Filosofia del camminare (a piedi nudi). Intervista ad Andrea Bianchi

Con la sua filosofia della camminata a piedi nudi nella natura, Andrea Bianchi è diventato oggi il punto di riferimento del barefoot hiking in Italia e infatti conduce workshop di camminata scalza un po’ ovunque, dalle Dolomiti alla Via Francigena. Nel 2017 ha dato vita alla prima scuola italiana di barefoot hiking, Il silenzio dei passi, con cui propone il cammino a piedi nudi come una pratica di benessere psicofisico accessibile a tutti, per riconnettersi alle energie della Terra ma anche per imparare a diventare interiormente leggeri e silenziosi. Studia e pratica lo yoga da più di vent’anni, e quando indossa le scarpe è ingegnere e consulente di comunicazione, giornalista, fondatore ed editore del magazine online MountainBlog, uno dei più seguiti siti web sul mondo della montagna e degli sportoutdoor.
Lo abbiamo incontrato in occasione del TEDx della città di Mestre lo scorso 28 settembre e abbiamo proprio dovuto chiedergli di condividere con noi alcune riflessioni sulla natura, sul senso profondo del camminare, sul rapporto con il corpo e sulla filosofia. È una persona estremamente energica ed entusiasta, di una purezza e profondità rara, per cui la nostra è stata davvero una bella chiacchierata.
Buona lettura!

 

Nella storia del pensiero sono molti gli esempi di pensatori che furono legati al camminare: Aristotele insegnava camminando sotto i portici del Liceo e i suoi allievi si chiamavano peripatetici, dal greco peripatein (passeggiare), proprio per questo. I sofisti invece si spostavano a piedi di città in città per insegnare la retorica. Socrate amava camminare e dialogare e gli stoici discutevano di filosofia passeggiando sotto la Stoa, i portici di Atene. Per poi arrivare a Rosseau, Nietzsche, Proust… Da allora camminare è diventato un atto rivoluzionario, quasi eversivo. Quale legame esiste per te tra pensiero e l’atto del camminare?

Per me il cammino – e in particolare il cammino consapevole a piedi nudi, su terreno naturale – è innanzitutto un atto che favorisce l’affievolirsi del flusso caotico e incalzante di quella successione di pensieri e di voci mentali che, nel quotidiano, definiamo “pensare”, ma che in realtà non è che una sequenza di reazioni meccaniche agli stimoli delle forze e delle varie influenze esterne.
Entrando, un passo scalzo dopo l’altro, nella presenza della percezione, entro in un flusso di tutt’altra qualità, in cui il mio intero essere diventa l’atto del camminare, pienamente integrato con il sentiero che percorro, il suo terreno, l’ambiente di cui esso stesso è parte.
In questo stato d’essere, posso dire di “non pensare”, di essere solo cammino, respiro, passi, vento, freddo o calore, silenzio. È allora che si apre nella mente quello spazio in cui tutto è possibile, in cui l’ascolto del mio essere viene facile e spontaneo: in quello spazio nascono idee, forme, parole. In quello spazio posso realmente decidere di prendere una direzione – nella mente come lungo il sentiero che sto percorrendo – e di seguirla per vedere dove conduce. Il pensiero, in tal senso, si fa fisico – corporeo – ed immateriale allo stesso tempo.

 

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Il camminare frequentemente viene associato alla libertà, libertà nella scoperta del proprio corpo e del contatto con la natura, libertà nello scoprire se stessi e il proprio essere. Nel tuo libro Il silenzio dei passi (Ediciclo) scrivi che «camminare allora diventa un atto sempre più essenziale, dal quale uno ad uno si toglie ogni gesto, ogni spinta, ogni pensiero superfluo, purificando il movimento fino a renderlo inconsistente eppure elastico, definito eppure impercettibile allo stesso tempo». Perché ritieni che il camminare, e nello specifico il camminare a piedi scalzi, aiuti l’uomo nella scoperta di questa dimensione interiore che gli è propria?

Principalmente proprio perché camminare a piedi nudi ci aiuta a togliere ciò che non è necessario: le scarpe innanzitutto, che prima di essere un “abito” materiale sono un abito mentale, un’”idea” – un “guscio concettuale” – senza la quale non riteniamo di poter percorrere la nostra strada. Invece (re)imparare a camminare scalzi ci fa (ri)scoprire la nostra essenza, che è proprio quella di un camminatore che si affida totalmente alla sua forza fisica e mentale, alla sua sensazione di equilibrio e alle sue percezioni, alla sua capacità di vedere il sentiero formarsi davanti a lui un passo dopo l’altro. Questa dimensione interiore ci appartiene fin dall’alba della nostra storia di specie umana: siamo nati camminatori e per milioni di anni non abbiamo mai smesso di camminare. Camminare è una delle nostre dimensioni biologiche e cognitive principali. Per camminare, e per conoscere attraverso il camminare, non abbiamo bisogno che di noi stessi; tutto il resto è superfluo.

 

Da ormai molti anni ti sei impegnato nello studio e ricerca della camminata a piedi nudi, sia dal punto di vista della meccanica della camminata e della sensorialità, sia dal punto di vista dell’esperienza interiore e di scoperta di se stessi. Nel tuo ultimo lavoro Con la Terra sotto i piedi (Mondadori) il cammino scalzo diventa veicolo per parlare di ecologia, del rapporto Uomo-Natura e di spiritualità. Perché è necessario e urgente recuperare un certo rapporto con la Natura?

Essenzialmente perché noi siamo Natura: nella Natura, per milioni di anni, ci siamo evoluti, ed ancora oggi – nonostante il fatto che grazie alla tecnologia riusciamo ad estendere oltre ogni immaginazione i nostri limiti – la nostra vita è parte di questa evoluzione. Siamo parte di un sistema di relazioni viventi che costituisce la biosfera del pianeta che ci ospita: la nostra vita è intimamente connessa a quella della Terra, e non possiamo permetterci di perdere la consapevolezza di questa connessione, pena la sopravvivenza della nostra specie, oltre che di quella di milioni di altre specie viventi!

 

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Essere a piedi nudi nella natura non significa solo aver tolto quella separazione che esiste tra il nostro corpo, coperto dalle scarpe, e il terreno che stiamo percorrendo, ma significa anche ritornare alle radici, ritornare ad un contatto e un dialogo con la natura sincero, intimo, nel quale possiamo vedere, sentire e conoscere in modo profondo. Nel tuo intervento al TEDx Mestre lo scorso 28 settembre hai messo al centro proprio questi aspetti, che diventano occasioni di risveglio per l’Uomo, perché è la natura il luogo da cui proveniamo e in cui abbiamo le nostre radici. Secondo te come può l’uomo allora risvegliarsi e recuperare quella capacità di vedere e conoscere che sta smarrendo?

Credo che il risveglio debba passare attraverso un recupero della nostra relazione empatica con la Natura: non è con la sola comprensione razionale dei fenomeni, che potremo risolvere i grandi problemi e le sfide del nostro tempo, ma con il recupero delle emozioni, perché – come ho detto infatti al TEDx – non potremo salvare nulla se prima non lo amiamo. Per fare un esempio concreto: se percorro a piedi nudi un sentiero nel bosco – aprendomi alle emozioni che derivano da questo contatto intimo con il terreno, con l’umido o il secco delle foglie, percependo sotto la pianta del piede l’avanzare delle stagioni – quel bosco diventerà anche un po’ parte del mio essere, ne percepirò l’interdipendenza che lega la mia esistenza alla sua, e non potrò rimanere indifferente nel vederlo bruciare.

 

Nei tuoi workshop ma anche nei tuoi libri “sfidi” (è il caso di dirlo) le persone a compiere con i piedi gesti che riusciamo a compiere in modo immediato con le mani. In questa nostra difficoltà meccanica ad eseguire semplici movimenti (come ad esempio sollevare solo l’alluce e tenere le altre dita ancorate a terra) ci rendiamo conto di quanto un cambio di prospettiva possa influire sulla nostra visione del mondo. Anche tu intravvedi una sorta di metafora nella nostra incapacità di utilizzare le dita dei piedi?

È una metafora, sì, ma anche una piccola ma concreta dimostrazione di come il nostro attuale modo di vivere urbanizzato, separati dalla Natura e chiusi dentro i nostri gusci – le nostre case, i nostri uffici, le nostre auto, le nostre “scarpe mentali” – ci stia facendo perdere facoltà innate acquisite nel corso di milioni di anni di evoluzione. Dalle più recenti scoperte delle neuroscienze conosciamo oggi la plasticità del cervello, la sua capacità cioè di modificare la propria struttura a seguito di stimoli esterni e dello sviluppo dell’individuo. È grazie a questa capacità che possiamo crescere e svilupparci, ma vale anche il contrario: le dita di un piede che non sa più – o non ha mai saputo fin dai primi anni di vita dell’individuo – cosa significa essere libero di muoversi secondo il massimo del suo potenziale, si atrofizzano, perdono la loro funzionalità, fino a non rispondere più a semplici comandi neuro sensoriali. Ma le dita dei nostri piedi sono la punta di un iceberg: sotto la superficie di una vita che riteniamo di conoscere e poter controllare in ogni aspetto, si nasconde una perdita crescente di consapevolezza del “sistema Uomo” e della sua relazione con l’Universo.

 

Il camminare molto spesso è un elogio alla lentezza come dimensione dello spirito, il mettere un piede davanti all’altro per compiere un percorso non necessariamente include un “fine” specifico, perché la bellezza del camminare risiede nell’atto stesso e nel modo in cui corpo e anima dialogano in una dimensione del tutto diversa dal quotidiano a cui siamo abituati. Tu affermi che «un sentiero non è mai obbligato, lo si può percorrere non in un solo modo ma secondo tante vie diverse, linee persone che rispondono ad altrettanti modi di interpretarlo e farlo proprio». Come si può essere educati a questi esercizi dell’anima?

Questo genere di educazione – come del resto ogni educazione – non può che formarsi attraverso l’esperienza: per imparare a camminare scalzi su un sentiero di montagna – o di bosco, o di campagna – non c’è che da togliersi le scarpe e provare, un passo alla volta, all’inizio magari solo per pochi minuti, poi gradualmente più a lungo, con sempre maggiore consapevolezza dell’appoggio del piede, della sua meccanica, prima di poter infine apprezzare l’analogia del cammino con i percorsi della vita. Nessuno può sostituirsi a noi nella scoperta e nell’esercizio di queste facoltà, ma può essere utile camminare con qualcuno che è più avanti nella ricerca, che può darci consigli tecnici e soprattutto un esempio. La scuola di cammino a piedi nudi in Natura Il silenzio dei passi, che ho fondato nel 2017, nasce con questo intento: riavvicinare le persone alla Terra per riavvicinarle a se stesse.

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Noi de La Chiave di Sophia riteniamo che la filosofia sia la spinta e il motore di ogni nostra azione e anche di ogni professione, perché è riflessione e ricerca di senso. Nella tua persona e nella tua ricerca ritieni che la filosofia abbia un ruolo importante? Che cos’è per te la filosofia?

Come ho detto al TEDx, credo che la filosofia sia nata milioni di anni fa, quando i primi ominidi scesero dagli alberi, e conquistando la posizione eretta consentirono allo sguardo di spaziare verso l’orizzonte, ponendosi una méta, domandandosi cosa ci fosse oltre la linea del visibile, dando una direzione alla loro ricerca. Per me la filosofia è questo, è tentare di rispondere alle domande che infiniti orizzonti ci pongono, lasciarsi guidare da esse nella scoperta di noi stessi, accettando che dietro ogni orizzonte ne troveremo sempre un altro. Per questo, una delle dediche che lascio più spesso alle persone nei miei libri è che i loro orizzonti siano ricchi di significato!

 

Grazie Andrea per questa chiacchierata.

 

Elena Casagrande

[immagini concesse da Andrea Bianchi]

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Per una psicologia della montagna: le fasi emotive del cammino

Chi, come me, è solito frequentare la montagna e fare escursioni più o meno impegnative, potrà riconoscersi nelle fasi che mi appresto a descrivere.
Quando intraprendiamo una camminata, che sia essa lunga o corta, difficile o di stampo più turistico, ci apprestiamo in fin dei conti a salire svariati “gradini”. Ognuno di essi rappresenta uno stato d’animo, un certo sentire che porta con sé particolari riflessioni.
Vediamo nel dettaglio quali sono queste tappe emotive dell’escursionismo montano.

Fase uno: il gioioso entusiasmo. È la fase della partenza che porta con sé uno slancio colmo d’eccitazione: non si vede l’ora d’iniziare la camminata e perdersi in mezzo alla natura. Si pregustano il buon profumo dei boschi, i raggi solari che si riflettono sulle creste delle montagne, le bellezze che i nostri occhi raccoglieranno. Impetuosamente ci allacciamo gli scarponi, sistemiamo le cinghie dello zaino, ripassiamo il percorso sulla cartina e con un gran sorriso, partiamo!

Fase due: l’inizio della fatica psico-fisica. Il fervore provato poco prima comincia lentamente a scemare. Arrivano gli aspetti sgradevoli: il sudore e il calore dovuti allo sforzo fisico, il fiato che si fa corto. Alcune domande serpeggiano nel nostro cervello: perché mi sto imponendo questa fatica?
Sentiamo la stanchezza aumentare fino a raggiungere un punto che crediamo sia il punto limite. Ma non lo è: abbiamo ancora forze.

Fase tre: l’ultimo sprint prima della cima. L’aspettativa della meta ci mette l’acquolina in bocca: improvvisamente il corpo sembra ricaricato, siamo in quota e ci godiamo estasiati i panorami montani. Dall’alto osserviamo laghi che sembrano minuscole pozze d’acqua, il verde si perde nel nostro sguardo e mangiamo questi paesaggi con gli occhi per digerirli nel cuore e portarli con noi. Ci culleranno e conforteranno, con quel pizzico di struggente nostalgia, una volta tornati in città, alla vita di sempre.

Fase quattro: l’arrivo in vetta e la sconfinata soddisfazione. Siamo arrivati: che il luogo sia un rifugio accogliente, ma alla buona, dove potersi godere una birra fresca oppure una cima desolata con una croce come unico ornamento, resta il fatto che sentiamo d’aver fatto una grande conquista. Abbiamo raggiunto una meta alla quale ci eravamo prefissati di arrivare: è stata dura ma siamo arrivati fino in fondo. Tolti gli abiti sudati e appiccicaticci, indossata una felpa pesante o una giacca a vento, dopo esserci rifocillati, un enorme e piacevole appagamento ci invade. Chi l’ha provato lo sa: è una delle migliori sensazioni che ci siano al mondo. Sopraggiunge poi la consapevolezza che l’impresa appena compiuta altro non sia che una metafora delle prove cui siamo sottoposti nella nostra vita quotidiana: portare a termine un compito lavorativo, risolvere una crisi familiare o sentimentale, abbandonare qualcuno o qualcosa perché ci nuoce… Tutte cose che talvolta crediamo saremo incapaci di portare a termine.
Cadiamo in uno strano stato semi-meditativo: ciò che abbiamo bevuto e mangiato aveva un sapore più buono del solito, sentiamo una sazietà che pervade anche il nostro animo. E ci rallegriamo pensando “D’ora in poi è tutta discesa”. Riusciamo curiosamente a vivere il momento presente senza preoccuparci delle innumerevoli salite – metaforiche e non – che ci aspettano.

Fase cinque: il riepilogo – la discesa e l’assimilazione emotiva del ritorno. Scendere è un po’ come iniziare a salire: percepiamo nuovamente una pulsante euforia e le nostre gambe sembrano procedere da sole, senza sforzo, senza una guida consapevole. Ma ad un tratto le ginocchia cominciano inevitabilmente a cedere, perché scendendo portiamo sulle spalle dei pesi dei quali forse non siamo nemmeno consapevoli. Il peso del ritorno, ad esempio: torniamo da qualche parte, e quel tornare rappresenta lo spezzarsi di un’armonia che s’era creata salendo e doppiando la vetta. È come svegliarsi da un sogno travagliato e confuso. Tornare è un ri-approcciarsi alla realtà. Una zavorra che trasportiamo assieme al nostro zaino e simboleggiata da tutte le riflessioni che abbiamo fatto nel corso della camminata. Abbiamo pensato alla nostra quotidianità, alle nostre abitudini consolidate, e abbiamo visto il tutto sotto una differente prospettiva, con un distacco che – se siamo fortunati – ci ha permesso di mondarci e liberarci del negativo e del superfluo. Camminando sudiamo e portiamo fuori il nocciolo di noi stessi, la nostra identità più profonda e primitiva. Non ci sono substrati, trucchi o artifici, solo noi, in tenuta sportiva, con uno zaino contenente lo stretto indispensabile. Non dobbiamo essere nulla, mentre saliamo in montagna: siamo e basta. Non possiamo mentire, correre più del dovuto o fingere di essere più o meno allenati di ciò che siamo. Possiamo solo andare al nostro ritmo: i nostri piedi che si rincorrono creano una musicalità interiore e cadenzata, tutta nostra, che stimola e facilita il nostro pensare.

Mi torna alla mente Petrarca e la sua ascesa al Monte Ventoso. La sua salita gli aveva rivelato – con l’aiuto del famoso passo tratto dalle Confessioni di Sant’Agostino: «E vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso degli astri e trascurano se stessi» – che nulla è importante quanto l’anima, specchio divino. La maestosa bellezza della montagna resta di fatto un elemento terreno, non degno quindi di attenzione. Petrarca attraversava una profonda crisi mistica e si sentiva in colpa poiché provava interesse per le cose mondane. Eppure anche lui, proprio salendo, era giunto alla sua grande verità. Il sentiero impervio, la stanchezza e le cadute, lo avevano condotto ad un’insostituibile consapevolezza. Credo sia lo stesso per tutti noi: ad ogni nuova camminata giungiamo a nuove consapevolezze, a nuovi traguardi interiori ed esteriori.

Un pensiero dopo l’altro, un piede dopo l’altro. E infine, quando giungiamo al punto di partenza (ora diventato punto d’arrivo), siamo consci che le salite torneranno e saranno ripide e scivolose. Ma così è la vita: un saliscendi.

 

Francesca Plesnizer

 

[Credit Lucas Clara]

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La lepre e la tartaruga: correre per rallentare

Nel mondo anglosassone esiste una storia raccontata con minime variazioni da almeno un secolo, più recentemente dallo scrittore americano Terry Hershey nel suo Sacred Necessities (2005). La vicenda vede un esploratore, a volte inglese, altre volte americano, recarsi in un non meglio specificato paese africano ed assumere delle guide locali per accompagnarlo nella natura selvaggia. Le guide, durante i giorni di lavoro, vengono spronate a un passo sempre più veloce, fino a che, senza apparente motivo, si fermano all’ombra di un albero, rifiutandosi di proseguire. Alle esasperate lamentele dell’esploratore, le guide replicano tranquillamente: “Ieri abbiamo camminato troppo veloce. Oggi aspettiamo che la nostra anima raggiunga il nostro corpo”.

In altre versioni della storia quella riportata è la reazione dei locali all’introduzione degli autobus nelle città, in altre ancora si tratta di un passeggero che, dopo il primo volo della sua vita, sta fermo per qualche minuto al gate di sbarco. In una narrazione o nell’altra, la morale della storia non cambia, e ci interroga direttamente su un crescente bisogno di lentezza che si è manifestato con sempre più forza negli ultimi anni.

Nel suo Nel momento (1999), Andrea De Carlo suggerisce che la lentezza sia una sorta di “tiro mancino” da parte della Natura, un’assicurazione per arginare l’ambizione già smisurata dell’uomo limitando la distanza che gli è concesso di percorrere con le sue proprie forze. In maniera del tutto speculare, il filosofo statunitense Henry David Thoreau, in Camminare (Walking, or the Wild, 1863) celebrava il recupero di un passo lento, contrapposto alle nuove, impensabili velocità aperte dalle coeve conquiste tecniche. Nei suoi testi, il camminare diventa una via quasi mistica per vivere davvero il movimento, prestando al contempo attenzione al paesaggio attraversato ed alla propria relazione con esso, in un viaggio “doppio” che conduce più lontano di qualunque treno o diligenza: “Il viaggiatore più veloce è colui che va a piedi”.

Il problema della velocità oggi non si pone quasi più, certo non nei termini espressi da Thoreau, tanto meno in quelli dei fantomatici africani in attesa. È un fatto, però, che all’incremento dei voli low cost è aumentato anche il numero dei turisti-pellegrini con zaino in spalla e scarponi ai piedi, che il boom dei fast food ha portato all’evoluzione dello speculare slow food, che l’auto privata (al netto dei costi di mantenimento) viene giorno dopo giorno soppiantata dai servizi di noleggio di biciclette come mezzo di spostamento privilegiato nelle grandi città. Paradossalmente, più crescono le occasioni di muoversi sempre più velocemente, di raggiungere quindi in un minor tempo possibile la distanza maggiore, più si cerca di rallentare, di riportare i ritmi della vita e del movimento ad un passo più calmo, più, forse, a misura d’uomo, in quella dimensione della “breve distanza” (temporale o spaziale che sia) che De Carlo vedeva come una trappola.

Fermo restando che le due opposte tendenze, anche solo per necessità, non possono che coesistere, vale la pena notare che mai come oggi, con treni a levitazione magnetica che toccano i 600 km/h o più semplicemente connessioni internet a banda larga che aumentano esponenzialmente l’ampiezza di banda dei mezzi trasmissivi, il culto della velocità celebrato dai vari Marinetti e Boccioni ha raggiunto una così completa realizzazione; mai come oggi, al contempo, si fa sentire la nostalgia per tutto ciò che è vicino, semplice, naturale, lento e meditativo.

Si tratta di una pura e semplice paura della novità, che spinge a rallentare per timore di un mondo che non riusciamo più a comprendere nella sua totalità, o ci stiamo finalmente fermando, anche solo per un poco, per permettere alle nostre anime di raggiungere i nostri corpi?

 

Giacomo Mininni

 

[Photo Credit: Tatiana Diakova via Unsplash.com]

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The floating piers: the floating experience

È l’evento culturale più chiacchierato del momento, la prova artistica più attesa e probabilmente tra le più importanti di quest’anno a livello mondiale; presentata fin da subito con uno slogan tanto arrogante quanto accattivante:
«Vi farò camminare sulle acque».
Trattandosi di un artista il cui nome è Christo, non può che apparire come un segno del destino.

The floating piers, i moli galleggianti. Dei ponti galleggianti. In una attualità segnata dalla Brexit, da sfide ai ballottaggi fino all’ultimo voto e da nuclei religiosi che si schierano contro il resto del mondo, trovo sia quasi romantica la scelta di costruire dei ponti, di unire due realtà lontane o differenti – o anche solo così, semplicemente creare un contatto. Al ritmo di 50.000 visitatori al giorno, italiani e stranieri, donne e uomini, adulti e bambini e anche animali camminano sui 3/4 km di tessuto giallo dalia che, come un filo che cuce i margini del lago, accende l’acqua blu di una nuova possibilità. Un rito collettivo, un’esperienza nuova e gratuita che, nonostante le controversie, è riuscita ad avvicinare centinaia di migliaia di persone all’arte contemporanea.

Sì, perché è di arte che parliamo. Ridurre il concetto di arte al solo oggetto è impensabile, soprattutto a partire dalla seconda metà del Novecento, ma difficilmente lo si può fare anche per tutto quello che c’è stato prima. L’architettura ne è un valido esempio, perché molto più che l’edificio in se stesso essa è lo spazio che l’edificio disegna, e il modo di viverlo; ma nemmeno il David di Michelangelo è solo un blocco di marmo straordinariamente scolpito: è anche l’esperienza sensoriale che ricevi quando ci giri attorno, sono i pensieri che ti fa nascere nella mente e i sentimenti nell’anima.
Christo ci offre un’esperienza, nuova e squisitamente estetica. Non si attraversa il lago per andare da A a B, si fa un viaggio attraverso il lago, diverso da quello che fai in barca e diverso soprattutto da quello che fai quando hai una meta da raggiungere.

Io ci sono stata, e posso dirvi che non si tratta affatto un mero camminare su di una passerella: è una passeggiata di circa tre ore in cui diventi un tutt’uno col paesaggio.
Comincia che nemmeno te ne accorgi: svolti una curva, pensi che la fila continui, e invece – sbam! Sei sul ponte! Ed è… stranissimo! Tutti ridono meravigliati, cominciano a camminare adattandosi pian piano alla nuova situazione, tastano con i piedi un territorio inesplorato. Passeggi sul pontile ondeggiando al ritmo delle onde, perché le senti le onde, una per una sotto i piedi – i cubi sottostanti si adattano talmente al movimento del lago che ti sembra davvero di camminare sull’acqua –, quindi ti muovi su questa superficie elastica, morbida, e tutti i sensi sono stimolati, compreso quello dell’equilibrio. Fai tutto il primo ponte esplorando le tue sensazioni, la cornice di lago e profili collinari è incredibilmente suggestiva e pian piano ti ci immergi dentro. Quando poi arrivi all’altra sponda (Montisola) e cammini sulla strada lungo il lago, ombreggiato dagli ulivi che si sporgono verso l’acqua e sommerso dal chiacchiericcio di uomini e cicale, ti sembra ancora di ondeggiare. E poi ritorni sul molo, improvvisamente c’è più spazio, puoi anche sederti, distenderti, senti il movimento delle onde che ti scorre sul corpo. Anche gli altri sensi sono stimolati: l’odore dell’acqua, solo lievemente salmastra, e pulita, lo scricchiolio della passerella al passaggio di ogni onda (sembra di sentire come delle onde di sassi), poi il vento, e i colori! Il verde scuro del paesaggio, punteggiato di bianco, di marroni, di fortezze; l’azzurro del cielo, il blu un po’ verdastro dell’acqua, e poi quei fili appena appena adagiati sulle onde, un tratto di pastello sul paesaggio, arancione – no, oro! Anzi, quasi rosso! Cambia con te, cambia col sole, il tessuto è cangiante e ondoso come il lago, è chiaramente artificiale ma così delicato che quasi sembra fatto apposta per quel contesto, per quel sinuoso profilo montuoso dell’Iseo. Naturale ed artificiale in sintonia. Land Art: l’uomo che agisce sul paesaggio non come una sfida, ma con un senso di gratitudine, vuole contribuire ad un grande spettacolo. Bellezza aggiunta alla bellezza.

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Pensi a questo e a mille cose, chiacchieri, sogni, mentre papere, anatre e qualche cigno ti nuotano accanto, indisturbati. Un po’ li invidi perché fa caldo, e l’acqua è così blu che muori dalla tentazione di immergerci una mano. Lo fai, ma poi ti viene voglia di fare un tuffo e allora la sicurezza, prontamente, fischia: la sicurezza è imponente, l’organizzazione estremamente precisa – giusto perché siamo sempre convinti che le cose all’italiana siano fatte male per definizione. Arrivi all’isolotto di san Paolo, gli spazi sono ancora più grandi e di conseguenza ancora più vitali: c’è gente che passeggia, cani che corrono, bambini che saltano, gruppi che giocano a carte, ragazzi e non-ragazzi distesi, si fanno cullare dal ponte galleggiante come dal vento su un’amaca. Le persone ridono, sono entusiaste, sentono quella sorta di magia dei sensi. Anche il corpo è vivo: spesso quando ci si tocca vicendevolmente ci si dà la scossa. E il tempo scorre senza lasciar traccia di sé, pensi che vuoi stare lì a goderti il sole fino all’ultimo raggio. Poi invece ti decidi, ti rialzi, riprendi il cammino: di nuovo l’intreccio di fili di dalia infuocati sul morbido velluto blu dell’acqua, ormai ti sembra normale passeggiare su di un lago – questa idea ti colpisce all’improvviso e pensi di essere impazzito, perché in realtà non è normale! –, ti guardi attorno con la naturalezza di quando sei a passeggio nel centro della tua città, solo che attorno a te è tutto diverso. Torni sull’altra isola, quella grande, ti fermi di nuovo per una birra, un gelato; per un po’ cammini e dal tuo argine guardi i moli in lontananza, ma sei sempre sul tessuto giallo. Infine l’ultima passerella, cioè la prima, di nuovo ondeggi, sei di nuovo al centro del paesaggio. Non è come andare in barca perché non vieni portato, sei tu che ti muovi: sei attivo, autonomo, del tutto vitale in ogni momento del viaggio – sei tu che ti fai paesaggio. All’andata abbiamo trovato degli anatroccoli, acciambellati pacifici sul ciglio arancione, stavolta passa una specie di chiatta e sopra un signore con una zazzera bianca che indica e parla con delle persone. Non è rarissimo vedere Christo che dà un’occhiata al suo progetto. Matematicamente scatta l’applauso, la gente lo saluta, lo ringrazia con l’entusiasmo. Poi trovi ragazze che distribuiscono quadratini di stoffa dalia cangiante, lo prendi te lo porti a casa sapendo di aver vissuto un’esperienza irripetibile.

Ancora me lo rigiro tra le dita, questo quadrato di stoffa, e lo osservo.
Sono convinta che l’arte non sia delle nicchie. Poiché è specchio del nostro tempo e della nostra società, l’arte ci racconta e ci descrive – guardandola, noi dovremmo vedere noi stessi. Perciò tutti dovremmo guardarla, anche per conoscerci un po’ di più. Sarà anche per questo che non mi dispiace quest’arte che grida, agita la mano in aria, richiama l’attenzione, dice “Io sono qui! Venite a dare un’occhiata!”. Ormai siamo talmente cinici che appena una cosa è famosa ne prendiamo le distanze, invece di osservarla da vicino con occhio critico. Peccato che così rischiamo di perderci, senza ogni logica, una grande esperienza; che può essere piacevole oppure terribile, ma sicuramente ha un valore intrinseco positivo, perché ci avrà lasciato dentro qualcosa di nuovo.

 

Giorgia Favero

 

Nelle immagini:
Christo & Jeanne-Claude
The floating piers, 2014-2016
Lago d’Iseo, Italia
Tessuto giallo dalia, feltro, cubi di polietilene ad alta densità.

Per approfondire il loro lavoro, dai monumenti impacchettati ai grandi ombrelli del Giappone, qui il link per il sito ufficiale.