Il sogno di un viandante: Sbarbaro e il cammino esistenziale

Se osserviamo con attenzione le opere pittoriche del Novecento, leggiamo una raccolta di poesie dello stesso periodo o un romanzo che narra le vicende del secolo, possiamo notare come tra le immagini, spesso compare un leit motiv: la figura di un uomo che cammina per le vie cittadine, di un personaggio colto nell’atto di spostarsi o di un viandante che si riversa tra la folla.

Si tratta di raffigurazioni che hanno fatto strada, diventando metafora di una condizione esistenziale: la vita come un viaggio, un percorso in cui l’uomo si trova a dover muovere dei passi, sicuri o incerti, soli o in compagnia. In fondo che cosa significa vivere se non viaggiare? Che si tratti di un viaggio fisico o mentale, l’uomo da sempre è spinto per propria natura al dinamismo, a percorrere vie che lo conducono a successi ed insuccessi, sperimentando strade sempre nuove.

Camillo Sbarbaro, in linea con le tendenze del secolo, rende il viandante, l’uomo camminatore, il protagonista della sua raccolta Pianissimo, rappresentando un personaggio che si muove, nel mentre si trova a riflettere sui profondi significati dell’esistenza: il dolore, l’amore, la solitudine, la vecchiaia.

«M’incammino/pei lastrici sonori nella notte./ Non ho rimorso e turbamento»1. L’io poetico vaga, va oltre le case, gli alberi, la folla, si insinua nelle vie più oscure e dimenticate della città, senza trovare una meta precisa al suo viaggio, quasi fosse un ubriaco che non conosce il fine dei suoi passi. L’uomo di Sbarbaro è un uomo privo di punti di riferimento, la vita lo sovrasta, non è lui a guidare il timone della sua nave, ma si lascia trasportare dalla realtà, dalle cose, spesso si trova in difficoltà lungo il percorso, è costretto ad affrontare l’aridità del vivere. Si tratta di una chiara metafora esistenziale, non molto distante dall’immagine che altri poeti, come Leopardi, ci hanno trasmesso nella storia della letteratura.

Ciò che Sbarbaro ricorda ai suoi lettori è la condizione di ognuno di noi: sempre in cammino, spesso travagliati da una serie di dolori, inconsapevoli di dove voltarsi o dove recarsi.

Quante volte ci sentiamo anche noi «come una nave senz’ancora né vela che abbandona la sua carcassa all’onda?» Quante perdiamo i punti di riferimento a noi consueti e vaghiamo come sonnambuli «sull’orlo di un burrone» senza nemmeno accorgerci dove ci troviamo?

Proprio queste situazioni sono, secondo il poeta, l’essenza del nostro vivere, lo spazio di tempo in cui alterniamo sonno e veglia, due condizioni che talvolta si mescolano tra loro, quasi a dire che

l’uomo non vive appieno la realtà, ma spesso non si accorge di vivere.

«Sempre assorto in me stesso e nel mio mondo/come in sonno tra gli uomini mi muovo./ Di chi m’urta col braccio non mi accorgo»dichiarava l’io poetico, come se la meraviglia di scoprire la realtà fosse venuta meno, lasciandolo in uno stato di perenne torpore.

Si tratta di una condizione che spesso coinvolge anche i più attenti, tanto la nostra quotidianità ci spinge a camminare velocemente, incrociando le persone senza assaporare il loro carattere o la loro personalità.

Tuttavia, come capita talvolta in alcune narrazioni poetiche e non, anche la figura umana può in qualche modo trovare una forma di riscatto, in alcuni sentimenti eterni quali l’amore per la famiglia, il radicamento alla terra, la condivisione.

«Forse un giorno sorella noi potremo/ ritirarci sui monti, in una casa/ dove passare il resto della  vita./Sarà il padre con noi se anche morto»diceva Sbarbaro, quasi sognando un nuovo incontro familiare.

In conclusione dal libro Pianissimo emergono due importanti verità: l’uomo contemporaneo tende a muoversi con velocità tra gli spazi del reale, spesso inconsapevole di se stesso; contemporaneamente, in questo viaggio verso una meta sconosciuta, è possibile amare ed essere amati, riscoprire la natura, il legame profondo che abbiamo con le nostre origini.

 

Anna Tieppo

 

NOTE:
1. C. Sbarbaro, Pianissimo, a cura di Lorenzo Polato, Marsilio, Venezia 2001, p. 45.
2. Ivi, p. 60.
3. Ivi, p. 63.

 

[immagine tratta da google immagini]

 

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Lettera ad una persona in crisi con se stessa (e 5 consigli per affrontarla)

Ti scrivo per condividere qualcosa che non trovi negli articoletti o nei meme online, né in un video su Facebook o YouTube. Perché solitamente le cose dette online sono “solo” il risultato del successo di chi le dice. Sono la parte bella, motivante, quella che ti carica e ti fa sembrare tutto facile. Le parole di chi è già arrivato in cima, e dall’alto della scalata si mette a pontificare su cosa fare quando si è a terra o a metà percorso.
Io ti scrivo perché sono ancora in cammino. Sono praticamente al tuo fianco. Rispetto a qualcuno sarò più avanti, rispetto ad altri sono più indietro.

Ti scrivo perché a un certo punto ci si sente catapultati nel mondo, quello “vero”. Non quello in cui avevamo le spalle coperte dalla famiglia, dagli amici, dalle proprie certezze intramontabili. A un certo punto invece si sente di essere soli e di doversela cavare in qualche modo. Ci si sente in ansia perché si vuol fare la scelta giusta, ma in fondo sappiamo che la scelta giusta non esiste. Quello che si viveva prima era un po’ come la caverna di Platone: guardavamo il mondo esterno soltanto dalle ombre della vita proiettate all’interno.

Ma adesso sei uscito e di certo ti sentirai accecato, spossato, insicuro. Lo sono anch’io, non sei solo. Ti tremeranno la voce e le gambe di fronte ai datori di lavoro, ai professori universitari, alle nuove persone che conoscerai. Ti sentirai impreparato su tutto e ti chiederai perché nessuno ti ha mai detto che fuori era così.

Ma rimani affamato, è la fame a farti fare la differenza, a farti fare un passo oltre questo imbarazzo. Non le storie che racconti in un curriculum, non i titoli di studio che puoi accumulare a suon di bei voti o di risultati risicati. E questo era il primo consiglio.
Se mi chiedi perché ti do dei consigli, ti rispondo che lo faccio per darli anche a me stesso. Perché sto vedendo in questi anni cosa funziona, cosa mi fa andare avanti e cosa fa ottenere risultati a quelli che sono in viaggio come noi.
E ora sotto con il secondo: raccogli tutte le esperienze della tua vita, le tue passioni, il tempo che hai passato a giocare e scherzare, a scarabocchiare sui quaderni mentre un professore spiegava o quello che hai fatto passare in un luogo di lavoro che non faceva per te. Raccogli tutti i pensieri che hai fatto, le tappe per cui sei passato, anche quelle forzate, quelle inutili, quelle fatte per cause di forza maggiore. Lì troverai la diversità rispetto agli altri. La tua storia rimane unica. Punta sulla creazione di una personalità complessa, sfaccettata, multiforme.

E quindi per farlo (terzo punto) hai bisogno di rimanere attivo su più fronti. Fa’ più cose possibili, finché ne hai il tempo, la forza. Così avrai più frecce al tuo arco tra qualche tempo, avrai più idee e contaminazioni da ambiti diversi. Se invece attingi da un solo pozzo, l’acqua si sporca, con tutti quelli che si vogliono dissetare assieme a te. Varia, continua a variare i tuoi input.

E quando dovrai raccogliere i frutti del tuo percorso, impara a raccontarlo. Quarto punto. Non basta averlo fatto, non è sufficiente averlo dentro di sé e sentirsi pienamente consapevoli. Occorre saperlo trasmettere agli altri, destare curiosità e interesse nell’interlocutore. Bisogna saper far vedere all’altro quello che abbiamo imparato e fargli capire perché siamo gli unici ad averlo fatto, ad essere diventati così.

Non sarà tutto fluido, non basterà arrivare a questi risultati per ottenere qualcosa di soddisfacente e piacevole. Nel frattempo dovrai imparare a ingoiare rospi, a subire ingiustizie, a non mostrarti mai stanco o deluso. Sfogati solo in intimità, quando l’occhio del grande fratello e di chi ti giudica non ti sta fissando. Ricarica le tue energie con gli amici e le persone di valore che non ti valutano solo per quello che mostri, ma che ti accolgono anche per la fatica e gli sbagli che stai facendo e che continuerai a fare. Circondati di un piccolo esercito di sostenitori. Era il quinto e ultimo punto.

Adesso alzati, lo so che ti sei accasciato fuori dalla caverna e ci vorresti rientrare. Invece puoi soltanto andare avanti, uscire a procacciarti il cibo che preferisci e a realizzare il tuo Valore Umano.

Alziamoci assieme, sono qui a fianco a te, d’altronde siamo entrambi in cammino.

 

Giacomo Dall’Ava

 

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Uomo a che punto sei? La risposta di Martin Buber

«Cominciare da se stessi: ecco l’unica cosa che conta».
Martin Buber

 

Un piccolo libricino accompagna da diversi anni la mia quotidiana ricerca filosofica e psicologica intorno all’uomo. Si tratta de Il cammino dell’uomo. Un’opera molto breve ma al contempo di rara profondità, frutto di una conferenza che il filosofo austriaco Martin Buber tenne a Bentveld nel 1947 e pubblicata con questo titolo, che esprime benissimo un esito importantissimo della ricerca che il filosofo condusse sull’uomo e la sua educazione nel corso dei propri studi.

Il libro muove dalla domanda che nel Genesi (3,9) Dio rivolge all’uomo: “Dove sei?”. Questo interrogativo, alle radici della sapienza giudaico-cristiana e della nostra cultura in generale, si riallaccia perfettamente al domandare filosofico. Socrate infatti, alle origini della filosofia, incalzava l’uomo, proprio l’uomo, affinché vivesse con consapevolezza la propria esistenza, ricercando incessantemente il bene, la giustizia, la verità. Nel testo biblico, dopo aver mangiato insieme ad Eva il frutto che Dio aveva proibito, Adamo si era nascosto, prima che agli occhi di Dio, ai suoi stessi occhi. È lì che la domanda “Uomo, dove sei?”, si fa urgente e vitale, richiama l’uomo alla responsabilità verso se stesso e verso la verità. Un uomo che si nasconde perde il rispetto per se stesso e ferma il proprio cammino, la propria crescita, scivolando inevitabilmente verso la falsità. Proprio da questa domanda il filosofo austriaco, naturalizzato israeliano, ritiene che l’uomo debba ripartire per la sua crescita, per il cambiamento, verso l’autenticità, verso la parte migliore di se stesso.

La vita va dunque intesa come un cammino, che inizia quando l’uomo si lascia colpire intimamente dalla domanda “dove sei?”, cioè “a che punto sei nella tua vita?”, “come stai con te stesso?”, “cosa stai facendo della tua esistenza?”. La vita dell’uomo rimane immobile, priva di un cammino, finché egli non affronta queste domande, non sceglie di mettersi in discussione e ripartire. Il cammino inizia proprio da se stessi, da un’indagine profonda della propria interiorità, pertanto «Il ritorno decisivo a se stessi – scrive Buber – è nella vita dell’uomo l’inizio del cammino, il sempre nuovo inizio del cammino» (M. Buber, Il cammino dell’uomo, 1990).
Non c’è un’unica via, ve ne sono molteplici, tante quanti sono i singoli uomini. Ognuno è tenuto ad intraprendere il cammino irripetibile, alla ricerca del suo sé autentico, nel quale sono presenti bellezza e verità. Ciascun uomo è diverso, unico per essenza. Così, altrettanto irripetibile dev’essere ciò che porta a compimento nel lavoro, nell’amore, nell’atteggiamento verso l’esistenza. Afferma Buber:

«È infatti la diversità degli uomini, la differenziazione delle loro qualità e delle loro tendenze che costituisce la grande risorsa del genere umano» (ibidem).

Solo facendosi interpellare dalla domanda posta alle origini della nostra cultura è possibile conoscere il proprio compito e rendere generativa quella differenza, prospera quell’alterità, che vince il conformismo contemporaneo (tutti fanno ciò che fanno gli altri e vogliono ciò che vogliono gli altri) che appiattisce le esistenze all’omologazione di massa e che inibisce la ricchezza unica e differente di ciascun singolo. Invece:

«ciò che è prezioso dentro di sé, l’uomo può scoprirlo solo se coglie veramente il proprio sentimento più profondo, il proprio desiderio fondamentale, ciò che muove l’aspetto più intimo del proprio essere» (ibidem).

Il fondamentale ritorno a se stessi non conduce ad una chiusura solipsistica, ma è la condizione necessaria affinché ci si possa aprire all’incontro con gli altri uomini e la realtà esterna, con maggiore consapevolezza, profondità e fecondità. Per questo Buber precisa:

«cominciare da se stessi, ma non finire con se stessi; prendersi come punto di partenza, ma non come meta» (ibidem).

Il tesoro è già nella nostra esistenza quotidiana, è da sempre presente, lo possiamo scoprire solo qualora riprendiamo il cammino verso una vita ricca di significato. E la vita la possiamo inondare di senso solo se portiamo a termine l’opera che ci spetta, il compito che abbiamo scoperto appartenerci, rispondendo alla domanda “uomo, dove sei rispetto a te stesso e alla responsabilità verso il tuo desiderio?”.
Nell’inconsapevolezza e nella superficialità dilagante dell’esistere contemporaneo, quest’opera, che occupa uno spazio fisico così limitato, è una sorgente inesauribile di luce per mente e cuore ed ha un inestimabile valore educativo. Essa è la dimostrazione di come la parola filosofica sia parola pedagogica che s’innesta in maniera decisiva nell’esistenza di ciascuno, apportando un cambiamento positivo in chiunque si accosti ad essa. La riflessione di Buber, infatti, esorta l’uomo a prendersi per mano, a fermarsi per ripartire, comprendendo dov’è, per scoprire il proprio desiderio, il solo che può animare la vita sino all’ultimo respiro, perché è la via del cammino che ci corrisponde, è la scoperta del posto che noi, e nessun altro, possiamo occupare nel mondo. È la sola, possibile risposta alla domanda “Uomo, dove sei?”.

 

Alessandro Tonon

 

[Photo credit Giulia Bertelli via Unsplash]

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“E quindi uscimmo a riveder le stelle”

Oh rete d’astri, quanta meraviglia,
contro cui il guardo uccellino s’impiglia,
mi sono fatto ardito matematico
(e astrologo e filosofo astigmatico)
pur di cader nel fosso tenebroso

Pier Franco Uliana
Siderea arx mundi, De Bastiani, 2009.

Non so se sia stata la somma di una serie di casualità o una prolifica congiunzione degli astri che mi ha portata ultimamente a riflettere sul cosmo. C’è da dire anche che i fisici di questi tempi vanno di moda ed emerge un rinnovato interesse verso la ricerca e la scienza, la quale a sua volta si dimostra sempre più generosa nell’offrirci risposte o almeno nell’indirizzare le domande giuste.
Dopo la stimolante lettura delle Sette brevi lezioni di fisica (Adelphi, 2014) di Carlo Rovelli – un prezioso libricino in grado di affascinare astrofili e non – e con la scusa di mettere alla prova tecnicamente la mia nuova macchina fotografica, mi ero decisa a fotografare le stelle, integrando il mio consueto peregrinaggio estivo con mete segnalate, dagli enti promotori del cosiddetto “turismo astronomico”, come buoni punti di osservazione.

Guardare il cielo stellato per distrarsi dalle brutture del mondo o per perdersi nella meraviglia dell’infinito è una possibile chiave di lettura, ma la sete di sapere è la più grande virtù dell’uomo e le stelle rappresentano le muse – in apparenza immobili e silenziose – che accompagnano colui che è desideroso di conoscere.
Esplorando gli astri l’umanità ha iniziato a smarrirsi rendendosi consapevole della sua piccolezza. Il dominio della tecnologia è solo l’illusione di avere ancora una posizione centrale nell’universo, ma d’altra parte i progressi della scienza non fanno che rimarcare la nostra imperfezione e impotenza.
Cercando di superare questa sua condizione fragile e mortale, l’uomo ha dato origine alla filosofia, alla religione e all’arte.
Ma forse è proprio questa imperfezione che ci fa sentire più vicini al cosmo e tutt’uno con l’universo, concetto che il fisico Guido Tonelli – protagonista insieme a Fabiola Gianotti della scoperta del bosone di Higgs – spiega nel suo illuminante libro La nascita imperfetta delle cose (Rizzoli, 2016): ­«la forma delle cose nasce dall’imperfezione che ha rotto la simmetria delle origini». Da questo minuscolo difetto abbiamo avuto inizio anche noi.

Se però analizziamo da un punto di vista etimologico la parola cosmo, vediamo come non ci sia nessun riferimento all’imperfezione, anzi, essa deriva dal greco κόσμος (kósmos) che significa “ordine”; la filosofia stessa è nata con la cosmologia (kósmos e lógos, quindi discorso sull’ordine) nel tentativo di decifrare l’armonia del reale.
C’è voluto parecchio tempo perché il pensiero umano imparasse ad apprezzare anche la disarmonia e l’errore e l’arte ben esemplifica questo percorso. Pensiamo alla bellissima volta celeste di Giotto, nella Cappella degli Scrovegni di Padova, il cielo stellato che il pittore rappresenta agli inizi del XIV secolo è una metafora dell’ordine dell’universo, un universo meraviglioso e perfetto perché si identifica con Dio. Ma di certo i cieli più emotivamente impattanti della storia dell’arte sono i notturni stellati di Van Gogh, c’è qualcosa di stridente in queste rappresentazioni che paradossalmente le rendono più comprensibili, più umane, o meglio ancora più reali, nonostante non vi sia nulla di naturalistico in esse.

Van Gogh, Notte stellata - La chiave di Sophia

Vincent Van Gogh, “Notte stellata”, 1889

Tra Giotto e il pittore olandese passano ben sei secoli, molti cieli sono stati dipinti, sognati e immaginati in questo lungo periodo: gli astri celesti hanno ispirato artisti, poeti, viaggiatori, scienziati.
Penso per esempio all’Ariosto e alla sua dote visionaria che lo renderà capace di immaginare il primo viaggio dell’uomo sulla Luna. Nell’Orlando Furioso questa viene descritta come una sfera di immacolato acciaio, in conformità con l’incorruttibilità aristotelica dei cieli, ed è anche il luogo dove ritrovare la ragione perduta sulla Terra. Ariosto rende quindi omaggio all’ordine che regola la sua epoca, ma il suo potere immaginifico è lo sguardo anticipatore dell’arte.
Restando in tema, segnalo la mostra che qualche anno fa è stata allestita a Ferrara (Palazzo dei Diamanti) per celebrare i 500 anni dalla prima edizione dell’Orlando Furioso stampato proprio in questa città. Per comprendere un visionario bisogna sempre chiedersi cosa egli veda chiudendo gli occhi, ed è questo l’interessante punto di vista proposto dai due curatori che invitano ad entrare nell’universo dell’immaginario ariostesco.

Contemporaneo dell’Ariosto, Copernico scrive il suo De revolutionibus orbium coelestium nel 1512, mentre Galileo inventerà il telescopio nel 1609, quasi un secolo dopo il poema cavalleresco.
È evidente come ogni rivoluzione necessiti sempre del suo bardo: la poesia è utile alla scienza perché ha la sensibilità e l’intuizione di mescolare la materia senza limiti fisici e creare corrispondenze sensoriali in grado di ispirare le menti più acute.
Qualche settimana fa sono venuta a conoscenza (sempre per casualità o per disposizione astrale) del progetto Sentire le stelle, realizzato dal compositore Francesco Rampichini. Questo è costituito da un’interfaccia digitale in cui spostando il mouse è possibile ascoltare la mappa di una costellazione o di una sua singola stella, individuandone posizione e magnitudine attraverso il rapporto delle intensità luce/suono.
Ecco le corrispondenze a cui accennavo prima, interessante notare che questa ricerca ha anche una base linguistica: in sanscrito, antica lingua indoeuropea da cui provengono molti nostri vocaboli, suono si dice svara e luce si dice svar, i due termini hanno la stessa radice fonetica (che accomuna anche la parola sole).
La luce diventa quindi suono, le stelle ci parlano, il cosmo è vivo e comunica, non è solo un velo dipinto.

Nel libro di Rovelli che citavo inizialmente, l’autore ci spiega come il saper vedere e il saper ascoltare siano fondamentali non solo per il progredire della scienza, ma anche per comprendere meglio il nostro ruolo come essere umani: «noi siamo fatti della stessa polvere di stelle di cui sono fatte le cose e sia quando siamo immersi nel dolore sia quando ridiamo e risplende la gioia, non facciamo che essere quello che non possiamo che essere: una parte del nostro mondo». Capire questo, significa anche adottare un comportamento di rispetto e di cura nei confronti del pianeta che ci ospita.

Per concludere: quest’estate mi sono fermata a osservar le stelle ma no, non sono riuscita a fare le foto che mi ero proposta. In compenso ho pensato al genio rivoluzionario di Copernico, all’ “oscuro labirinto” dell’universo che Galileo s’impose cocciutamente di decifrare e ad Astolfo che andò a cercare il senno di Orlando sulla Luna. Ma anche alle menti avide di sapere che si sono susseguite nei secoli fino ad oggi donandosi completamente alla scienza e all’emozione dell’animo sensibile dell’artista che guarda il cielo stellato.
Con un brivido ho sentito quanto l’umanità possa essere splendente anche nella sua naturale limitatezza, un potenziale che passa in secondo piano se si pensa alla stupidità e all’insensatezza diffuse nel mondo attuale.

Spero quindi che Dante avesse ragione in quell’ultimo verso del suo Inferno, spero che questo (ri)veder le stelle ci indichi adesso un nuovo cammino di luce e di conoscenza, dandoci il giusto grado di speranza per renderci migliori.

Dorè, Incisione per Divina Commedia - La chiave di Sophia

Gustave Doré, incisione per la “Divina Commedia”, 1857

 

Claudia Carbonari

 

[Immagini tratte da Google Immagini]

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La vera meraviglia del viaggio? Lo spaesamento

Caminante, no hay camino,
se hace camino al andar  

(A. Machado)

L’inquietudine del viaggio accompagna lo spirito umano da sempre, esprime un desiderio e una necessità spesso difficili da reprimere. È un pensiero che si radica in punta dei piedi dentro la nostra testa e piano piano prende forza, la bella stagione, la brezza estiva, le serate in giardino, di certo aiutano.

Viaggiare – anche la vacanza più scontata-  è sempre un atto di volontà che implica un’azione complessa, un processo nel quale le tappe sono ben definite: bisogna scegliere dove andare, quando partire, come e, sarebbe buona abitudine, anche chiedersi perché.

Lo scrittore Alain de Botton con il suo libro Arte di viaggiare[1] promuove il viaggio a vera e propria terapia: l’atto di partire ci predispone a un percorso di sviluppo interiore e di riflessione, comportandosi come cura per le nostre ferite e mancanze. Il pellegrinaggio religioso diventa quindi solo un’accezione particolare, circoscrivibile ad un canone specifico, di un significato spirituale molto più ampio che appartiene naturalmente al viaggio.

Le vacanze ci offrono così un’ottima possibilità di intraprendere la nostra ricerca personale, per cui il fine ultimo del partire sarebbe trovare delle risposte e conoscere meglio noi stessi, un pensiero d’altronde carico di aspettative, con il conseguente rischio di restare delusi, di tornare insicuri perché le risposte non arrivano o, ancora peggio, di vivere il nostro viaggio con l’ansia di perderci qualcosa.

Qualche tempo fa ho avuto modo di vedere una delle brevi lezioni video sul viaggio, della School of Life di De Botton, nel quale con mia grande sorpresa lo scrittore portava all’estremo le sue riflessioni consigliando addirittura di non partire: il rischio è infatti sempre quello di portarsi dietro un ospite piuttosto sgradito, se stessi. Ed è inutile fare la valigia se prima non si trova una certa serenità tra le mura di casa.

Questa svolta alquanto nichilista non mi ha di certo entusiasmata, eppure devo dire che ho capito l’errore: non si deve caricare il viaggio di aspettative per trovare qualcosa, ma al contrario dobbiamo cogliere in esso l’occasione di perderci, di dimenticarci in qualche modo di noi stessi.

Lo spaesamento è la vera meraviglia del viaggio.

Ma questa non è certamente una novità, l’idea di spaesamento nasce con il ben noto exotisme vagheggiato dagli intellettuali del XIX secolo, non solo una questione estetica, ma una metodologia d’indagine, una percezione del diverso, il cui potere stava nell’allenare lo sguardo alla differenza, nella capacità di rovesciare l’io nell’altro.

Se facciamo attenzione a tutto l’universo comunicativo e d’informazione che ci circonda possiamo notare come l’exotisme non ci abbia abbandonato, sebbene abbia perso una certa ingenuità delle origini per cadere spesso nello stereotipo. Se il viaggio oggi è diventata una pratica massificata, che si allontana dai processi dell’esperienza inserendosi nel circuito consumistico – come tristemente teorizzato dall’antropologo Lévi-Strauss[2] – è però ancora possibile recuperare la sua valenza strategica nel rielaborare nuove forme dell’identità personale: “il viaggio diventa così il piano ideale per un rinnovamento poetico che opera attraverso lo spaesamento[3].

Come si dice, l’importante non è il fine ma il percorso che si affronta per raggiungerlo, così nel viaggiare si deve imparare a raccogliere durante il cammino, si tratta quindi di sviluppare due abilità essenziali: percezione e traduzione, che appartengono a due livelli di esperienza differenti ma complementari.

Il viaggio va in primo luogo vissuto, cogliendo lo spaesamento che comporta e non soffocandolo. In secondo luogo deve essere rielaborato, traducendo in espressione ciò che ci ha lasciato, attraverso la narrazione, la pittura o la fotografia, ecc.

Se quest’ultimo è terreno dell’arte, e lascia ad ognuno la libertà di trovare il linguaggio più consono alla propria sensibilità, nella prima parte del percorso, per allenarsi ad uno sguardo estetico e ad una ricezione attiva, ci viene in aiuto la filosofia.

E il buon viaggiare ci stimola a diffondere uno spirito critico etico e sostenibile: “…questa estetica dello sguardo – che mira ad aprire l’occhio esterno per riattivare l’occhio interno […] indica al viaggiatore non soltanto di guardare i luoghi, ma di accorgersi che essi ci riguardano, perché dal loro destino, dalla sopravvivenza di ciò che in essi c’è di unico e singolare, dipende anche il nostro futuro”[4].

Claudia Carbonari

NOTE

[1] Alain De Botton, L’arte di viaggiare, Guanda 2002.
[2] Claude Lévi-Strauss 1960, Tristi Tropici, Il Saggiatore.
[3] Luigi Marfè 2012, Il racconto di viaggio e le estetiche del modernismo, p.10.
[4] Ivi, p. 16.

Misericordia a colazione

<p>Immagine presa da Google immagini</p>

E’ possibile un recupero laico dei valori cristiani? Probabilmente alcuni valori sono legati a questioni dogmatiche, ma la morale cristiana porta in seno anche dei valori che possono essere utili nella vita di tutti i giorni e aiutarci a vivere meglio a prescindere dall’essere credenti o meno.

Vivere è l’infinita pazienza di ricominciare. E la misericordia offre, senza condizioni, senza stanchezza, senza limiti, esattamente la possibilità di ricominciare sempre, “settanta volte sette” proiettandoci verso il futuro, coltivando non rimorsi o rimpianti, ma le condizioni per rendere feconda ogni vita. Un’offerta, questa, un invito che profuma di eternità. Nel pensiero cristiano Dio è colui che presiede a ogni nascita, lo fa attraverso la sua misericordia, parola che nella lingua della Bibbia antica è detta rahamin, che è il plurale di utero, grembo, di madre, matrice, fonte di vita. Allora nel confronto con Dio le donne e gli uomini sanno di non essere una creatura che ogni giorno “lentamente muore”, ma figlie e figli che dolcemente e tenacemente nascono, si affacciano alla vita, crescono a libertà, a consapevolezza e amore.

«Con Dio si va di inizio in inizio attraverso inizi sempre nuovi» scrive Gregorio di Nissa. Nel mondo dello Spirito nessuno è mai finito per sempre. Dio non permette che ci arrendiamo, con lui c’è sempre un “dopo”: vede primavere nei nostri inverni, il sole che sorge nelle nostre albe così ricche di tenebre, profezia di spighe mature nel germoglio appena spuntato dalla terra. Alla peccatrice trascinata là, in mezzo a un universo maschile, per essere uccisa (Gv 8,1-11) Gesù dice: «Vai, e d’ora in avanti…». Quel “d’ora in avanti” è detto a ciascuno di noi, siamo tutti creature non ancora finite, non ancora fiorite e, proprio per questo, tenacemente in cammino. Siamo sempre nella preistoria di noi stessi, stiamo sempre nascendo, per questo possiamo dirci e ripeterci che l’uomo non è un essere “mortale” come spesso ripetiamo, ma è sempre “natale”, un incompiuto che si rinnova ogni singolo giorno. La filosofa Maria Zambrano diceva: «Noi nasciamo a metà. Tutta la vita ci serve a nascere del tutto». «La nostra vita non è arrivare o raccogliere, ma partire a ogni alba, seminare a ogni stagione» scrive Ernesto Oliviero.

Geremia offre una immagine molto suggestiva di Dio: «Sono sceso nella bottega del vasaio, ed ecco ogni volta che il vaso non gli riusciva, rimetteva l’argilla nel tornio e ricominciava a modellarla, come a lui pareva bene» (Ger 18,2-4). Possiamo recuperare tutto questo in chiave laica? Sì, nella misura in cui questo messaggio ci invita a non buttarci mai via, siamo sempre buoni per l’arte del vasaio. Per noi è una sciagura lavorare con vasi rotti, ma per la morale cristiana non è così, anzi è l’opposto. Quando le nostre vite sono spezzate siamo come anfore rotte, ma possiamo sempre rimetterci nel tornio e lavorare nuovamente su noi stessi con la pressione calda delle nostre mani. Quando la nostra anfora si incrina o spezza e non siamo più in grado di contenere l’acqua, proprio con quei cocci che a noi paiono inutili possiamo supporre che essi ci servano ancora, perché l’acqua sia libera di scorrere verso altre bocche e altre anfore, perché altre seti vengano estinte. «Dio può riprendere le minime cose di questo mondo senza romperle, meglio ancora, può riprendere ciò che è rotto e farne un canale» scrive Fabrice Hadjaji.

L’infinita pazienza di ricominciare è espressa nella Bibbia al motto “alzati e va’”. Ad Abramo, al popolo in Egitto, a re e profeti, a malati: “alzati”, stessa cosa vale per il dogma relativo alla resurrezione di Gesù, il motto resta sempre “alzati e va’”. L’invito è quello di mettersi in cammino, seguire i sentieri che si hanno nel cuore. A ogni caduta, a ogni stanchezza, a ogni tentazione di arrenderci o di adagiarci in ciò che abbiamo raggiunto, a ogni illusione di aver raggiunto definitivamente la nostra casa o il nostro nido, la figura della misericordia nella morale cristiana oppone quella della missione: tu puoi amare di più, puoi sempre migliorarti, essere più libero, essere più donna o uomo, con sempre meno paure e meno maschere, puoi far fiorire ancora di più la tua vita. La misericordia, anche intesa laicamente, è la custode dei sogni, sogni di futuro: sovranamente indifferente per il passato di colpe di ogni persona, è madre di futuro nuovo, di un domani migliore.

Tutto questo è un patrimonio tanto per il laico quanto per il credente? Penso proprio di sì.

 

Matteo Montagner

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

Terra, terra madre

Una delle domande a cui l’essere umano cerca di rispondere, nel corso della sua vita, riguarda la destinazione, la meta del suo cammino: qual’è il luogo dove riposa il senso dell’esistenza mortale?
E ciò non comporta, ipso facto, una fede in un luogo che sia al-di-là della morte: si può legittimamente dire che non v’è un posto sicuro in cui le esperienze dei mortali vengono ricomprese, in cui tutte, soprattutto le sofferenze e i patimenti, riscoprono un nuovo significato.1

Certo è che, anche per approdare ad una certezza simile, occorre porsi la domanda.
Alla quale domanda la filosofia sa dare una risposta, quando parla il linguaggio dell’autenticità e non ha timore di indagare l’uomo nella sua profondità.2

Dove, dunque, stiamo andando?

Dove mi conduce la mia esistenza mortale, considerata a prescindere dalla mirabile varietà di peculiarità che la segna come mia (come di ciascuno) irripetibilmente; ovverosia considerata nella sua universalità?

<< Indifferente è per me

il punto da cui devo prendere le mosse; là, infatti,

nuovamente dovrò fare ritorno.>>3

Poiché la nostra esperienza appare segnata dal tempo e dall’indecifrabilità del futuro, per intendere verso dove ci siamo messi in cammino, è necessario volgere lo sguardo al luogo da cui siamo partiti; alla dimensione uterina dalla quale la nostra nascita ha assunto le sue condizioni, nella quale la struttura umana che noi siamo ha iniziato la sua edificazione. Di questa dimensione originaria, possiamo trovare un significante fisico che ce ne suggerisca i tratti, affidando a ciascuno il compito di ricostruire la propria genesi autentica e la propria naturale destinazione: la Terra.

<<Voglio4 cantare la Terra dalle salde basi, madre di tutti,

veneratissima, che sul suo suolo nutre quanti esseri esistono:

e quanti si muovono sul suolo divino e nel mare

e quanti volano, tutti si nutrono della tua ricchezza>>

Per te gli uomini fioriscono di bei figli e pingui raccolti,

o veneranda, e tu puoi dare la vita e toglierla

ai mortali: e beato è colui che nel cuore

tu onori benigna, ed egli possiede beni infiniti.>>

La Terra è significante allegorico di qualcosa che in questa immagine propriamente non è esaurientemente espresso: essa è prima nutrice di ogni essente che in essa vive, l’abbraccio primigenio che mai abbandona; indica la dimensione ontologica alla quale ogni ente è connesso intimamente, essenzialmente.
Ad essa si riferisce la nostra esistenza come alla profondità cui sono legate le nostre radici, che assicura la stabilità delle fondamenta; sulle quali è possibile edificare la complessità della vita umana nelle sue più inattese variabili. Senza solide fondamenta, quale sviluppo possibile?

Volgere nuovamente l’attenzione alle nostra radici, al nostro legame con la Terra, può offrire l’occasione per affrontare diversamente le esperienze umane, soprattutto le meno rassicuranti, le più dolorose: è significante di una riscoperta della essenza umana.
Rivolgere l’attenzione al punto da cui siamo partiti (per richiamare i versi di Parmenide) può darci accesso alla dimensione che ci offre il nutrimento necessario per giungere al compimento del nostro cammino; per resistere ai turbamenti che possono interessarci: stante il legame necessario e insopprimibile tra l’uomo e la sua Terra, anche gli accadimenti più traumatici finiscono per risultare impotenti dinnanzi all’umana essenza.

Tutto questo, non da ultimo, ci chiama a riflettere anche sul rapporto che ci lega fisicamente alla Terra (intesa qui come habitat, luogo abitato5), ci ricorda che tutto ciò che interviene sul suo corpo interviene, in virtù del suddetto legame, sul nostro proprio corpo.
Il richiamo è ineludibile e, al contempo, per certi versi inquietante: cosa accade a noi, mentre favoriamo il deperimento della Terra, l’inaridimento della nostra nutrice?
Cosa stiamo davvero facendo, noi che agiamo così violentemente sull’habitat che informa la nostra vita?

È quantomeno legittimo il sospetto che i danni arrecati alla vita della Terra, siano più profondamente danni alla nostra stessa vita.

<< Salve, madre degli dèi, consorte di Urano stellato,

benigna, in cambio del canto, dolce vita concedimi:

e io anche in altro canto ancora di te mi ricorderò.>>6

Emanuele Lepore

[immagine tratta da Google Immagini]

NOTE

1Da mostrare sono – ed è impossibile tentare qui di farlo- sia le ragioni che affermano, sia quelle che smentiscono l’esistenza di un orizzonte trascendentale ( lo si chiami pure come si voglia) in cui l’uomo dà compimento alla propria vita.

2Beninteso: questo breve scritto non ha la pretesa di dar voce alla filosofia che sa rispondere a questa domanda; ciò che qui si propone è soltanto una sortita attorno al tema, un invito di pensiero.

3<<ξυνὸν δέ μοί ἐστιν,/ ὁππόθεν ἄρξωμαι· τόδι γὰρ πάλιν ἵξομαι αὖθις.>> Fr.5 28 B DK

4Inno omericoXXX, “ Alla Terra”. Se ne può trovare una versione in lingua originale su: http://www.poesialatina.it/_ns/greek/testi/Hymni/Hymn30.htm

5Terra intesa come luogo abitato e luogo che dà l’habitus all’essere umano.

6Si veda il già citato inno omerico (ndr)