, avrebbe dovuto ospitare in sé qualcosa di estraneo.

Ma come si fa ad accogliere un intruso, che per sua stessa definizione giunge imperioso e si introduce in un ambiente familiare con aggressività e potenza, con scaltrezza e imprevedibilità? L’intruso arriva «senza permesso e senza essere invitato. Bisogna che vi sia un che di intruso nello straniero che, altrimenti, perderebbe la sua estraneità» (ivi). Bisogna accettare un’inaccettabile.

I medici devono estrudere per poi includere.

Di fronte a questa scomoda e temibile realtà, Nancy si sdoppia, così come doppio si fa il senso della sua stessa esistenza. La sua vita sarà la morte di un altro essere umano. Ciò che sente è «di essere caduto in mare pur restando ancora sul ponte» (ivi). Egli è in due luoghi contemporaneamente: in balia della morte che incombe, della quale il suo cuore malandato si fa messaggero; in balìa della vita che ancora lo trattiene a sé con la promessa di una speranza, di una soluzione. Nancy è al di qua e al di là, così come sarà e resterà se stesso con in petto l’organo di un altro.

Il filosofo capisce anche che se si vuole sopravvivere bisogna prima diventare estranei a se stessi. Prima dell’arrivo dell’intruso il suo sistema immunitario viene preventivamente preparato a essere neutro, ossia inutile, per facilitare la sua venuta. Esso viene quasi cancellato, per minimizzare il rischio di un rigetto. «L’intruso è in me e io divento estraneo a me stesso» (ivi), spiega Nancy. L’estraneità si moltiplica e i farmaci anti-rigetto gli causano un abbassamento delle difese immunitarie che sfocia in cancro. Questa nuova malattia lo costringe a ulteriori sofferenze che paiono infinite e che sbalzano ancora e ancora la bussola della sua identità.

Ma egli sopravvive. E lo fa perché l’uomo ha imparato a superare se stesso divenendo «colui che snatura e rifà la natura, colui che ricrea la creazione» (ivi).

Per sopravvivere dobbiamo continuamente estrudere qualcosa e includere qualcos’altro di nuovo. Lo facciamo con il nostro organismo – le unghie troppo lunghe o i capelli, che vanno tagliati ma che poi ricrescono. Lo facciamo con persone e situazioni che, come il vecchio cuore di Nancy, ci divengono indigeste. Il ciclo della vita esclude per accogliere, e accoglie sapendo a priori che quella venuta resterà, come dice Nancy, scomoda e dal sapore straniero fino a che seguiterà a venire, fino a che non sarà divenuta qualcosa di familiare – ma quella familiarità durerà sempre e soltanto per un tempo determinato, sfociando poi in una nuova estrusione che sa di auto-defezione.

«L’intruso non è nessun altro se non me stesso e l’uomo stesso. Non è nessun altro se non lo stesso che non smette di alterarsi […] intruso nel mondo come in se stesso» (ivi).

Un paradosso che va accettato, compreso, abbracciato.

 

Francesca Plesnizer 

[Photo credit Ali Hajiluyi via Unsplash]

la chiave di sophia 2022

Le stelle di Talete: l’oroscopo filosofico del vostro 2019!

È tristemente noto l’aneddoto riguardante Talete che, mentre camminava guardando le stelle, cadde in una fossa e fu deriso da una servetta. Noi de La chiave di Sophia abbiamo deciso di correre lo stesso il rischio di osservare il firmamento per scorgervi il futuro e poter così dare ai nostri lettori alcuni consigli utili, e rigorosamente filosofici. Nella speranza che questi possano aiutarvi a passare un anno saggio e felice.

 

oroscopo-filosofico-2019-la-chiave-di-sophia-01-01ARIETE (21 marzo – 20 aprile): Per criticare il metodo induttivo Bertrand Russell racconta la storiella di un tacchino che cerca di capire quando gli viene portato da mangiare. Prima di trarre conclusioni affrettate, il tacchino osserva l‘arrivo del mangime per diversi giorni consecutivi e nota che, indipendentemente dalle condizioni atmosferiche, l’allevatore arriva sempre puntuale alle 9 del mattino. Da qui trae la ferma conclusione che le 9 del mattino siano l’orario in cui mangiare. Certezza che dura fino alla vigilia di Natale, giorno in cui alle 9 l’allevatore viene con ben altri propositi… Se non volete fare la stessa fine del tacchino, sarà meglio che anche voi, miei cari ma testardi arieti, iniziate a mettere in dubbio alcune delle vostre più incrollabili certezze.

 

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TORO (21 aprile – 20 maggio): L‘esteta secondo Kierkegaard è caratterizzato da una continua insoddisfazione, un passare sopra ai piaceri senza mai soffermarsi ad assaporarne nessuno. Al punto che se gli fosse data una bacchetta magica capace di poter esaudire ogni suo desiderio la userebbe solo per pulirsi la pipa. E se invece a voi, miei cari Tori, capitasse tra le mani questa potente bacchetta? Pensate a come farne un uso più produttivo dell’esteta kierkegaardiano, chissà che questo 2019 non vi regali un pizzico di magia.

 

oroscopo-filosofico-2019-la-chiave-di-sophia-03GEMELLI (21 maggio – 20 giugno): Si sa che voi gemelli avete una grande capacità di adattamento e nelle occasioni pubbliche ve la cavate in scioltezza. Non trascurate però la vostra interiorità, un altro lato importante della vostra personalità, e riprendete la pratica dell’anachoresis eis heauton, il ritorno in voi stessi consigliato anche da Marco Aurelio. Concedetevi più spesso una serata in solitudine in cui ripensare alla giornata trascorsa e isolarvi dalle preoccupazioni quotidiane. Del resto come diceva l‘imperatore stoico «In nessun luogo più tranquillo e calmo della propria anima ci si può ritirare. Concediti quindi questo ritiro e in esso rinnovati». Non è facile in una quotidianità piena di impegni, ma se se lo permetteva un imperatore potrete trovare anche voi il tempo, no?

 

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CANCRO (21 giugno – 22 luglio): «Felicità che potrebbe risvegliare in noi l’invidia c’è solo nell’aria che abbiamo respirato, con le persone a cui avremmo potuto parlare, con le donne che avrebbero potuto darsi a noi».  Su noi malinconici cancerini questa frase di Walter Benjamin esercita un grande fascino. È ora però di smetterla di crogiolarci nel passato incompiuto e di comprendere questa frase in senso attivo e propositivo: ossia andare alla ricerca di quella felicità perduta nel passato per portarla oggi a compimento.

 

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LEONE (23 luglio – 23 agosto): «Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo”?» Provate anche voi leoni a rispondere a questa difficile domanda posta da Nietzsche. Suppongo che qualche brivido vi attraverserebbe la schiena, perché è impossibile essere così fieri e convinti di ogni nostra azione passata da volerle ripetere tutte all‘infinito. Concentratevi dunque su ciò che vorreste cambiare per capire quali sono gli errori da non ripetere e gli atteggiamenti da abbandonare in questo nuovo anno.
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VERGINE (24 agosto – 22 settembre): Voi vergini siete famose per essere delle rimuginatrici tendenti al pessimismo, passate cioè fin troppo tempo a immaginare il peggio invece di godervi la vita. Difficile che nel 2019 possiate abbandonare questo vostro tratto caratteristico e trasformarvi in sfrenate edoniste, meglio cercare di volgere a vostro favore questo aspetto della vostra personalità. Gli stoici parlavano di praemeditatio malorum, ossia immaginare possibili mali futuri per neutralizzare la paura dell’ignoto che ci attende e al contempo renderci conto che anche ciò che temiamo di più può essere superato. Vi renderete così conto di essere forti e attrezzate anche agli scenari più bui e verrete sorprese quando le cose andranno meglio di quanto previsto.

 

oroscopo-filosofico-2019-la-chiave-di-sophia-10BILANCIA (23 settembre – 22 ottobre): Parlo a voi, Bilance alla ricerca dell’amore, convinte che solo trovando la vostra dolce metà potrete sentirvi appagate e in equilibrio: smettetela subito! Il mito degli androgini raccontato da Platone nel Simposio è uno dei passaggi più famosi, ma purtroppo più incompresi, della storia della filosofia. Questo ha avuto svariate conseguenze nefaste, come convincere voi Bilance che solo trovando l’anima gemella potrete raggiungere la felicità. Quel che il mito platonico significa è invece che ciascun uomo originario era composto da una parte maschile e una femminile (o talvolta due parti dello stesso genere). Ciò di cui dovete andare alla ricerca è quindi la metà nascosta dentro di voi: la serenità, care Bilance, sgorga dalla vostra capacità di sentirvi complete anche quando siete sole. Solo a questo punto potrete andare alla ricerca del vostro partner.

 

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SCORPIONE (23 ottobre – 22 novembre): Per scrivere Il Capitale Karl Marx passò anni a fare ricerche nella sala lettura della British Library di Londra e si racconta che dopo qualche tempo iniziò ad avvertire un forte dolore al sedere. Invece di fermarlo, questo gli diede nuova carica. Marx era infatti determinato a portare a termine un’opera capace di mettere in crisi il capitalismo e farla così pagare al sistema per ogni malefatta, compreso il suo dolore al fondoschiena! A voi scorpioni fumantini consiglio nel 2019 di prendere ispirazione da Marx, così da convogliare l’energia dei vostri momenti di irritazione in un’opera capace di cambiare il mondo (o anche qualcosa di meno grandioso, dai…).

 

oroscopo-filosofico-2019-la-chiave-di-sophia-05SAGITTARIO (23 novembre – 21 dicembre): Dal 1920 al 1926 Ludwig Wittgenstein si ritirò a fare il maestro elementare a Trattenbach, Puchberg e Otterthal, tre paesini sperduti tra le montagne austriache. Si dice che l‘esperienza, pur riservando momenti difficili e incomprensioni con i genitori dei bambini, aiutò Wittgenstein a formulare la teoria dei giochi linguistici. L‘esigenza di insegnare ai bambini un linguaggio reale lo portò infatti ad abbandonare l‘idea di una struttura logica uniforme del linguaggio per sostenere invece che il linguaggio sia costituito da un insieme di pratiche diverse comprensibili solo nel loro utilizzo pratico.  Voi Sagittari, amanti delle avventure, dovreste impegnarvi in un progetto estremo che aiuti a chiarirvi le idee e abbia un influsso positivo nel modo di guardare il mondo.

 

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CAPRICORNO (22 dicembre – 20 gennaio): «Di quale libertà godiamo se non quella di fantasticare?» si chiedeva Gaston Bachelard. La  rêverie, il sogno ad occhi aperti, è secondo il filosofo francese l’unico momento di completa libertà, in cui il soggetto, emancipatisi dai vincoli logici, può ridisegnare il mondo così da renderlo conforme ai suoi desideri. In questo 2019 Capricorni abbandonate più spesso la logica e cullatevi in fantasticherie dove sospendere quel principio di realtà così saldo in voi. Potreste rendervi conto che questi sogni ad occhi aperti non sono affatto infantili, ma da essi si impara quali sono le vostre aspirazioni più autentiche. 

 

oroscopo-filosofico-2019-la-chiave-di-sophia-06ACQUARIO (21 gennaio – 19 febbraio): Anche voi Acquari siete alla ricerca dell’amore in questo 2019? Ottimo proposito, ma prima dovete imparare a concentrarvi un po’ meno su voi stessi. Vi potrebbe essere utile la lettura di L’elogio dell’amore di Alain Badiou, dove il filosofo francese insegna che l‘amore è la «scena del Due». Non quindi fusione romantica di anime e neppure prevalere delle proprie esigenze, bensì faticoso percorso di costruzione di una visione, finanche di un‘esperienza, condivisa: «il vero soggetto dell’amore è il divenire della coppia e non la soddisfazione degli individui che la costituiscono». Un insegnamento prezioso per capire che costruire un amore comporta anche fatica e rinunce.

 

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PESCI (20 febbraio – 20 marzo): «Wie man wird, was man ist», ossia «come si diventa ciò che si è». Così recita il sottotitolo di Ecce Homo di Nietzsche. Ma come si può diventare ciò che già siamo? Portando a compimento i talenti ancora a uno stato latente dentro di noi. Perciò il filosofo tedesco usa spesso la metafora della pianta, che cresce rigogliosa fino a fiorire, e quella di un vulcano ribollente e pronto ad eruttare. Progetto ambizioso? Di sicuro, ma è ora di abbandonare la timidezza e sbocciare, per far vedere a tutti quella „stella danzante“ nascosta dentro di voi.

 

Lorenzo Gineprini

 

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L’invenzione della madre – Marco Peano

Il cancro. Questo sconosciuto che vorremmo rimanesse tale per tutta la nostra esistenza. Il cancro, non ho paura di chiamarlo col suo nome.

il cancro. Lo scrivo a chiare lettere. Lo leggo con gli occhi sbarrati, con occhi attenti e furiosi. Non sono più colmi di quelle lacrime che mi ha portato. Non sono più spaventati i miei occhi. Io so chi è, io conosco questo mostro.
Lo conosco da vicino, l’ho visto assalire la persona che amavo di più al mondo. L’ho visto invadere la mia vita. L’ho visto annientare. L’ho visto creare distruggendo. L’ho visto nascere per poi uccidere.

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Un ossimoro insopportabile quando cerca di accingersi alla vita, specialmente se si tratta di quella delle persone a cui vogliamo bene. Una battaglia. Una sfida che sembra già persa. Un mondo che sembra già crollato. Un gioco di carte piegate all’indietro. Un filo tagliato.

“L’invenzione della madre”, di Marco Peano è un romanzo che racconta come madre e figlio siano uniti per la vita; proprio per la vita intera, sì, e anche per quella destinata a finire in un tempo più breve della felicità stessa.
Malattia. Amore. Due parole contrastanti, due parole che si escludono a vicenda. Due parole che quando coesistono rendono l’essere umani una piaga indelebile.

Mattia ha ventisei anni ed una vita normale. Una famiglia, una fidanzata, un futuro da costruirsi tassello per tassello. Questo almeno finché al suo mosaico non viene tolto un pezzo, per la precisione quello che tiene in vita la madre, una donna che ha portato con sé il cancro per dieci anni, un’anima destinata a lasciare tutto ciò che ama e che odia. Una persona a cui non rimane grande possibilità di scelta, un essere a cui il destino non ha chiesto cosa volesse fare della sua esistenza. La vicinanza tra malattia e scadere inesorabile del tempo rende il rapporto tra madre e figlio ancora più intenso che nella vita quotidiana: una madre che non è più in grado di proteggere, un figlio che non riesce ad accettare un tragico destino.

Chi riesce ad accettare una definitività alla vita? Chi accetta un limite entro cui vivere chi ama?

Un libro che parla di amore spassionato ed appassionato al tempo stesso. Un libro che parla di un destino ineluttabile che ci piomba addosso e dell’enorme capacità che riusciamo a ricavare da noi stessi per affrontarlo. Un libro che è empatia e realtà al tempo stesso. Un libro che insegna a chi non sa cosa significhi e ricorda a chi ha già combattuto contro situazioni così familiari.
Capita raramente che ci si chieda se valga la pena continuare la propria esistenza allo stesso modo; ad un certo punto qualcosa scava dentro di noi arrivando di colpo. Ad un certo punto il battito del nostro cuore si ferma per poi accelerare senza smettere mai. Ad un certo punto la vita smette di lasciarci imparare autonomamente ed inizia ad insegnarci.
Non c’è prontezza, non c’è capacità di essere migliori degli altri, non si sa mai come essere giusti o sbagliati in questo destino che ci chiede sempre di più rispetto a ciò che pensavamo ci presentasse.
Chemioterapia, radioterapia, cure palliative, metastasi, male incurabile. Le parole di cui prima conoscevi un mero significante, iniziano a farsi strada nei più profondi significati. Cosa vuol dire resistere alla malattia? Conviverci, senza avere mai la percezione di esserne capaci.
Viverla, senza lasciare che ci abiti.

E’ quando il tempo manca che non avvertiamo più il terreno sotto ai nostri piedi. E’ quando l’attimo fugge velocemente che non riusciamo più ad afferrarlo. E’ quando la cima sembra troppo alta che vorremmo scalare come dei robot per raggiungerla. Vivere il distacco e aumentare la vicinanza. Soffrire senza che la persona amata se ne accorga e raccontarle che va tutto bene. Essere forte, nonostante vorresti soltanto piangere di rabbia. Sorriderle, perché vale di più la serenità che può rimanerle di un nostro solo attimo di sfogo.
Lo spegnimento di una vita può darti la sensazione che le luci non sono mai state accese; Marco Peano racconta di un protagonista terrorizzato dall’idea di scoprirsi come non si è mai visto, se dovesse perdere una parte di sé. Un ragazzo che lascia la voglia di vivere a sua giovinezza cercando di ricordare ogni cosa e di portarla con sé per quando non ci sarà più.
Sei consapevole del fatto che non sentirai più certi odori, quelli odori così familiari. Che non ascolterai ancora una volta quella voce. Che non potrai litigare con lei di nuovo. Che non potrai riabbracciarla appena torni a casa. Che non aspetterai un momento più opportuno di altri per dirle che le vuoi bene.
Un bene che ti sembra di non aver mai provato. Un bene che ti sembra non poter conservare più dentro di te.

E’ un romanzo di crescita interiore, un romanzo che parla di amore, quello vero e più puro, quello con la “A” maiuscola.
In un vortice di emozioni, non c’è spazio per la razionalità. In un vortice di paura non c’è spazio per aspettare che passi. In un concentrato di ricordi, cerchi di afferrare la vita che hai paura di dimenticare perdendone un pezzo fondamentale. L’invenzione della madre racconta di un cambiamento di posizione: è uno spostamento tra genitore e figlio, in cui le garanzie di sicurezza le assume il secondo, per la prima volta. Un romanzo che racconta coraggio, un romanzo che racconta forza estrema.

La forza che trovi dentro per affrontare te stesso e chi ami di più. La forza che non eri consapevole di avere. Stupendoti, crescerai, diventando conscio di non voler più fermare gli attimi per un’eternità, ma ringraziando l’enorme possibilità che quel destino tanto crudele – nonostante tutto – ti abbia dato l’occasione di vivere.

“La malattia è il lato notturno della vita, una cittadinanza più onerosa. Tutti quelli che nascono hanno una doppia cittadinanza, nel regno della salute e in quello della malattia. Preferiremmo tutti servirci soltanto del passaporto buono, ma prima o poi ognuno viene costretto, almeno per un certo periodo, a riconoscersi cittadino di quell’altro paese”.

Susan Sontag

Cecilia Coletta

[Immagini tratte da Google Immagini]

Oriana Fallaci: Prima di tutto Scrittore

Ogni persona libera, ogni giornalista libero, deve essere pronto a riconoscere la verità ovunque essa sia. E se non lo fa è, nell’ordine: un imbecille, un disonesto, un fanatico. Il fanatismo è il primo nemico della libertà di pensiero. E a questo credo io mi piegherò sempre, per questo credo io pagherò sempre: ignorando orgogliosamente chi non capisce o chi per i suoi interessi e le sue ideologie finge di non capire. 

(dalla lettera agli studenti della scuola Rosselli di Marina di Carrara)

Chi era Oriana Fallaci? Chi era la donna che ha cambiato il significato e l’essenza stessa della parola Donna?

Oriana Fallaci lascia la Facoltà di Medicina dopo averla frequentata per poco tempo, non per mancanza di tenacia, ma per la più grande predisposizione naturale che sente dentro di sé: la passione che la porta a scrivere. Quella stessa che la porta a ricercare, capire, voler comprendere le vicende che la circondano. La scrittura invade le sue giornate, le sue notti passate a cercare di rifiutare il sonno tra una sigaretta e l’altra. Non smette mai di scrivere affermando le sue opinioni, difficili da comprendere per chi è diplomatico per natura.
Oriana delinea un’enorme se stessa nei suoi pregi e nei suoi – se così si possono chiamare – difetti. Di un personaggio che ha cambiato le concezioni storico-sociali del ‘900, per potervi partecipare fino in fondo non soltanto da spettatore, ma soprattutto da protagonista.

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Nulla la disegna meglio di quello che ci hanno lasciato le sue mani unite all’affezionata Olivetti. Sì, anche in questo è grande: scrive sentendo il suono dei tasti sotto le sue dita, facendosi chiamare “scrittore” anziché scrittrice.
E’ l’affermazione della sua passione che sembra venire prima di se stessa che la rende unica; lei che arriva a pesare trentasette chili pur di dividersi tra gli studi universitari e il continuare a mettere giù le parole nel modo più autentico possibile. Solo la passione ci rende autentici, perché ci porta a diventare quello che vorremmo fermamente.
E lei nello scrivere era capace di delineare se stessa, proprio come nelle sue interviste è sempre riuscita a delineare i suoi interlocutori.

– È strano, signora Magnani: lei ha un carattere così virile, dice sempre di stimare più gli uomini che le donne, «perché io accetti una donna bisogna che essa abbia una dignità e un carattere quasi maschile», e poi parla come se avesse degli uomini una considerazione minuscola – 

– Guardi, non ne ho nessuna. Il fatto è che le donne come me si attaccano solo agli uomini con una personalità superiore alla loro: ed io non ho mai trovato un uomo con una personalità capace di minimizzare la mia. Le donne come me subiscono solo gli uomini capaci di dominarle: ed io non ho mai trovato nessuno che fosse capace di dominarmi. Ho trovato sempre uomini, come definirli? Carucci. Dio, si piange anche per quelli carucci, intendiamoci, ma son lacrime da mezza lira – 

Se mi chiedessero quanto sarei stata disposta ad offrire per partecipare a quest’intervista, avrei risposto semplicemente “una cifra che non saprei quantificare”.
Oriana Fallaci esprime un’estrema grandezza nel tracciare esattamente il profilo dell’intervistato, chiunque sia; non solo nel ricercarne i caratteri, quanto piuttosto nel riuscire a delinearlo come se lo conoscesse da tempo e non soltanto da cinque minuti. Mi riferisco ad Oriana Fallaci che lascia parlare Anna Magnani da donna a donna, mi riferisco a due personaggi che non hanno mai avuto bisogno di affermarsi attraverso le parole, perché erano in grado di esprimersi anche soltanto tramite il loro modo di essere. Parlo di autenticità mischiata all’ironia, per descriverle fino in fondo.

Troppe volte di un grande personaggio si estremizzano i lineamenti più ostici: emerge ciò che non è, una natura che non corrisponde completamente al vero. Forse perché quello che trasmette un grande personaggio è puramente soggettivo, forse perché ognuno di noi riesce a coglierne tratti estremamente diversi. Nella fiction in due puntate andata in onda su Raiuno diretto da Marco Turco, vediamo una Fallaci costantemente arrabbiata, invasa continuamente da impeti di rabbia, più che dalla sua tenacia.
Leggere Un uomo, piuttosto che Lettera ad un bambino mai nato significherebbe discostarsi completamente da quella visione: leggendo soltanto due dei suoi libri risulta chiaro come una donna forte sia anche capace di amare tanto se stessa quanto un’altra persona. Quanto una donna indipendente sia in grado di provare il desiderio di maternità, il desiderio di diventare madre, un desiderio che è insito nella natura femminile stessa.

A chi non teme il dubbio
a chi si chiede i perché
senza stancarsi e a costo
di soffrire di morire
A chi si pone il dilemma
di dare la vita o negarla
questo libro è dedicato
da una donna
per tutte le donne.

E’ sufficiente la dedica iniziale per capire il livello di comunicazione ed empatia che unisce Oriana ad ognuna di noi: la comune essenza di essere donna, con tutto quello che ne comporta. Quante e quali domande si pone una donna che porta in grembo un figlio?
Troppe. Una donna lo sa quanto sarà difficile il mondo di oggi, quanto sarà difficile crescere una creatura che non ha colpe per tutto quello che dovrà affrontare. E’ conscia del fatto che non esiste una manuale di istruzioni con cui ci sarà un modo giusto di indicare una strada piuttosto che un’altra; sente il figlio come se stessa, per quanto non si veda mai abbastanza preparata.

Perfino lei, che preparata lo era sempre. Lei, che alla vita non ha mai detto no – fino alla sua estrema essenza – nella sua determinante battaglia contro l’Alieno.
Lei che aveva visto la Guerra del Vietnam, perché l’aveva vissuta. Lei che aveva visto la città di Beirut devastata e assediata, in cui la morte si riversava in ogni sua forma.
Oriana che era capace di non vedere soltanto le bombe, ma prima di tutto le persone, cogliendo le espressioni di chi ogni giorno temeva di non arrivare all’ora successiva, non sapendo se avrebbe abbracciato ancora una volta i suoi cari, la sua terra, la sua vecchia e rassicurante vita. In una delle sue interviste le era stato chiesto se avesse paura della guerra, essendo stata la più grande inviata di quegli scempi nel ‘900 .

Chi dice di non avere paura della guerra è un cretino o un bugiardo.

Così risponde, soffermandosi poi sul fatto che l’unica possibilità per affrontare la paura che si ha per la guerra è superarla. Limite e possibilità, oserei dire.
Nonostante dopo la pubblicazione di Insciallah del 1990 avesse scelto di trasferirsi definitivamente a Manhattan, estremamente tenace nella sua guerra personale contro quella malattia che ogni giorno la consumava e rendeva un po’ più forte al tempo spesso, il suo spirito indomabile non le permise di rimanere indifferente all’attentato dell’11 settembre 2001.
Dapprima in un lungo articolo apparso sul Corriere della Sera il 29 settembre 2011, poi ne La rabbia e l’orgoglio – che era solita chiamare un “piccolo libro” – Oriana affrontava la tematica del fondamentalismo religioso: un argomento in cui riusciva ad essere completamente se stessa, senza cadere in ciò che avrebbe dovuto essere politicamente corretto. Un argomento particolarmente scomodo che si preferiva non affrontare, ma che lei si sentì di esprimere – come sempre – a modo suo.
Autenticamente suo.

Il puzzo della morte entrava dalle finestre, dalle strade deserte giungeva il suono ossessivo delle ambulanze.

Proprio lei che sentiva ogni giorno la morte sempre più vicina, odiava sentire quella delle persone. Odiava coglierla nell’aria, odiava coglierla nel fanatismo, odiava respirarla. Aveva sempre cercato di raccontarla, come aveva sempre cercato di esprimere ogni cosa di se stessa. Ogni pensiero o emozione, per quanto fossero estremi e poco condivisibili, erano il lato di chi ama vivere appieno la vita, di chi non è mai stato peccatore di aver trascorso un solo minuto a sopravvivere.

Apro la mia boccaccia. […] E dico quello che mi pare.

Ecco ciò che dice di sé nella sua ultima intervista concessa al New Yorker Oriana Fallaci. Lei che, fino alla fine, ha sempre cercato di fare quello che voleva. Lei che voleva morire nella sua Firenze, pur avendo amato e vissuto come cittadina del mondo.

Sulla sua lapide, soltanto tre parole: Oriana Fallaci. Scrittore.

Cecilia Coletta

[Immagini tratte da Google Immagini]

La musica che guarisce

La musica aiuta a non sentire dentro il silenzio che c’è fuori. Johann Sebastian Bach

Succede che quando qualcosa ti viene imposto finisci per odiarlo. Succede anche che quando qualcosa ti viene imposto non ti accorgi di amarlo e di quanto questo amore ti faccia sentire bene. È successo questo a Margherita e al suo pianoforte.

Undici mesi fa la vita di Margherita è cambiata. Undici mesi fa a sua sorella è stato diagnosticato un tumore al polmone con metastasi ossee. Margherita si è ritrovata a guardare sua sorella fare cicli di chemioterapia e radioterapia, trasfusioni, tac e risonanze magnetiche di controllo. Margherita si è ritrovata a guardare i suoi genitori disperarsi, pregare e sperare, mentre lei rimaneva in un angolo, quasi invisibile. Margherita undici mesi fa è stata travolta dal buio, un vuoto totale in cui non riusciva a capire più chi era. Undici mesi fa si è ritrovata a camminare sempre in punta di piedi per non disturbare, a non mostrarsi mai triste e, in un certo qual modo, a non provare più niente. Undici mesi fa suonare il pianoforte e la musica erano solo un qualcosa che le toglievano il tempo di stare con gli amici. Ora, il pianoforte, è diventato il suo migliore amico, il suo confidente. Ora, la musica, è diventata la sua voce.

Margherita suona per non ascoltare il silenzio assordante che la circonda. Margherita suona perché suonare le ha insegnato a non pensare. Margherita suona perché lasciare le dita andare su quegli ottantotto tasti le permette di lasciare libero il suo dolore. Lasciare le dita andare su quegli ottantotto tasti permette al gelo che prova, e a cui si costringe, di diventare lentamente primavera. Margherita suonando riesce a dare sfogo alla tormenta che cova dentro di lei senza che questa la frantumi. E in questi undici mesi Margherita ha suonato, suonato, suonato… per raccontare a se stessa quello che le parole non riuscivano a spiegare. Parlava attraverso la musica di Chopin, il “poeta del pianoforte”. Margherita ha trovato nella sua musica uno specchio fedele dell’animo, una confessione intima dedicata a coloro a cui non è necessario dire tutto, ma si può anche solo suggerire. Il suo pezzo preferito era diventato lo Studio Op. 25 No.11. Una composizione emotivamente intensa che le faceva pensare a una bufera, con il turbine di vento che trascina tutto con sé. La rabbia. Il dolore. I sensi di colpa. La confusione. Tutti i suoi sentimenti più nascosti in un unico brano. Lo suonava e si scopriva, una volta eseguito, le guance bagnate dalle lacrime. Quando invece suonava il suo Notturno op. 48 No.1 le sembrava di raccontare di lei, di quello che era diventata: una persona introversa e piena di paure che ha voglia di scoppiare e dire tutto ciò che pensa, vomitando la rabbia e la tristezza che si è ritrovata nel cuore. Intimo e grandioso al tempo stesso, un notturno unico. Un ampio respiro iniziale che porta a un crescendo di angoscia, passione e tormento interiore fino a svanire, consumato, proprio come lei. Suonare il Preludio Op.28 No. 4, malinconico e dolce al tempo stesso, la lasciava vagare, la faceva entrare in un mondo magico per trovare un attimo di sollievo. La solitudine. La delicatezza. L’anima melanconica.

Margherita in questi ultimi undici mesi ha trovato nel pianoforte e nella musica il suo modo di sopravvivere, perché anche se non era lei quella malata e a rischio di vita, una parte di lei è morta undici mesi fa. Margherita in questi ultimi undici mesi ha trovato nel pianoforte e nella musica uno strumento per esprimersi e trasmettere tutto quello che aveva dentro, sotto l’involucro di ghiaccio che si era costruita. Lasciare che tutti i suoi sentimenti avessero luogo, nella possibilità di non venirne travolta ma di poterli controllare nelle sue dita pur vivendoli l’ha aiutata a sopportare il peso di tutti quei sentimenti per poter continuare a vivere, trasformando il suo dolore in musica, raccontando il suo dolore attraverso le note.

L’uso della musica come terapia è vecchio quanto la musica stessa. La musica, ascoltata o messa in atto, o più in generale il suono può essere veicolo di autoterapia o essere usato come terapia da parte di uno specialista. La musica è uno strumento per esprimere le proprie emozioni, i propri sentimenti e i propri pensieri. La musica produce effetti sul nostro corpo, coinvolge la mente e origina un’esperienza emozionale. L’ascolto o la messa in atto di un brano non è mai identico a se stesso, ma è un continuo divenire e rispecchiarsi nel proprio sentire, è la manifestazione della complessità della persona stessa. La musica ha la chiave per aprire le nostre porte più intime quando le nostre emozioni ricercano la strada per emergere. Usando le parole di Tolstoj

“La musica è la stenografia dell’emozione. Emozioni che si lasciano descrivere a parole con tante difficoltà e invece sono direttamente trasmesse nella musica ed in questo sta il suo potere e il suo significato”.

Questo articolo è anche una mia dichiarazione d’amore. Amore per la musica, per il pianoforte, per Chopin. Amore per la scrittura. Amore per le ali che riusciamo a costruirci sulle nostre debolezze. Non so spiegare come mi sento quando suono, scrivo o ho a che fare con tutto ciò che riguarda la psiche. Posso solo dire che è quel genere d’amore che ti fa sentire perfettamente imperfetta e di cui non ne hai mai abbastanza. Un articolo pieno d’amore per suggerire di ricercare quell’Amore, quella Passione che fa stare bene, nonostante la vita, nonostante tutto. Perché, anche se a volte manco di senso pratico, non manco mai di cuore.

 Giordana De Anna

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[Immagini tratte da Google Immagini]

Tiziano Terzani e il “mostro”

Moriamo un poco ogni giorno,

e ancora,

non vi è altro porto che la morte. Perciò non guardar male la condizione di tuo fratello: è in pace. Finalmente è libero, finalmente sicuro, finalmente eterno. Ora egli gode del cielo libero e aperto. […]Ti inganni: tuo fratello non ha perso la luce, ma ne ha trovata una più vera,

la vita non è breve, come afferma Seneca nel De Brevitate Vitae: è l’uomo a renderla tale quando disperde il tempo senza saggezza; nel tempo della vita che abbiamo a disposizione, infatti, noi dobbiamo cercare di crearci e di vivere una biografia unica e piena.

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