L’uomo dell’assurdo

«Giudicare se la vita valga la pena di essere vissuta è rispondere al quesito fondamentale della filosofia. Il resto – se il mondo abbia tre dimensioni o se lo spirito abbia nove o dodici categorie – viene dopo» (A. Camus, Il mito di Sisifo, 1942).

Così sancisce Albert Camus all’inizio di una delle sue opere più note: Il mito di Sisifo, saggio a metà tra la letteratura e la filosofia con il quale l’autore si confronta con estrema raffinatezza con l’irrazionalismo e l’esistenzialismo, correnti filosofiche che avevano messo in luce la crisi dell’uomo contemporaneo agli albori del Novecento.

Il testo inizia sottoponendo all’attenzione del lettore alcune considerazioni sul tema del suicidio e sul perché esso sia un concetto così ampiamente diffuso tra gli uomini, tanto nella riflessione teorica quanto purtroppo nei loro atti pratici: la scelta che molti individui compiono è indubbiamente tanto complessa quanto netta; non solo perché spesso è dovuta al sottrarsi dell’uomo alla propria razionalità ma anche e soprattutto perché segna un allontanamento definitivo dell’individuo dalla propria condizione esistenziale e dal continuo oscillare del pensiero umano tra la volontà di creare e l’intima consapevolezza della fugacità di tutte le cose.

Ha veramente senso compiere un cammino verso l’esistenza quando in realtà il destino è uno e comune a tutti gli uomini? Qual è il senso della vita se poi essa è destinata a svanire via?

Sono proprio questi gli interrogativi e i sentimenti che secondo Camus caratterizzano l’uomo dell’Assurdo, nel perenne conflitto che colloca l’uomo contro la vita e l’attore contro la propria maschera. Svanita la prospettiva di un’esistenza eterna, infatti, risultano messi in crisi tutti i concetti umani che su di essa trovavano un solido supporto: l’uomo non sa più come comportarsi con il tempo, dato che esso è limitato; non avverte più il fondamento di una morale, che è quindi destinata a dissolversi con la fine della vita umana; infine, sembra non avvertire più l’esistenza di certezze e di verità irrefutabili, rendendo quindi vano ogni sforzo atto a comprendere il mondo o ad attribuirgli un reale significato.

L’uomo sembrerebbe quindi destinato a vivere giorno dopo giorno la stessa punizione che gli dei inflissero a Sisifo, personaggio della mitologia greca che a causa delle proprie astuzie (e quindi del proprio intelletto) fu costretto in eterno a portare lo stesso masso sulla cima di un monte. Svolto il proprio compito, però, ecco che il masso rotolava nuovamente in basso, rinnovando eternamente la punizione e rendendo futile ed irrazionale l’intero processo.

Il paragone tra la figura di Sisifo e quella dell’uomo contemporaneo risulta quindi essere estremamente preciso, non solamente per la nota irrazionale che caratterizza le loro esistenze ma ancor più profondamente per le cause dell’irrazionalità stessa che in entrambi i casi sono riconducibili alla facoltà intellettiva e quindi al pensiero umano: così come Sisifo fu condannato dagli dei per l’utilizzo improprio della propria ragione ecco infatti che l’uomo contemporaneo appare intrinsecamente condannato dal proprio intelletto ad avvertire pungente il senso dell’assurdo e dell’irrazionalità di tutte le cose, che viene percepito ed evidenziato dal pensiero umano e dalla riflessione filosofica.

L’estrema attualità della Filosofia risiede proprio nella sua intima capacità di permettere all’uomo di adattarsi all’assenza di certezze non sottraendogli però la perenne brama di conoscenza e di significato che lo rende tale: uomo nelle proprie fragilità ma anche e soprattutto uomo nella propria capacità di oltrepassarle, mettendosi radicalmente in discussione e ricostruendo tutta la propria esistenza daccapo.

Secondo Camus, infatti, anche Sisifo, ad un certo punto della propria punizione divina nell’Aldilà,  avrà accettato il proprio destino e avrà rifiutato la speranza e gli Dei, abbracciando un universo senza padroni, né sterile né tanto meno futile. Ed ecco che si delinea la prospettiva di un nuovo atteggiamento per l’uomo dell’Assurdo: essere fedele al processo, a se stesso e a quella che Nietzsche chiamava la propria fiamma. D’altronde, «anche la lotta per la cima basta a riempire il cuore di un uomo» (ibidem).

 

Gabriele Iacono

 

[Photo credit Grag Rakozy via Unsplash]

la chiave di sophia 2022

BoJack Horseman: l’antidoto alla vita è… la vita stessa

Perché scegliere di vivere accettando la mancanza di senso della vita? Cosa ci spinge ad affrontare ogni giorno il nostro passato e un incognito futuro? Sembra che un modo ci sia: una risposta ce la porge BoJack, il protagonista dell’omonima celebre serie TV creato da Raphael Bob-Waksberg.
BoJack Horseman è una ormai nota serie Tv che porta sullo schermo la storia dell’omonimo personaggio, ormai un attore adulto e disilluso, tra disavventure surreali e commoventi episodi; la storia è arricchita da personaggi vari e sfaccettati che, ognuno a suo modo, arricchiranno il percorso che Bojack affronterà.

BoJack è un’ex star di Hollywood divenuto celebre per aver preso parte a una serie tv di target adolescenziale. BoJack non riesce ad accettare ciò che è diventato, si rimprovera di non essere “un vero attore”, invidia la serenità di Mr. Peanutbutter perché è riuscito ad “accettarsi e a vivere la sua vita riuscendo a sorridere ogni giorno”. L’atto eroico non è altro che questo accettarsi, ma BoJack sembra non riesca a svincolarsi da un passato che continua a influenzare le sue scelte in ambito lavorativo e privato.

La sua vita è solo l’ombra di ciò che egli stesso avrebbe realmente voluto e nonostante tutto, a suo modo, non smette di cercare di vivere. Cerca di svincolarsi da una madre ingombrante che riflette su di lui i suoi insuccessi e trova in Diane chi gli ricorderà che la felicità dipende solo dalle nostre azioni, e che per quanto sia impossibile dimenticare il passato è possibile lavorare sulle nostre scelte, perché nonostante tutto si continua a vivere.

BoJack è cinico, realista e incarna il nichilista contemporaneo: quando sembra che scelga di arrendersi a quella vita che non lo soddisfa, è allora che trova la forza di reagire: è emblematico che chieda a Diane se è mai troppo tardi per ricominciare, le chiederà una mano per non ricadere nel circolo vizioso dell’alcool e delle droghe e in uno dei momenti più toccanti affermerà che «in un mondo orribile tutto ciò che abbiamo sono i legami che costruiamo».

Una delle risposte alle domande iniziali è proprio questa: ciò che ci salva sono i legami che siamo in grado di creare, legami che sono capaci di darci un nuovo sguardo su noi stessi e guidarci, legami che ci ricordano che in un mondo privo di senso non siamo soli perché noi vi apparteniamo, legami che sono i soli ad affermare la nostra permanenza in questa vita e a darne un senso. Questa però non è l’unica risposta possibile alle nostre questioni iniziali.

La grandezza di BoJack è nell’accettare di vivere una vita fatta di discese e risalite, accetta di essere sé stesso e di portare il suo fardello. È commovente che il protagonista, nel momento in cui sembra voler porre fine alla sua vita, scelga nuovamente di vivere nel momento in cui osserva dei cavalli selvaggi che corrono liberi adiacenti alla strada che sta percorrendo. In quel momento capisce che la felicità è fatta di tentativi, di strade impervie e a volte dura solo pochi attimi e per questi vale la pena vivere. Bisogna guardare l’abisso prima di potervi prendere le distanze e questo BoJack lo fa, prende le distanze dall’abisso cercando di guardare «il panorama a metà strada»: cioè riesce per un momento a guardare la sua vita dall’alto e a prenderne le distanze, paradossalmente avvicinandosi nuovamente ad essa, ma con una consapevolezza diversa.

BoJack potrebbe essere paragonato al Sisifo di cui parla Camus nel suo saggio omonimo, affermando che l’unica vera domanda a cui la filosofia dovrebbe rispondere è sul perché valga la pena scegliere di vivere ogni giorno. La soluzione dell’autore è nell’accettare i nostri limiti e le discese e le risalite che la vita ci offre. Così come Sisifo porta il suo fardello ogni giorno, così BoJack accetta di vivere con la consapevolezza che la vita è fatta di attimi, ma allo stesso tempo se non si comincia la salita con il nostro fardello non ci può essere discesa. Deus ex machina, rivelazione che il protagonista apprende da un personaggio quasi mistico che incrocia sulla sua strada mentre sta correndo affaticato: un babbuino gli dirà che correre è difficile, ma provando ogni giorno diventa più semplice.

In effetti la vita non può essere che questo, una corsa a ostacoli sempre nuovi in cui a volte l’orizzonte è così lontano che ci viene voglia di abbandonare la nostra strada non curandoci di ciò che abbiamo percorso. Correndo ci accorgiamo anche che non siamo soli e, nonostante la corsa non sia mai piana, è proprio nelle salite che ci salvano i legami che siamo capaci di creare, che ci fanno pensare che vale la pena vivere.

 

Francesca Peluso

 

[immagine tratta da un fermo immagine della serie televisiva]

la chiave di sophia 2022

La rivolta mancata: io censuro, dunque sono

Penso che nel nostro passato recente dovesse esserci una rivoluzione, e che invece non ci sia stata. Questo, ritengo, per via di una contraddizione radicata, che impedisce ogni soluzione. La contraddizione consiste nell’accettazione passiva di quello che normalmente condanniamo. Uno dei suoi aspetti più lampanti poggia sul fatto che, nonostante si deprechi l’omicidio e si elogi invece la libertà espressiva dell’individuo umano, si continui a violentare il mondo e a godere dei prodotti che questo sfruttamento porta nelle nostre case. La sovrastruttura democratica persevera nel macinamento di vite.

La questione viene tendenzialmente affrontata con sufficienza, al punto che è lecito aspettarsi dalla comunità un disinteresse nei suoi confronti, piuttosto che una consapevole attività. L’uomo moderno che si dice ragionevole deve asserire l’intrinseca apatia degli individui, e non la loro benigna volontà. Ma l’umano è «l’unica creatura che rifiuti di essere ciò che è»1, la rivolta, in lui, è costitutiva, perché allora non ci siamo più ribellati? Perché lasciamo che la contraddizione stagni? La società contemporanea, si diceva prima, cerca, almeno a parole, di garantire libertà di essere ad ogni individuo e quindi si presenta come uno spazio in cui tutto è concesso. Ma se il mondo mi dice che posso essere chi voglio, perché mai dovrei ribellarmi? Ecco allora il ragionamento dell’umano moderno: poiché posso vivere come voglio, non ho nulla da combattere. Anzi: trovo io stesso le mie lotte ma non le giudico più grandi di tutte le altre. Tendo ad arrendermi al fatto che il mondo è invaso dalle voci.

La ribellione si è compiuta, il vecchio ordine è stato spodestato e uno nuovo è stato istituito. Ci si prepara a riorganizzare ogni cosa in seno a inedite idee di libertà. Sostenere questo, però, e fermarsi – qui sta il vero crimine. Significa infatti cristallizzare il pensiero, renderlo tanto bello quanto intoccabile. Io limito l’uomo, gli pongo di fronte un limite, alle sue idee e alla sua storia, giustificando quanto è stato fatto e quanto ancora s’ha da fare attraverso i soli filtri della rivolta compiuta. Limitarsi a giustificare significa prepararsi a giustiziare. Quello che assumo di fronte al mondo, in realtà, è la resa, perché dichiaro in partenza di non poter comprendere le ragioni di chi critica il nuovo percorso. Io blocco la rivolta per affermare che la storia ha trovato il suo senso e dunque mi appresto a negare tutti gli altri. Oppure, ancora peggio, la proseguo imperterrito e senza diplomazia, perché la storia continui, ossessivamente, ad avere il senso che intendo darle con la mia rivolta.

La rivolta moderna voleva trovare una nuova metafisica cui l’uomo potesse ispirarsi. Senza Dio che giustificava la presenza e l’azione umana, e con i padroni-sovrani che tradivano il popolo, restava solo la storia a fungere da faro. Riadattando allora una vecchia tendenza, le rivolte moderne, o millenariste, come quella proletaria o, perché no, fascista, hanno cercato di ridurre il senso dell’uomo a un unico idolo, quello della storia, che poteva promettere un avvenire dorato a mo’ di regno celeste. La storia doveva finire, e sarebbe finita con la società senza classi o con la società del superuomo. Ogni dolore (e ogni imperfezione) sarebbe stato eliminato in virtù di un’era restaurata. La rivolta allora, per quanto appassionata, non faceva altro che riportare l’uomo a prostrarsi di fronte a Dio, e dunque a fallire.

Lo stesso destino è occorso alla democrazia moderna. La sua apertura formale ha sedotto gli spiriti, e nel mentre che questi si sperimentavano nel nuovo mondo, ha allargato il suo dominio e si è imposta come struttura universale. Le successive generazioni sono allora nate in un mondo preparato. La libertà intrinseca dell’individuo non aveva più i confini dell’universo, ma della ideologia nazionale ed economica. Accade allora che non viviamo più attraverso il sistema, facendocene carico e partecipando alla sua crescita, ma al di sotto del sistema. Non siamo più attori, ma prodotti. Il mondo addomestica noi, non il contrario. Alla logica della considerazione abbiamo sostituito la logica del consumo, che promettendo una materialità infinita riesce a contenere la ribellione degli individui, e così li addomestica.

Abbiamo condonato la nostra più ima natura, ecco la contraddizione. Anche gli sprazzi di polemica si reinseriscono poi nella logica imperante del moderno, perché sono insufficienti. Mi preoccupo di quello, ma tutto il resto lo accetto perché non so contenerlo. Oppure: mi preoccupo di quello, ma per tornare nel mio mondo sociale in una maniera che viene accettata. La nostra società, nata dalla rivoluzione, ha finito con il lobotomizzare la stessa, riducendola a una contraddizione senza appeal. Il rapporto che oggi sussiste tra Io e Mondo è determinato dalla censura. E poiché questo rapporto estende la sua considerazione fino ai limiti estremi del globo, pochissimi se ne vogliono prender cura. Io censuro il Mondo perché non riesco a capirlo.

Come potrebbe rinascere, allora, lo spirito ribelle? Non seguendo una storia globale, che sarebbe pura ideologia, né smorzando ogni selvatichezza con gli ossi di gomma. La rivolta, oggi, deve partire dalla ricerca interiore e dalla responsabilizzazione della persona. Poiché l’individuo è più o meno libero, ma vive sul sangue degli altri, e ritiene comunque sbagliato soggiogare le genti, ormai tutte suoi simili, esso solo può produrre il cambiamento. La sovranità appartiene al popolo. L’individuo deve riscattare la sua dignità, cioè diventare pensatore, insieme a tutti gli altri. E l’unica universalità sensata sarà quella della fratellanza, dove ogni singolo cuore è ascoltato nella sua particolarità, in barba ad ogni Signore Iddio e a tutte le Magnae Historiae.

 

Leonardo Albano

 

NOTE
1. A. Camus, L’uomo in rivolta, Milano, Bompiani, 2017, p.13.

[Photo credit Isis França]

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Albert Camus legge il mito di Sisifo: l’assurdo

Pare che Camus abbia scritto questo saggio mosso soltanto dall’urgenza. Anche lui era un altro viandante del deserto, smarrito sotto il cielo rimasto vuoto, e in quanto tale sentiva precipuamente il senso di estraneità che gli rinfacciava soltanto l’assurdo dell’esistenza. Questo infatti è il tema del saggio: l’assurdo; inteso come unico senso rimasto all’universo e ai suoi abitanti dopo che il principio primo è stato detronizzato. L’essere umano senza Dio, senza promessa eterna e senza guida, rimane solo con se stesso, unico padrone del suo mondo, e tutta la responsabilità delle sue azioni, delle sue idee e dei suoi omicidi ricade esclusivamente sulle sue spalle.

L’assurdo, dice Camus, non è una filosofia. Questa, con la sua dialettica, tende a mistificarne il percorso perché risolleva l’anelito della speranza. L’assurdo non ha ambizioni. I maestri dell’esistenzialismo che egli cita – Kierkegaard, Husserl, Sartre – hanno argomentato l’assurdo all’interno di una logica della domesticazione, senza praticare il martirio richiesto, ma anzi cercando una scappatoia che permettesse di evadere dalla malinconia della vita. Per Camus, questo suicidio è solo filosofico, mentre l’assurdo è prima di tutto una «sensibilità»1. Qualcosa di epidermico e lucidamente reale che permea il mio essere e richiede azioni, prima di pensieri. Il suicidio dev’essere fisico. La questione espressa nelle prime righe del saggio muove proprio da questo punto: se la vita è assurda, vale la pena viverla? Perché, semplicemente, non suicidarmi?

L’assurdo diventa il punto di partenza. È la massima lucidità che l’uomo acquista tornando a se stesso. Non qualcosa cui si perviene riflettendo, ma qualcosa che è già radicato nello spirito e lo affligge, lo sconsola. Questo perché Camus ci tenne a ribadire che nessuna metafisica poteva darsi e che dunque la sfida dell’uomo si combatteva nel fango. Neanche il proscenio poteva soddisfare la pretesa di unità e di riabilitazione; anzi: esasperava l’opposto. L’assurdo è «il peccato senza Dio»2, l’omicidio impunito. Non è una trascendenza incomprensibile, non è la struttura intrinseca dell’universo, e non è nemmeno un rovesciamento distopico, ma è l’immediatezza del vivere umano, l’esperienza della società malvagia, la peste che uccide i bambini, l’uomo che scopre se stesso nella delusione. Qualcosa che appunto colpisce il cuore più del cervello e che per questo richiede uno sforzo esagerato, disposto a rinunciare a se stesso qualora non trovasse alcun appiglio. La redenzione deve essere acquisita delegittimando la propria stessa vita per vedere se poi è in grado di riottenere lo status che le è stato sottratto.

Se mi uccido affermo la mia grande passione in faccia all’universo intero. Ma proprio per questo il suicidio non è la risposta. È più una tentazione, che viene sgominata quando esaminata con occhio critico. Il suicidio in realtà mi riporta nella trappola perché mi dà solo una parvenza di liberazione, e nel momento in cui premo il grilletto per afferrarla, capitombolo nuovamente nel pozzo dell’assurdo, che in realtà non ho minimamente scalfito. Anzi: ho fatto il suo gioco. Uccidersi significa far vincere l’assurdo e arrendersi alla sua vibrazione. Nemmeno il suicidio fisico offre una certezza. Camus si ritrova spaesato. Ma è qui che si comincia a spingere il masso su per la china, perché qui, dallo spazio soffocante dell’interiore, sorge la fiamma rivoltosa della vita.  

La soluzione, se di soluzione si può parlare, è il titanismo. Per vincere l’assurdo occorre infatti mantenerlo, e mantenerlo ben presente, nel mentre che ci si tuffa nell’intelligenza. È a questo punto del cammino, quando «l’uomo assurdo è incalzato»3, che il saggio si popola di figure capaci di vivere l’assurdo, e dunque la libertà assurda. L’angoscia s’incarna nel cuore umano e da qui si mobilita. L’atto dell’uomo si produrrà allora in una rivolta continua e cioè in un sistematico e sempre rinnovato confronto tra l’uomo e la sua oscurità, come una costante presenza dell’uomo a se stesso. Ecco perché la metafisica dev’essere cacciata: essa mette uno specchio tra l’uomo e la sua identità, quando questi fantasmi dovrebbero abbracciarsi.

Vivere, per Camus, è «accettare pienamente il destino […] dar vita all’assurdo»4. Esso non deve essere risolto, perché significherebbe ucciderlo, e con esso la contraddizione che accompagna la sua ombra e appassiona fortemente l’uomo spezzato. Bisogna credere nel divorzio dall’unità. «Il tema della rivoluzione permanente viene così trasportato nell’esperienza individuale»5.

Camus insomma sostituisce una logica della qualità – più metafisica – con una della quantità. L’individuo assurdo, che livella sullo stesso orizzonte ogni possibile valore, vive per consumare. Egli, riecheggiando Rimbaud, berrà da ogni calice e sorseggerà ogni veleno. «Non può trattarsi di una dissertazione sulla morale»6. Ciò si fa un poco cinico quando Camus sostiene che l’individuo assurdo non vive come un suicida, ma come un morituro, come un condannato a morte, cioè come qualcuno che, conscio del suo destino, lo accoglie senza remore e fa della sua vita un capolavoro. Vivere assurdamente è vivere in rivolta contro il domani. La grandezza risiede in questa eroica obbedienza alla propria vacuità. Sisifo è felice solo allora: quando nella sua schiavitù, incontra la libertà del suo essere un mondo.

Il saggio uscì nel 1942, prima che si venisse a sapere degli stermini nazisti e prima degli eventi di Hiroshima e Nagasaki. Oggi la lezione di Camus sembra insufficiente. L’analisi dell’assurdo e la lucidità con cui si affronta il valore della vita restano temi ancora affilati, cui ci si può rifare per aprire però una discussione diversa. La risposta all’assurdo non può essere la quantità, specie quella nuda, o quantomeno non può essere lei sola. La consumazione è ciò che ha trasformato il mondo in un conto alla rovescia. Un senso metafisico, che rimanga sulla terra e orienti l’ambizione dell’uomo, credo sia imprescindibile. Non serve Dio, ma poesia, e ancora di più coscienziosità. Tramite questi lucori posso mantenere l’assurdo e insieme valorizzare la grandezza della vita, perché questi stessi lucori sono, del resto, un’assurdità. Io li accetto perché so di essere assurdo e so che loro sono assurdi. Quindi comincio ad amare. Cos’è l’amore se non un’assurdità? Dedicare ogni briciola di sé a qualcosa che si sa destinato a finire? E l’amore è metafisico, perché mi fa accettare l’universo e mi addolcisce. Del resto anche Camus ne era cosciente e negli scritti successivi si metterà a parlare di fratellanza e interesse per il particolare umano – amore per la differenza che è amore in generale. Senza una metafisica l’uomo si estingue. Non cambia nulla sentirla, perché in ogni caso l’uomo mistifica la realtà e se stesso al primo vocalizzo, anche quando vive di quantità e di insensatezza.

L’uomo è un’oscillazione. E Camus se ne rese conto quando, alla fine del testo, sostenne che «si ritrova sempre il proprio fardello»7.

 

Leonardo Albano

 

NOTE
1. A. Camus, Il mito di Sisifo, Milano, Bompiani, 2017, prefazione.

2. Ivi, p. 39.
3. Ivi, p. 49.
4. Ivi, p. 50.
5. Ibidem.
6. Ivi, p. 63.
7. Ivi, p. 121.

[Photo credit Steve Johnson via Unsplash]

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A Place to be: uno sguardo alla ricerca del proprio posto nel mondo

L’inizio di un nuovo anno è sempre il tempo dei bilanci: è come se ciascuno di noi sentisse la necessità di mettere un punto a tutto quello che nella propria vita si teneva in sospeso, nel bene e nel male.
Non ho mai amato i resoconti del passato. Ridurre la propria esistenza a una specie di check-list di ciò che si è fatto e si è ottenuto, di quel che si è perso o non si è raggiunto, tende a escludere dalla propria prospettiva le sfumature che arricchiscono gli incontri, le conquiste e i fallimenti, appiattendo la propria esperienza sui meri “fatti”.

Nessun bilancio da parte mia per questo 2018 passato. Mi limito a ricordare, a volte con un velo di nostalgia, quella innocua, che ti fa sorridere. È un sabato mattina e approfitto del centro città ancora vuoto per sedermi in un caffè e scrivere, come quando ero all’università e mi prendevo una pausa dallo studio per dare forma ai miei pensieri.
La voce di Nick Drake mi riporta alla mente quegli interrogativi che assillavano una giovane matricola di filosofia, ormai molti anni fa.
«When I was younger, younger than before / I never saw the truth hanging from the door»1 canta in Place to be.

Già, la verità. Che cos’è la filosofia se non la costante ricerca della possibilità e del senso della verità? Politica, religione, scienza, sociologia, antropologia: non sono tutte legate da un’unica sottile trama che le riconduce al problema del Vero? Lungi dall’essere un valore assoluto da imporre universalmente, uno dei primi insegnamenti che ho appreso dagli autori del passato è che il concetto di verità si declina in molteplici versi, sfuggendo a una semplice classificazione. Verità storica, verità di fatto, verità di ragione, verità di fede: quante verità possibili?

«And now I’m older see it face to face / And now I’m older gotta get up clean the place»2.
Forse la verità più profonda è quella che si raggiunge proprio con il tempo, quella costante a cui l’uomo non riuscirà mai a sottrarsi. Un giorno ti prendi una pausa dalla routine e ti chiedi: “ok, quindi è tutto qui?”. Ora, ponendoti alla giusta distanza temporale, vedi bene gli errori del passato, i traguardi, ma anche inevitabilmente le sconfitte e i rimpianti. Le alternative che hai scartato nel corso degli anni e le vite possibili a cui hai rinunciato.
«And I was green, greener than the hill / Where the flowers grew and the sun shone still»3.
Idealizzare la nostra giovinezza: ecco l’errore che spesso si compie. In fondo, vorremmo veramente tornare quelli che eravamo? Le possibilità che avevamo, a distanza di anni ci sembrano illimitate, ma non erano forse mere illusioni?

Ciò che più manca è l’inconsapevolezza che ci rendeva innocenti. Non c’erano ancora gli errori che logorano, le ferite aperte.
«Now I’m darker than the deepest sea / Just hand me down, give me a place to be»4.
Ecco, la ricerca di un posto in cui stare. La tranquillità e la pace interiore, un luogo che si possa definire veramente “casa”. C’è chi ha trovato ben presto quel luogo dentro di sé ed è rimasto lì fino alla fine dei suoi giorni e chi invece, forse come Nick, quel luogo l’ha sempre cercato, senza mai trovarlo.

Ripenso con nostalgia agli anni in cui ho appreso dalla filosofia molto più di quanto mi aspettassi. Non parlo di semplici nozioni o conoscenze, ma di una visione del mondo che mi ha reso la persona che sono oggi. Impossibile per me non ripensare al Mito di Sisifo di Albert Camus, dove il filosofo francese descrive il momento in cui un uomo “si accorge o dice di avere trent’anni”:

«Costui ammette di trovarsi a un certo punto di una curva, riconoscendo di doverla percorrere fino in fondo. Egli appartiene al tempo, e per l’orrore che l’afferra, riconosce così il suo peggior nemico. Domani – desiderava ardentemente il domani – mentre tutto in lui avrebbe dovuto rifiutarlo. L’assurdo, è proprio quella rivolta della carne»5.

Di fronte alla fuga dall’assurdo ad opera degli esistenzialisti, la lucida analisi di Albert Camus ci pone davanti a un’unica possibilità: confrontarci con l’esperienza umana nella sua finitudine sofferta e nella sua relazione con il mondo e con gli altri. Così, lo sforzo di Sisifo nel trascinare il masso su per la collina per poi vederlo ricadere, giorno dopo giorno per l’eternità, diventa il simbolo della nostra esistenza, dove ogni sforzo è gratuito, senza alcuno scopo.

«I thought I’d see / when day is done / Now I’m weaker than / the palest blue / Oh so weak in this need for you»6.
La forza della giovinezza si contrappone qui alla debolezza e alla fragilità della maturità. Più trascorrono gli anni, più ci si sente dipendenti dall’altro: le tue scelte diventano in parte le mie, l’amore e l’amicizia sfumano nel bisogno, la dipendenza affettiva costruisce muri anziché renderci liberi. Dove trovare l’antidoto contro la temporalità dell’esistenza? Non esiste nessuna pietra filosofale, ma Camus insegna che è invece la consapevolezza di fronte alla morte ciò che rende l’uomo assurdo, un uomo sorridente.

Il sorriso che immaginiamo sul volto di Sisifo felice potrebbe essere l’espressione di un presente eterno, quel posto in cui stare al di là del tempo e della mortalità.

 

Greta Esposito

 

NOTE
1-4. Nick Drake – Place to be.

5. Albert Camus, Il Mito di Sisifo, in Opere. Romanzi, racconti, saggi, Bompiani, Milano 1988, pp. 214-215.
6. Nick Drake – Place to be.

 

[Photo credit Aron Visuals]

Si dice famiglia se… Riflessioni su “Shoplifters” di Kore-Eda

«Tutte le famiglie felici si somigliano, ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo»: questo il celebre incipit di Anna Karenina di Lev Tolstoj. E famiglia e felicità sono i due cardini della pellicola premiata con la Palma d’Oro al Festival di Cannes 2018, Shoplifters, in italiano Un affare di famiglia, del regista e sceneggiatore nipponico Hirokazu Kore-Eda.

Un film contraddittorio che lascia lo spettatore inchiodato alla poltrona in balìa di personali analisi freudiane e dilemmi da contratto sociale, un film pervaso dalla grazia, filtrata anche, a tratti, da un disgustoso realismo ‒ come le scene conviviali durante le quali “la nonna” si taglia le unghie e i commensali succhiano rumorosamente forchettate di spaghetti di soia – un film amaro che analizza le disuguaglianze sociali e il conflitto tra legge e natura.

Di cosa parliamo quando parliamo di famiglia? Il nido pascoliano forse, intrecciato di legami viscerali e indissolubili? O la famiglia delineata da Hegel come relazione etica fondata sul matrimonio, la nascita e l’educazione dei figli? Oppure siamo un po’ come L’Étranger di Camus e di Baudelaire e abbiamo altri points de repères, senza padre, madre, sorella, fratello, né amici né patria, amiamo le nuvole che passano, meravigliose, là-bas?

Kore-Eda non sceglie, Kore-Eda mette tutto in discussione giocando con le sfumature e i dettagli – come le bruciature delle braccia della piccola Yuri e di Nobuyo che creano un legame di maternità, come segni del destino – Kore-Eda non propone il conflitto tra leggi della società e leggi di natura in termini manichei ma sconvolge lo spettatore, regala bellezza – come le inquadrature di una giornata trascorsa al mare e la voce di Yuri che chiama “fratellone” Shota che a sua volta sussurra “papà” guardando indietro, verso Osamu, con la mano appoggiata al finestrino dell’autobus diretto verso la famiglia adottiva – e lascia interrogativi: quanto contano i legami di sangue e quelli acquisiti? Come superare un trauma? Che cos’è la genitorialità?

Quello di Kore-Eda non è il Giappone sofisticato dei ciliegi in fiore: come il grande regista Ozu, anche Kore-Eda gira prevalentemente in interno, proponendo, in tal caso, un delicatissimo affresco di una sorta di baracca con del verde attorno circondata dai nuovi e confortevoli complessi residenziali. Centrale, inevitabilmente, l’intimità corporea tra le persone che condividono uno spazio minuscolo dove vivono, mangiano, giocano, fanno l’amore: in un misero tugurio troviamo Osamu, che lavora come operaio a cottimo in un’impresa edile, Nobuyo, dipendente di una lavanderia, l’anziana nonna, che ha la pensione del marito e un provento più o meno lecito, Aki, studentessa e prostituta in un peep-show, Shota, un ragazzino abbandonato in un’auto in un parcheggio e la dolce Yuri, una bimba di cinque anni, denutrita e maltrattata dai veri genitori. Kore-Eda sembra bypassare la dicotomia di Malick, che in The Tree of Life afferma «ci sono due modi di affrontare la vita: lo stato di natura e lo stato di grazia», sperimentando un perfetto e precario equilibrio tra coesione affettiva e devianza dalla norma – almeno comunemente e legalmente ritenuta tale. Dopo il disperato tentativo di seppellire “la nonna” in giardino e un furto commesso da Shota volutamente finito male, è il momento di scontrarsi con la crudele e ferale società. «I figli devono crescere con le mamme»: esclama l’assistente sociale durante l’interrogatorio a Nobuyo, arrestata per sequestro di minore e forse anche per omicidio, insinuando maligna che la giovane donna sia invidiosa perché non può avere figli. E Nobuyo, che ha insegnato l’abbraccio alla piccola Yuri sottraendola ai legittimi genitori violenti e perfidi, risponde sarcastica: «È proprio quello che vogliono credere le mamme». Parallelamente Osamu, che non ha iscritto a scuola e lo ha cresciuto con un amore naturale e istintivo sgravato da obblighi di discendenza, dice che gli ha insegnato a rubare perché non aveva altro da insegnargli. È questo l’acme tragico di un film spiazzante e delicato, come la piccola Yuri, che abbandonata a se stessa, lo sguardo nel vuoto, canticchia una filastrocca insegnatele da Aki, sognando di avere di nuovo una famiglia.

 

Rossella Farnese

 

[Scena tratta dal film]

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La condizione dell’uomo d’oggi in un mosaico: Nietzsche, Heidegger e Camus

La filosofia può essere ancora una bussola per l’uomo d’oggi? Ad opinione di chi scrive certamente sì, anche in questo mondo dove è la scienza a fare la parte del leone – conoscitivamente parlando. Sì, va anche detto che l’opinione di chi scrive sia di parte, perché è innamorato di donna Sophia1. E forse allora, come ogni amante, è cieco circa le reali possibilità della filosofia di condurre l’umanità odierna alla verità. Se è così, bisogna pure dire che sia nell’ottima compagnia di altri non-vedenti come lui: precisamente Nietzsche, Heidegger e Camus, le cui riflessioni possono essere pensate un po’ come le tessere di un mosaico, perché, unite, sembrano mostrare (questa è l’interpretazione di chi scrive, assolutamente opinabile) un’immagine nitida della condizione ontologico-morale dell’uomo odierno. Quale?

Nietzsche innanzitutto, la volontà di potenza: che cos’è? «E questo segreto mi ha raccontato la vita stessa: […] “io sono ciò che deve sempre superare se stessa”. […] Solo dove è vita, là è anche la volontà: ma non la volontà di vita, bensì – così io ti insegno – volontà di potenza!»2. La vita, scrive il filosofo, non è insomma soltanto sinonimo di perpetrazione della specie umana, no, essa è potenza3. Ma non è forse anche libertà? Certo, è volontà di potenza. L’essere umano è in altre parole investito di un’importante missione: continuare a scegliere, ad essere sempre possibilità di nuove decisioni esistenziali. Rimodellarsi perennemente come ente perennemente libero.

Primo tassello del mosaico: l’uomo odierno è quindi, secondo Nietzsche, inesauribile opzione di sé – deve essere ciò. Già, essere: proprio Heidegger si può pensare abbia radicato questa tesi nietzschiana nel terreno dell’ontologia. Negli abissi del nulla.

Il nulla: comprenderne l’analisi heideggeriana è possibile solo stringendo in mano una certa parola-chiave, proiezione. L’uomo «potendo essere […] sta via via in questa o in quella possibilità, e costantemente non è l’altra»4: questo significa proiezione. Vuol dire scegliere per una certa alternativa di vita e consegnarne un’altra compossibile al niente. Fino alla morte. Che l’uomo, appunto, precorre rendendosi conto che essa è «possibile in ogni istante»5. In ogni momento, insomma, essa può far calare la sua falce sulle persone. E, paradossalmente, propria questa è la possibilità umana per antonomasia: morire. Perché se gli uomini possono scegliere di diventare scrittori o agenti assicurativi non lo possono su quando, e se, spirare: la morte mostra a tutti, prima o poi, il suo sorriso di dolore6.

La vita umana pertanto è, secondo Heidegger, intessuta di nulla. E allora: perché vivere un’esistenza simile, niente più che un continuo inanellarsi di scelte dal momento in cui si nasce finché si muore? Precisamente la domanda che si pone l’uomo odierno. Il quale è in cerca del senso. Però che cos’è il senso dell’esistere? La risposta può essere cercata in Camus.

Il senso è il valore, sottolinea il filosofo, e il valore è la ragione della rivolta7. Ma «che cos’è un uomo in rivolta? È un uomo che dice no. […] Qual è il contenuto di questo “no”? Significa, per esempio, “le cose hanno durato troppo”, “fin qui sì, al di là no”. […] Afferma  l’esistenza di una frontiera»8. La rivolta insomma, sostiene Camus, è duplice: significa dire “basta” a qualcosa in nome di “altro”. E l’uomo odierno, nell’ipotesi interpretativa qui tentata, si trova appunto in questa situazione: si rivolta, deve rivoltarsi, in nome di “altro”. Ma contro che cosa rivoltarsi? In nome di che cosa? L’essere umano d’oggi deve rivoltarsi contro il factum stesso di essere un ente finito, che semplicemente nasce, sceglie, e poi muore. E deve farlo proprio per non essere soltanto un ente finito tra gli altri. Deve rivoltarsi per il senso di esistere, che è il valore. L’orizzonte etico delle scelte: ecco la raison d’être della rivolta umana9 contro la propria mera fatticità.

E così il mosaico della condizione ontologico-morale dell’uomo odierno è ora completo: l’essere umano si riscopre un semplice ente finito tra gli altri. Che effettua delle scelte. E che si rivolta contro questa sua condizione fattuale decidendo di donare un senso al suo esistere, di agire secondo valori. Ma quali sono i valori etici che dovrebbero orientare il suo agire?

 

Riccardo Coppola

 

NOTE
1. L’immagine è tratta dall’opera di Boezio De philosophiae consolatione.
2. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, a cura di M. F. Occhipinti, Mondadori, Milano 2016, p. 114.
3. Ibidem.
4. M. Heidegger, Essere e tempo, Mondadori, Milano 2006, p. 803.
5. Ivi, p. 731.
6. Ivi, p. 679.
7. Cfr. A. Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, Milano 2012, p. 26.
8. Ivi, p. 17.
9. Ivi, pp. 19-20.

 

[Photo credits: Ali Inay via Unsplash.com]

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I competenti

Non si può fare politica senza pronunciarsi su questioni che nessun uomo sensato può dire di conoscere. Si deve essere infinitamente stupido o infinitamente ignorante per avere un’opinione sulla maggior parte dei problemi posti dalla politica.

P. Valéry, Des partis

Sono molti i luoghi in cui Galimberti mette in evidenza come, sotto la spinta dell’iperspecializzazione che lo sviluppo della tecnica (mi permetto di specificare, questo sviluppo di questa tecnica) ci richiede, la democrazia sia destinata ad estinguersi per mancanza delle competenze tecniche necessarie per prendere una decisione su uno specifico tema – sicché, le decisioni vengono poi prese con la “pancia” e i politici diventano affabulatori di masse incompetenti (su questo, una scorrevole e affascinante lettura può essere il suo La morte dell’agire e il primato del fare nell’età della tecnica).

Le implicazioni etiche di un simile scenario sono state individuate dalla Arendt nel suo dirompente La banalità del male dove identifica nella specializzazione, e quindi nello specialista (in quel caso, della “soluzione finale”, amministrata come un qualsiasi indifferente atto specialistico: Eichmann), la fine non solo della possibilità di pensare ma anche della facoltà di giudicare, quindi della responsabilità – tema già anticipato nel’44 da Camus (Eichmann in Jerusalem è del ’63), quando nel suo articolo Non tutto si sistema (pubblicato su Lettres françaises, giornale clandestino del Comité national des écrivains, con un certo imbarazzo), imputa al membro del Governo Vichy, Pucheu, un torto che definisce come “mancanza di immaginazione”; tipica, oggi lo si può constatare ancor più di ieri, dello specialista.

Stando così le cose, il problema non risulta superabile né trasformandoci in “tuttologi”, né diventando claustrofobici iperspecialisti. La prima cosa non è, per fortuna, realizzabile. La seconda è antidialettica, perché circoscrive il pensare all’interno di parametri predefiniti, rendendolo quindi nient’altro che una funzione di quei parametri (con tutte le implicazioni e conseguenze culturali, sociali, politiche ed etiche che molti pensatori contemporanei hanno già evidenziato).

Sia chiaro, con questo non voglio dire che lo specialista non abbia diritto di cittadinanza in società: se devo essere operato voglio esserlo da un chirurgo professionista. Sto dicendo invece che non si può assumere il pensiero specialistico come se fosse quello migliore, se non addirittura l’unico, per prendere decisioni – peraltro, senza neanche chiedersi quali siano i fondamenti culturali dello stesso. In parole povere: al mio computer chiedo di navigare su internet, ma non chiedo di dirmi il significato di internet.

Ecco allora la chiave di volta, che stiamo sempre più dimenticando: il significato.

Quando siamo interrogati su questioni su cui non siamo tecnicamente competenti (dalle centrali nucleari, alla ricerca medica, alle trivellazioni petrolifere…), non siamo necessariamente destinati al silenzio, o a dire la prima cosa che ci passa per la testa (questa è la democrazia oggi) o ad una rapida acquisizione di competenze tecniche (cosa impossibile; inoltre l’ostentazione di qualche superficiale competenza ci fa diventare ancor più grotteschi di chi parla senza competenza alcuna). C’è invece un’ulteriore possibilità, a mio modo di vedere, quella sensata: porci un problema di significato. Ovvero, non soffermarsi su misurazioni e calcoli tecnici relativi ad un evento, ma sul significato di quell’evento nel mondo.

Sul significato nessuna misurazione o calcolo può dire qualcosa, dato che un significato non è quantificabile. Le competenze tecniche sono incompetenti in materia di senso. L’incompetente par excellence, dunque, è l’ipercompetente su qualcosa.

Ma in quale luogo del mondo si può oggi apprezzare non una calcolazione tecnica degli eventi ma un’interrogazione del loro significato, se anche l’attività del pensare è nelle università sempre più ridotta ad una misurazione che ne attesti la competenza?

Federico Sollazzo

[Immagine tratta da Google Immagini]

Il pop è morto, viva il pop!

“Sarà una sorta di X Factor delle idee”. Così un politico (in questo momento non importa chi, dato che il fenomeno che vorrei ora descrivere è generalizzato e trasversale, essendo un fenomeno storico-sociale, ovvero di civilizzazione) ha di recente definito un evento pubblico che riguardava il suo partito.
Non che sia vietato fare battute per creare un clima leggero e conviviale. Ma il problema è che c’è battuta e battuta, e che i riferimenti a fenomeni della cultura di massa, oggi più che scherzi sono gli unici riferimenti di cui gran parte della popolazione dispone – politici inclusi ovviamente, che più cercano popolarità e più diventano popolari, in tutti i sensi della parola. Infatti, basta provare a chiedere a qualcuno di rendere lo stesso concetto con un riferimento che non sia tratto dalla cultura di massa e il più delle volte questo qualcuno rimarrà senza parole.

Ora, a scanso di equivoci ripeto che non c’è nulla di male nel riferirsi anche a ciò che è pop, ma, appunto, anche, non solo. E aggiungo inoltre che il riferimento al pop non solo non è demoniaco di per sé, ma è anche doveroso per comprendere appieno il tempo in cui ci è dato vivere. Per stare davvero nel mondo, con tutte le sue bellezze e bruttezze. Come disse una volta l’allenatore José Mourinho “chi sa solo di calcio, non sa nulla di calcio”, e il filosofo Elio Matassi con una indovinata sostituzione di termini cambiò la frase in “chi sa solo di filosofia, non sa nulla di filosofia”. Ed ecco un riuscito esempio di come cultura “bassa” e cultura “alta” possano felicemente incrociarsi – d’altra parte esse hanno molto in comune, è tutto quello che c’è nel mezzo che è medio, nel senso di mediocre.
Tuttavia il problema oggi è che, in primo luogo, avere a che fare con il pop non significa avere a che fare con una cultura bassa in quanto priva di riferimenti forbiti ma ricca di saggezza di vita, bensì con quella medietà (Heidegger) di cui sopra, e in secondo luogo, che la relazione che viene istituita con quella medietà pop non è un’analisi critica della stessa, bensì un lasciarsene travolgere, divenendone collusi (tanto più, quanto più si è inconsapevoli di ciò o si ritiene di essere esenti da una simile problematica) e contribuendo così al suo ulteriore dilagare.

Tornando all’inizio, il fenomeno di quella che propongo allora di definire pop-politica, è quindi dovuto al fatto che viviamo nell’epoca della pop-cultura.
A proposito di quest’ultima, la pop-cultura, oggi si sente dire spesso che portare almeno una briciola di alta cultura in un contesto pop (ad esempio un reality show o un social network) è un primo passo per migliorare quel contesto e così tutti quelli che vi entrano in contatto. Ma è veramente così semplice e lineare la cosa?

McLuhan ha sostenuto che “il medium è il messaggio”, volendo intendere che il significato di un qualcosa non è nella qualità di ciò che viene detto ma nelle circostanze in cui viene detto. Le circostanze, cioè, determinano il significato. Similmente a quanto, per altre vie, riscontravano Camus e Pasolini a proposito dell’influenza delle circostanze ambientali sulla vita (in primis, la natura, per il francese, e una certa urbanizzazione, quella borghese, per l’italiano). In altre parole, il significato non è nel detto ma, al contrario, nel non detto, ovvero nelle condizioni che permettono e supportano il dire, senza a loro volta essere dette, bensì percepite. Si può quindi affermare che il significato non si manifesta dicendolo, cosa impossibile, ma percependolo.
Bene, se questo è vero, allora possiamo introdurre in un contesto pop anche Platone in persona, ma quello che ne risulterà non sarà un’elevazione di quel contesto ma, esattamente al contrario, l’assorbimento di un qualcosa di valore all’interno del reame dell’insignificanza, o meglio, della banalità, della mediocrità, della medietà.

Ecco perché non si può fare cultura sempre e ovunque. Ecco perché per dedicarsi alla cultura servono tempi, luoghi, circostanze adatte. Ecco perché, di riflesso, esistono circostanze che non sono semplicemente non-culturali, ma assolutamente anti-culturali.
Ma attenzione alle generalizzazioni. Questo non significa che allora sia sempre da evitare lo stare in un contesto pop (anche il sottoscritto usa, almeno al momento, i social). Ma bisogna starci cum grano salis. Ovvero, dismettendo l’autoinganno a proposito del fatto che sia possibile portare e fare cultura in un contesto anti-culturale – prospettiva, per altro, autoritaria (pastorale nel senso foucaultiano), di chi ritiene di portare un valore al quale il prossimo dovrebbe conformarsi e ringraziare per il lume portatogli –, accettando il dazio di esserne assorbiti per cercare di comprenderlo e, se si è fortunati, trovare dei compagni di sventura. Ovviamente, il tutto fino al limite che la nostra sensibilità personale sopporta (che ultimamente mi sembra si stia adeguando a tutto), quel limite che ci fa dire: oltre quella soglia, no.

Federico Sollazzo

[Immagine: Google Immagini]

Io e l’eterno

  1. Quand je considère la petite durée de la vie, absorbée dans l’éternité précédente et suivante, le petit espace que je remplis, et même que je vois, abimé dans l’infinie immensité des espaces que j’ignore et qui m’ignorent, je m’effraie et m’étonne de me voir ici plutôt que là, car il n’y a point de raison pourquoi ici plutôt que là, pourquoi à présent plutôt que lors. Qui m’y a mis ? Par l’ordre et la conduite de qui ce lieu et ce temps a-t-il été destiné à moi ?[1]

[Trad. 88. : Quando considero la breve durata della mia vita, assorbita nell’eternità che la precede e la segue, il piccolo spazio che riempio e che vedo, inabissato nell’infinita immensità degli spazi che ignoro e che mi ignorano, io mi spavento e mi stupisco di vedermi qui piuttosto che là, perché non vi è motivo perché qui piuttosto che là, perché ora piuttosto che allora. Chi mi ci ha messo? Per ordine e per opera di chi mi è stato destinato questo luogo e questo tempo?].

     Pensieri, B. Pascal

È forse la percezione della propria piccolezza a spaventare l’essere umano? In quali termini si può parlare ancora oggi di un rapporto travagliato tra l’uomo e l’eterno?

Anche se le belle parole Pascal potrebbero, dopo una prima lettura, sembrare molto lontane dal nostro vivere quotidiano, quella che questo pensatore ci sta offrendo – e proprio per questo lo ritengo molto attuale – è una chiave di lettura che apre poeticamente spiragli di verità che aiutano a individuare e tradurre, per poi infine analizzare, alcuni meccanismi che si sono innestati nel pensiero contemporaneo, quali ad esempio l’ossessione rispetto alle proprie performances professionali oppure, più in generale, un delirio di onnipotenza dilagante. Meccanismi che fungono da armi con le quali proteggersi rispetto all’impotenza di ciascuno nei confronti di tutto ciò che sfugge al controllo: l’”eterno” dei giorni nostri.

Tant’è vero che, se abbandoniamo per un attimo quelle maschere fatte di sicurezza e determinazione che ci ossessionano fino a rincorrere la perfezione ideale e ci lasciamo andare alla trasparenza del nostro essere, ci rendiamo che ogni giorno siamo chiamati a fare i conti con tutti i limiti che segnano la nostra finitudine.

E allora anche noi ci spaventiamo, una volta presa consapevolezza del silenzio eterno di questi spazi infiniti[2], riprendendo un’espressione utilizzata da Pascal qualche riga più in basso.

Ma da quale infinito veniamo turbati oggi?

Qu’est-ce qu’un homme dans l’infini?[3]

Che cos’è dunque l’uomo rispetto all’infinito?

Qu’est-ce que l’homme dans la nature?Un néant à l’égard de l’infini, un tout à l’égard du néant, un milieu entre rien et tout[4].

Che cos’è l’uomo nella natura?Un nulla in confronto con l’infinito, un tutto in confronto al nulla, qualcosa di mezzo tra il nulla e il tutto.

 

L’estrema fragilità dell’essere umano non può essere celata nel momento in cui a entrare in conflitto in un polemos senza sosta sono da un lato, il desiderio dell’individuo di eccedere e sconfiggere i propri limiti, assecondando il desiderio, e dall’altro, l’accettazione dell’impossibilità di poter fare tutto e di ottenere tutto ciò che scaturisce da questa spinta a noi interna che non trova mai un oggetto di soddisfacimento definitivo. Si desidera tutto, dunque. E si desidera tutto poiché siamo naturalmente tendenti ad assecondare il principio di piacere che pulsa in noi e che ci chiama all’esperienza di forti sentimenti di piacere. Tuttavia, come sostiene Freud in Malaise dans la civilisation[5] (Titolo della traduzione italiana, “Disagio nella civiltà”), “nos possibilités de bonheur sont déjà limitées par notre constitution. Il y a beaucoup moins de difficultés à faire l’expérience du malheur”, (“Le nostre possibilità di essere felici sono già limitate dalla nostra costituzione. C’è molta meno difficoltà nell’avere esperienza del male.”).

Ciò che ci ostacola quindi è quel principio di realtà, Thanatos, che costituisce la natura dell’esistenza umana e che definendoci come esseri finiti e limitati, ci impedisce di rincorrere quell’aspirato desiderio di tutto, facendo diventare sempre più fioca la candela accesa dalla forza di Eros.

È la realtà, in altre parole la nostra “costituzione” riprendendo le parole di Freud, che ci spinge a fare i conti con noi stessi. Che ci invita a lasciare andare ciò che ci sfuggirà per sempre. Ad accettare quel caos che c’è dentro di noi e l’irrazionale che è presente al di fuori e che non potremmo mai gestire. Arrendendoci e accettandolo. Accogliendolo a braccia aperte.

 

Nella fattispecie e sul piano dell’intelligenza, posso dunque dire che l’Assurdo non è nell’uomo (se una simile metafora potesse avere un senso), e neppure nel mondo, ma nella loro comune presenza. Per il momento, è il solo legame che li unisca.[…]La singolare trinità che si mette, in tal modo, in luce, […]ha di comune con i dati dell’esperienza di essere insieme infinitamente semplice e infinitamente complessa.[…] Distruggere uno dei termini, è distruggerla interamente. Non può esistere assurdo al di fuori dello spirito umano. Così l’assurdo finisce, come tutte le cose, con la morte[6].

 

A. CAMUS, Il mito di Sisifo

Sara Roggi

[Immagini tratte da Google Images]

[1] B. PASCAL, Pensieri, Bompiani, traduzione di Adriano Bausola, Milano, 2009, p. 74.

[2] Ibidem. [91. Le silence éternel de ces espaces infinis m’effraie.].

[3] Ibidem, p. 84.

[4] Ibidem

[5] S. FREUD, Le malaise dans la civilisation, p.64, Editions Points, Paris, 2010.

[6] A. CAMUS, Il mito di Sisifo, p. 31, Bompiani, Milano, 2013.