Odi et amo – Dirige Kobe Bryant

«Odio e amo. Per quale motivo io lo faccia, forse ti chiederai.
Non lo so, ma sento che accade, e mi tormento».

Catullo, carme 85

Avevo già pronto un articolo con un’altra storia quando, alle 17 e 24 ora italiana del 13 aprile, ma più precisamente le 8 e 24 (i numeri sono importanti) di Los Angeles, California, una nota azienda di scarpe ha lanciato un bellissimo spot per celebrare il Kobe Day, ovvero il giorno dell’ultima partita della carriera di Kobe Bryant. E lì ho collegato. Nonostante sia un mediocre conoscitore di Catullo e un appassionato di basket solo da qualche anno quelle parole mi suonavano: l’odio e l’amore a volte sono le due facce della stessa medaglia, e nel caso di Kobe Bryant non c’è alcun dubbio.

Il video si intitola The Conductor, andate a vederlo ne vale la pena, e mostra Kobe Bryant nella parte di se stesso segnare un canestro allo scadere e successivamente venire fischiato e insultato (“You suck” – fai schifo) dai tifosi avversari. Buio. Qui Kobe inizia a dirigere un coro di tifosi, suoi celebri avversari – Paul Pierce e Rasheed Wallace -, allenatori (Phil Jackson) e telecronisti che gli cantano per l’ultima volta quanto l’hanno odiato e contemporaneamente gli dimostrano il loro rispetto. Lui sorride sornione, si gira, il 24 sulla schiena, tunnel degli spogliatoi. Buio di nuovo. Qualche lacrima.

Ma perché tutto questo? Perché questo astio e allo stesso tempo questa reverenza e ammirazione? Per chi non lo sapesse, Kobe Bryant, nato a Philadelphia, un’adolescenza in Italia e 20 stagioni a calcare i parquet dell’NBA, è stato “solo” uno dei giocatori più influenti di sempre, forse il più forte del dopo Micheal Jordan, e uno dei più vincenti: cinque titoli di campione NBA portati a casa oltre a vari premi individuali. Tutto ciò giocando esclusivamente con la maglia giallo-viola dei Los Angeles Lakers, indossando prima il numero 8 e poi il 24: eccoli qui i famosi numeri. Una bandiera si direbbe nella calciofila Italia, pensando a Totti, Maldini o Del Piero. Tra le altre cose le 20 stagioni giocate con una singola squadra sono un record, uno dei tanti che detiene.
È ancora, “solo”, il terzo miglior realizzatore di punti di ogni epoca, il secondo per punti segnati in una singola partita, 81, il giocatore con la striscia più lunga di convocazioni all’All Star Game, e molte, davvero molte, altre cose.

Si può quindi cominciare ad avere un’idea del perché è stato così odiato, dove odio è ovviamente un’iperbole fuori contesto per dire non apprezzato, proprio perché troppo forte e arrogante. Perché non ha mai fatto niente per farsi amare da quelli che non erano suoi tifosi o che non lo amavano di primo acchito. Ha fatto piangere i supporters di tutte le squadre e ha sempre cercato e trovato rivalità ovunque andasse. Non ha mai pensato di essere inferiore a nessuno e per questo non è sceso a compromessi, con avversari e persino compagni di squadra. L’odio e l’amore sono due emozioni legate a personalità forti e carismatiche e hanno ben poco di razionale, e il caso di Bryant ne è un esempio. Tanto che sappiamo che questa girandola di sentimenti si è manifestata anche nei suoi più stretti rapporti familiari.

Se poi a questa personalità ingombrante ci aggiungiamo una notevole componente maniacale e ossessiva abbiamo gli ingredienti per un uomo e un giocatore che passano una volta ogni tanto, per usare un candido eufemismo. Proprio per questa sua volontà di potenza e ricerca della perfezione si è scontrato con tutti, dagli allenatori ai compagni, ma sono le stesse cose che alla lunga lo hanno consacrato e fatto diventare una leggenda della pallacanestro.

Per questo dal giorno dell’annuncio del suo ritiro a fine stagione ogni partita è diventata un piccolo tassello di un lungo addio. Kobe ha deciso di assaporare ogni singolo secondo che gli rimaneva da giocare e lo ha fatto godere, in questo modo, anche a tutti gli amanti del gioco.

Il calcio è di chi lo ama, diceva una pubblicità. Il basket pure, e Kobe lo ha amato come nessun altro negli ultimi vent’anni e a questo si devono tutte le manifestazioni di affetto degli ultimi mesi. Una Lega intera gli ha dato il tributo che meritava e soprattutto negli ultimi giorni si sono sprecati ringraziamenti e parole di stima da parte dei più grandi, Magic Johnson in testa, che ha scritto che non ci sarà mai più un altro Kobe.

Il senso del video, che riassume la carriera del Bryant giocatore in un minuto e mezzo, è proprio questo: in molti l’avete odiato, fischiato, insultato, ma finirete tutti per amarlo. È infatti impossibile per un appassionato di basket o di sport in generale rimanere indifferente a tanta passione e dedizione, che Kobe stesso ha spiegato nella sua commovente lettera d’addio al basket giocato, dal titolo Dear Basket.

Odio e amo, scrisse Catullo, ho odiato e ho amato possono dire molti appassionati che hanno seguito le gesta di Bryant. Quale sentimento prevalga in questo laborioso travaglio sta ad ognuno deciderlo, intanto il direttore d’orchestra si gode la scena.

P.S. Kobe Bryant nella notte ha deciso di salutare tutti segnando 60 punti nella sua ultima partita, ritoccando, ancora una volta, qualche record.

Tommaso Meo

[Immagine tratta da Google Immagini]

La disumanizzazione ieri e oggi

Lunedì sono andato al cinema: “Race – il colore della vittoria”. Parla delle vicende di J. Owens, corridore afroamericano che partecipò ai giochi olimpici del 1936 a Berlino sotto il regime Nazista. Vinse quattro medaglie d’oro e diventò un simbolo della lotta alle ideologie razziste dell’Hitlerismo ma anche interne agli USA. La storia è molto curiosa e ricca di spunti interessanti; tra questi, uno che mi ha colpito e fatto riflettere è il processo di disumanizzazione perpetrato dal Nazismo che tanto sconvolge e del quale non si parlerà mai abbastanza.

La riflessione di H. Arendt nell’opera “La banalità del male – Eichmann a Gerusalemme” punta l’attenzione anche su questo aspetto. È una delle possibilità più spaventose che l’uomo possa produrre: com’è possibile che si possa considerare un’altra persona non umana? Perché è proprio questo che permetteva ai nazisti di compiere i loro crimini. Non stavano uccidendo una persona, ma un animale. Non stavano eliminando delle vite, ma liberando il Paese da un’infestazione. Non stavano compiendo sperimentazioni contro qualsiasi etica o diritto, perché i pazienti non erano degli uomini.

Cosa avremmo fatto noi in quegli anni se ci fossimo trovati immersi in quel clima?

Avremmo osato morire per difendere una persona che magari neanche conoscevamo e che sarebbe comunque stata uccisa dopo di noi?

Avremmo rischiato la morte per proteggere degli sconosciuti invece di incassare una ricompensa per la loro denuncia?

Insomma: ci saremmo fatti anche noi contagiare dalla banalità del male, che permette di mettersi il cuore in pace spegnendo il cervello?

Eichmann, infatti, ha introdotto il pericolo dell’irriflessività: una massa di uomini normali – la stessa Arendt definisce così Eichmann quando lo vede e lo ascolta a Gerusalemme – che compivano azioni mostruose. È il trionfo della follia, spacciata per legge e “giustizia”. Il contesto ideologico all’interno del quali si era inseriti conferiva agli uomini nuove categorie di interpretazione del reale. Un gesto che prima poteva ripugnare diventava semplice e normale – anzi – forse addirittura doveroso.

Non è un discorso astratto, perché la situazione si sta ricreando – per alcuni già ha preso il sopravvento – proprio qui, in Italia. Certo, magari sono cambiati i toni (basta fare un giro su Facebook per rendersi conto che non è proprio così); forse il risultato che si vuole ottenere è diverso (idem); potrebbe darsi che questa volta si risparmino almeno i bambini (l’immagine di quel corpicino disteso inerme sulla spiaggia dovrebbe essere ancora fresca nelle nostre menti), ma il bersaglio rimane sempre lo stesso: un capro espiatorio che incarni tutti i problemi del Paese e contro il quale scagliarsi sottraendogli lo statuto di persona. La crisi migratoria ha messo in luce le reali difficoltà dell’Unione Europea nel corso degli anni, e l’accordo con la Turchia entrato in vigore il 4 Aprile ne ha sancito il fallimento. Come si può pensare che il rimpatrio in Turchia sia una scelta corretta e soprattutto etica nei confronti dei profughi? In ogni caso, la chiusura della rotta Balcanica ha riportato l’Italia a meta privilegiata di chi fugge, complicando ancora di più la nostra già precaria situazione.

I numeri dell’ondata sono impressionanti: secondo l’Unhcr – l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati – nei primi tre mesi del 2016 in Italia sono arrivate 18.400 persone. Nel 2014 l’Is ha incassato circa trecento milioni di dollari dal traffico di esseri umani secondo un rapporto della Global iniziative against trasnational organized crime. Tom Keatinge del Royal united services institute afferma – però – che “non è l’Is a gestire il traffico, ma tassa chi lo fa”. «Più che la minaccia del gruppo Stato islamico, l’impegno del governo italiano è dovuto all’urgenza di fermare i migranti e tutelare l’interesse dell’Eni» queste le parole di Alberto Mucci, ripreso dal settimanale “Internazionale” riguardo all’impegno italiano in Libia. Il petrolio. Sembra inconcepibile che di fronte alla tragedia che si sta compiendo anche in questo preciso istante l’interesse sia rivolto a quel maledetto liquido nero. Eppure «[…] in Libia l’Italia ha già grandi interessi. L’Eni ha quasi un monopolio sul settore petrolifero libico: è presente nel paese dal 1959 ed è l’unica azienda internazionale a operare a pieno regime. La sua presenza in Libia ha un’importanza strategica vitale per l’Italia e, nonostante gli enormi costi per la sicurezza, è forse il principale motivo degli sforzi di Roma per pacificare il paese nordafricano, con o senza alleati. […]»: sempre parole di Mucci.

Finché l’Europa non vorrà prendere a cuore la questione in modo serio, le morti in mare continueranno e gli sbarchi aumenteranno. Ma se gli interessi principali rimangono il petrolio ed il denaro proveniente dal traffico di esseri umani invece che salvaguardare le loro vite mi viene da pensare che questo non costituisca un problema. Dobbiamo renderci conto che la disumanizzazione dei profughi è già in atto. Una differenza rispetto al passato però è individuabile: per non vedere ciò che sta succedendo non li identifichiamo come animali senza diritti come facevano i Nazisti, semplicemente facciamo finta che il loro sangue in mare sia azzurro, in modo che non ci guasti il panorama.

Massimiliano Mattiuzzo