Sguardo alla Luna: polisemia del satellite terrestre

Citata sin dall’opera con cui si è soliti fare iniziare la Letteratura Italiana, cioè il Cantico delle Creature di San Francesco d’Assisi (1224), come «sorella» dell’uomo, in quanto creatura di Dio e parte della bellezza dell’Universo, la Luna ha sempre rivestito un ruolo singolare nella vita di tutti gli uomini di ogni tempo come punto di riferimento universale, simbolo di mistero, di imperturbabilità e di alterità, meta ultima verso cui evadere o interlocutrice amica, proiezione rovesciata della Terra, a una distanza siderale.

Testimone eterna e lontana del dramma umano, la Luna è presenza assidua nei Canti di Leopardi, dalla luce lunare delicata e pura in apertura dell’Ultimo canto di Saffo («verecondo raggio della cadente luna» vv.2-3), alla serena e dolce notte lunare in La sera del dì di festaqueta […] posa la luna» vv.2-3), dall’astro notturno con cui il poeta intrattiene un intimo colloquio rivolgendovisi con gli appellativi affettivi di «graziosa» e «diletta» alla Luna «silenziosa», «eterna peregrina», «giovinetta immortale» cui, in una notte silenziosa e deserta, simbolo del desolato scenario dell’esistenza, un pastore errante dell’Asia rivolge con ingenua semplicità continui interrogativi senza risposta, la protesta pacata e rassegnata di tutti gli uomini che aspirano a una condizione superiore, ideale ma solo vagheggiata, alla Luna, bella e dolce ma irraggiungibile («Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che, fai,/ silenziosa luna?»).

Una luna già carica di una sensibilità moderna, tutta novecentesca, tormentata ed esistenziale, quella di Leopardi, che ha un “fastidio che gli ingombra la mente” e a cui “la vita è male”, e che continua ad esempio nell’incipit dell’Assiuolo di Pascoli («Dov’era la luna? Ché il cielo/ notava in un’alba di perla,/ ed ergersi il mandorlo e il melo/ parevano a meglio vederla») in un’atmosfera da favola decadente un po’ sospesa e un po’ angosciosa scandita da un sinistro singulto di refrain, un «pianto di morte». E pianto di morte sarà quello rivolto da Alfonso Gatto a una «luna di pietà» che imbianca la guerra in Alla voce perduta. E a una luna di pietà si rivolgerà anche Ungaretti nel ricordare in Veglia la notte passata «vicino a/ un compagno massacrato/ con la sua bocca/ digrignata/ volta al plenilunio».

Se Montale predilige ambientazioni più assolate, tuttavia in Satura II contempla la Fine del ’68 proprio dalla luna, «il modesto pianeta che contiene filosofia, teologia, politica,/ pornografia, letteratura, scienze palesi o arcane» assumendo così un’ottica rovesciata, uno sguardo dal di fuori, la sua è una terra vista dalla luna. Quella luna dove già Ariosto nel canto XXXIV aveva mandato Orlando a recuperare il senno, perso per amore di Angelica, quella luna agli antipodi della terra, imperturbabile, dove si raccoglie tutto ciò che si perde nel mondo a causa della sconsideratezza umana. Quella luna ariostesca che affascina Calvino che ne fa un simbolo di leggerezza, intesa nell’accezione appunto tutta calviniana del termine, come saggezza, fermezza interiore, atarassia e al tempo stesso spiritosa e superiore irriverenza. E in questo dialettico gioco di specchi si inseriscono le riflessioni di Sergio Solmi sulla Luna del poeta francese Jules Laforgue, nelle cui Complaintes si ritrova l’influenza anche della celebre canzone popolare Au clair de la lune.

Una luna quindi non solo letteraria e scientifica ma anche popolare, una luna da canzonetta, una luna da romantica cartolina da cliché, una luna che è di tutti, una luna universale, una luna che «fa lume a tutti/dall’India al Perù/ dal Tevere al Mar Morto», una luna che «viaggia senza passaporto», come ci ricorda una filastrocca dalla disarmante attualità, La luna di Kiev di Gianni Rodari che con un clin d’œil al Cantico delle Creature e con quella leggerezza calviniana e quell’ingenuità propria degli antichi e dei fanciulli, cara a Leopardi e a Pascoli, si chiede se la luna di Kiev sarà la medesima di quella di Roma o soltanto sua sorella e lascia la parola alla luna stessa che replica «Ma son sempre quella!/ – la luna protesta- /non sono mica un berretto da notte sulla tua testa!» regalandoci un’immagine che, un po’ come quella della Signorina Felicita di Gozzano a cui la luna sopra un campanile sembrava «un punto sopra un “i” gigante», riesce ancora a strapparci un sorriso.

 

Rossella Farnese

 

[immagine tratta da Unsplash]

banner-riviste-2022-feb

 

L’uomo e la sua armatura: il cavaliere inesistente di Italo Calvino

Luigi Pirandello scrisse nel suo celebre romanzo Uno nessuno e Centomila: «Ogni cosa finché dura porta con sé la pena della sua forma, la pena d’esser così e di non poter essere più altrimenti», evidenziando una delle pietre miliari del suo pensiero: il contrasto tra forma e sostanza, tra involucro e contenuto, tra guscio e uovo, per dirla con il protagonista di Il giuoco delle parti.
Non siamo costituiti di un’unica entità, ma ci destreggiamo tra una parte esteriore, cristallizzata, un fardello che trasciniamo nella relazione con noi o con il prossimo e una interiore, costituita dalla vita, dalla sostanza, dal flusso che scorre al di là della forma. Nell’alternanza di equilibri non sempre stabili e felici tra questi aspetti scorre la nostra esistenza, che talvolta sentiamo pesante, quasi fossimo costretti a portare con noi una vera e propria armatura.

Ispirandosi proprio a quest’ultima immagine, Italo Calvino, quasi mezzo secolo dopo Pirandello, dà una propria interpretazione di questi concetti nel suo celebre romanzo Il cavaliere inesistente (1959).
L’opera narra la vicenda di Agilulfo, paladino di Carlo Magno dalla splendida corazza bianca, ligio ai propri doveri fino allo sfinimento e privo di qualsiasi moto spontaneo e vitale. Agilulfo è letteralmente un’armatura senza contenuto, è «un cavaliere che non c’è» come dirà lui stesso presentandosi al proprio re, tanto da essere disprezzato da tutti i suoi compagni per il suo carattere troppo impostato e preciso. Al contrario, il suo scudiero Gurdulù, vera e propria macchietta del romanzo, è un uomo che «c’è e non sa d’esserci», insomma il classico alter-ego del protagonista, spontaneo e combinaguai, non dotato di alcuna razionalità per svolgere le mansioni quotidiane.

Di fatto Calvino mette in scena attraverso i suoi due personaggi la drammatica realtà che caratterizza l’umanità e in particolare la nostra epoca: il sentimento di costrizione che proviamo di fronte agli innumerevoli doveri o alle incombenze quotidiane, così come l’aspirazione a vivere più spontaneamente, lasciandoci andare ad una pienezza vitale avvolgente.
Dirà infatti Agilulfo seppellendo un soldato: «O, morto, tu hai quello che io mai ebbi né avrò: questa carcassa. Ossia, non l’hai, tu sei questa carcassa, cioè quello che talvolta mi sorprendo ad invidiare agli uomini esistenti. […] Molte cose riesco a farle meglio di chi esiste, senza i loro soliti difetti di grossolanità. È vero che chi esiste ci mette anche qualcosa, un’impronta particolare, che a me non riuscirà mai di dare».

Alla resa dei conti, essere pura costruzione – sebbene possa significare adeguarsi a una realtà esistente, svolgere le proprie mansioni in maniera impeccabile, essere un modello per il prossimo – in fondo fa perdere la propria identità, riduce la vita alla sola armatura, trasformando l’uomo in un automa. L’incertezza e l’imperfezione che ad Agilulfo causano un tale sconcerto da confonderlo, sono ciò che ci rende umani, ciò che caratterizza la nostra carne al di là di quell’armatura perfetta e lucente, vuole insegnarci Italo Calvino.

Abbandonare il proprio abito, tuttavia, non è un processo facile, può significare perdersi, come accadrà per Agilulfo, il nostro cavaliere inesistente, o vivere un momento di smarrimento, quasi tutto il nostro essere fosse davvero ridotto a quelle cristallizzazioni a cui aderiamo come una protezione.

«Agilulfo, lui, aveva sempre bisogno di sentirsi difronte le cose come un muro massiccio al quale contrapporre la tensione della sua volontà, e solo così riusciva a mantenere una sicura coscienza di sé» (I. Calvino, Il cavaliere inesistente, 1959).

Lasciar cadere il muro di fronte a noi significa accettare di non avere il controllo pieno della situazione, vivere anche con un mondo che a volte ci restituisce esperienze imperfette, così come imperfetti sono gli uomini che lo abitano. La pena di non riuscire a realizzare questo processo è di fatto l’impossibilità di stringere dei rapporti umani profondi, di vivere nella vuota solitudine o di non poter mostrare davvero chi e cosa c’è al di là dell’armatura.

In definitiva Calvino mette in scena il dramma esistenziale dell’uomo, mostrando lo specchio di quello che siamo o di ciò che rischiamo di essere: dei personaggi buffi e grotteschi che in realtà hanno un bisogno profondo di umanità, di sentimenti e di relazioni vere.

 

Anna Tieppo

 

[Photo credit unsplash.com]

la chiave di sophia 2022

Uno sguardo distaccato sul mondo: Il Barone rampante

Eventi come quello che abbiamo vissuto i mesi scorsi e stiamo ancora vivendo, ci mettono nella condizione di sentirci fragili, completamente risucchiati in una quotidianità che non avevamo mai prima sperimentato, che ci rende prigionieri e ci costringe in abitudini non nostre. Difficile in un tale stato d’animo ragionare in maniera lucida, vivere con distacco questo nostro nuovo modo d’esistere, cercando di non farsi coinvolgere da sentimenti negativi.

Può venirci in aiuto in questa nostra impresa titanica il romanzo di Italo Calvino Il Barone Rampante (1957), il quale, pur essendo scritto quasi cento anni fa, mantiene importanti insegnamenti per il nostro tempo. L’opera narra la vicenda di Cosimo Piovasco di Rondò, un nobile rampollo ligure che, all’età di dodici anni, si ribella ai propri genitori, decidendo di salire sugli alberi per sempre.

«Cosimo salì fino alla forcella d’un grosso ramo dove poteva stare comodo e si sedette lì […] – Non cambierò mai idea, -fece mio fratello, dal ramo. -Ti farò vedere io, appena scendi! -E io non scenderò più! – E mantenne la parola»1.

La ribellione, determinata dalla volontà di non mangiare un piatto di lumache, per non uccidere le povere creature, porta Cosimo a costruirsi una vita parallela a pochi metri da terra, spingendolo ad ingegnarsi per risolvere problematiche semplici per il comune uomo quali mangiare, dormire, spostarsi ecc. Ciò gli permette da un lato di superare i propri limiti pur in una nuova condizione difficile, dall’altro di osservare gli uomini e il mondo da un altro punto di vista, distaccato rispetto a quello precedente. È il tipico comportamento che, secondo Calvino, dovrebbe avere il filosofo, o più in generale l’intellettuale: “guardare a due o tre metri” il mondo per poterlo vedere con altri occhi. Dirà infatti Biagio, il fratello di Cosimo in un passaggio significativo del romanzo: «Mio fratello sostiene, – risposi – che chi vuole guardare bene la terra deve tenersi alla distanza necessaria – e il Voltaire apprezzò molto la risposta»2.

Ciò non significa, secondo il nostro scrittore, estraniarsi dalle faccende umane, ma partecipare senza essere totalmente risucchiati dalle emozioni, dalle passioni e quindi oscurare la propria razionalità. Si pensi a quante volte, nella vita quotidiana, non riusciamo a guardare gli eventi per quello che sono, ma passioni quali la rabbia, il dolore ci mostrano una realtà distorta, per la quale il nostro punto di vista è totalizzante. Calvino, in un certo senso, ci invita con il suo barone rampante a stare “un passo più indietro”, così da poter osservare le cose nel suo insieme, non da un’angolatura particolare.

C’è un altro importante insegnamento, tuttavia, che si può trarre dal romanzo del nostro scrittore: la necessità di sapersi adattare alle difficoltà e seguire i propri propositi. «Io sono salito quassù prima di voi, signori, e ci resterò anche dopo! – Vuoi ritirarti? – gridò el Conde. -No: resistere – rispose il Barone»3Nonostante le numerose intimazioni ricevute, Cosimo non si lascia spaventare dalla sua nuova vita, trova una soluzione per tutte le piccole mansioni quotidiane: dal lavarsi il viso, al dormire, al mangiare e resiste alla sua condizione.

Persino in vecchiaia rinuncia ai benesseri di una vita più agiata, pur di rimanere fedele alle sue scelte. Ciò non deve essere letto come un’ostinazione del protagonista, quanto piuttosto ad una volontà di non demordere nonostante le innumerevoli difficoltà. Tutto ha una soluzione, sembra dire Calvino, anche la matassa che ci appare impossibile sciogliere, o il problema che non sappiamo da dove prendere.

Per concludere, si può dire che Il Barone Rampante ci possa venire d’aiuto in una situazione come quella in cui ci troviamo coinvolti o più in generale in eventi difficili della nostra vita: cerchiamo anche noi di guardare con maggiore distacco, senza per questo non essere partecipi di quello che sta succedendo; proviamo a “resistere” e cambiare le nostre abitudini, con la fiducia che in qualche modo ce la faremo. In fondo, se Cosimo è riuscito persino a vivere sugli alberi per tutta la vita… nulla è impossibile!

 

Anna Tieppo

 

 

NOTE:
1. Italo Calvino, I nostri antenati, Il barone rampante, Milano, Mondadori, 2015, p.106
2. Ivi, p. 255.
3. Ivi, p.246

[Photo credit unsplash.com]

copertina-abbonamento-2020-promo-primavera

Per una quarantena culturale: i nostri consigli di lettura

In questi giorni di emergenza sanitaria molti di voi, costretti a cambiare le proprie abitudini, si saranno chiesti come trascorrere le lunghe giornate di quarantena, rendendole produttive e abbattendo la noia. È difficile accettare di non poter uscire, di non vedere gli amici, di non farsi quel week-end in montagna che avevamo desiderato con grande intensità, tanto che qualcuno avrà avuto la percezione di essere oppresso e chiuso tra le quattro pareti domestiche.

Noi di La Chiave di Sophia ci siamo impegnati per aiutarvi a rispettare il motto #iorestoacasa e allo stesso tempo per rendere il vostro tempo significativo e, chissà, magari per scoprire passioni da molto tempo sepolte. Per questo vi proponiamo una selezione di libri da leggere in questo periodo, suddivisi in tre grandi categorie: Il piacere dei classici, Viaggiare con la mente, Un momento di introspezione.

 

Il piacere dei classici

classiciLa classicità, ispirazione del pensiero universale e maestra di vita, può darci il giusto sostegno  in un momento difficile, spingendoci a riscoprire il nostro passato, attraverso personaggi che hanno il sapore dell’uomo contemporaneo. Se amate il filone del fantastico sicuramente fa per voi la trilogia di Italo Calvino I nostri antenati: Il visconte dimezzato, il barone rampante e il cavaliere inesistente, che induce a leggere i difetti e i vizi dell’uomo, attraverso metafore fortemente allegoriche. Dal tema del doppio al conflitto tra istinto e ragione, il tutto condito da immagini che rimandano ad un tempo che fu.

Per chi, invece, predilige i racconti brevi, ma non per questo meno profondi, è consigliata la lettura di La botique del mistero di Dino Buzzati, una selezione dei migliori scritti dell’autore, che rimanda ai nostri comportamenti quotidiani, specchio delle debolezze e delle paure di ognuno di noi.

Infine chi ama affrontare i conflitti tra sentimento e ruolo sociale, tra passione e vita borghese può immergersi in Camera con Vista di Edward Morgan Forster, ambientata nell’epoca vittoriana e incentrata sulla storia di Lucy Honeychurch, giovane ragazza intenta alle convenzioni sociali, costretta ad affrontare la lacerazione tra la propria emotività e il perbenismo borghese.

 

Viaggiare con la mente

viaggioSe in questo periodo non si può viaggiare fisicamente, nessuno ci vieta di farlo con la mente! Vi consigliamo a questo proposito Aleph di Paulo Cohelo, che ci fa camminare attraverso il percorso della Transiberiana, tra Africa, Europa e Asia, per arrivare a scoprire il vero viaggio, che è in fondo quello dentro noi stessi. Una sorta di diario di bordo che può aiutarci ad ampliare i nostri orizzonti, in un percorso a tappe, come è in fondo la vita di ognuno.

Ma sul tema del viaggio, questa volta di stampo onirico, non può mancare l’opera IQ84 di Haruki Murakami, vero e proprio capolavoro dello scrittore giapponese, che intreccia due universi paralleli, abbattendo le barriere fisiche tra la realtà e il sogno. Chi ci assicura che il mondo in cui viviamo è davvero quello reale? E se invece esistesse un luogo altro, in cui le leggi in cui crediamo vengono meno? Non resta che provare a viaggiare oltre la nostra quotidianità e vedere quello che si può scoprire.

 

Un momento di introspezione

introspezioneLa riflessione e l’introspezione in un momento di gravità pubblica e di estrema emergenza gioca una certa importanza, per questo abbiamo pensato di consigliarvi Lettere contro la Guerra di Tiziano Terzani, che a partire da un evento drammatico quale l’11 Settembre 2001, spinge a mettere da parte l’odio, il rancore verso il prossimo e a riflettere sul senso di umanità, sull’uomo e sulla necessità di un equilibrio con sé e con chi gli sta difronte. È inutile accanirsi gli uni contro gli altri, ci insegna Terzani, ma bisogna tentare di comprendere per poter ricostruire una società migliore, di pensare a cause e conseguenze, di aprirci verso il prossimo.

In alternativa, se faticate ad uscire dagli schemi e a cambiare le vostre abitudini in un momento in cui la necessità ve lo impone, non c’è lettura migliore che Per dieci minuti di Chiara Gamberale, un romanzo che spinge a sforzarsi a combattere le proprie rigidezze e a guardare il mondo con altri occhi, passo dopo passo. Provate anche voi a fare per soli dieci minuti alcune attività mai prima sperimentate e riuscirete forse a capire meglio il vostro io e a lasciarvi andare.

Infine, la ricerca delle proprie origini è un sentimento che nasce da un’esigenza di scoperta, legata alla propria identità e all’ esistenza. Una buona lettura a questo proposito può essere Un cappello pieno di ciliege di Oriana Fallaci, un romanzo in cui la scrittrice indaga le proprie radici, ricostruendo la storia e la vita dei suoi nonni e dei suoi antenati.

 

Anna Tieppo

 

[immagine tratta da unsplash.com]

 

copabb2019_ott

Siate più Smart siate più schiavi

In treno un tale di una certa età chiede a un’altra persona più giovane nascosta dietro un computer “Mi scusi posso farle una domanda? Qual è l’ultimo libro che ha letto?”, l’interlocutore imbarazzato risponde un titolo che non ho capito e specifica che si tratta di un libro sulla cultura indiana. Il tale che ha fatto la domanda risponde sul pezzo e cerca di intavolare una conversazione, ma l’altro lo interrompe bruscamente dicendo con tono secco “Mi scusi devo lavorare!” e torna a nascondersi dietro al monitor del computer dove io che lo vedo so che sta facendo di tutto meno che lavorare tra Facebook e simili. Il tale delle domande si ricompone in silenzio e questa volta volge lo sguardo verso di me che intanto me ne sto qui a scrivere questo stato, fingendomi indaffarato col tablet. mentre intanto ogni tanto alzo lo sguardo e lo ritrovo lì con sguardo interrogativo e io sono sempre più in imbarazzo cercando di schivare la domanda. Perché nell’era in cui siamo tutti connessi abbiamo così paura di parlare con uno sconosciuto? I nostri dispositivi tecnologici ci hanno promesso “amici” come se piovessero dall’alto, ma ci hanno forse resi deficienti quando si tratta di parlare semplicemente con il prossimo? Una cosa è certa: sia io che il mio vicino forse ci stiamo perdendo una grande occasione di uscire arricchiti da una conversazione che non abbiamo il coraggio di sostenere, e di sicuro i nostri nonni non avrebbero invece perso l’occasione di far due parole con questo curioso signore che in fondo vuole solo parlare di qualche buona lettura…

In “Il Capitale” Marx ci parla di due fenomeni che possono tornarci utili per analizzare la situazione perché risulta evidente come abbiamo accolto nella nostra vita le nuove tecnologie in modo del tutto acritico e perseguendo un’idea diffusa nell’ascesa industriale di radice ottocentesca secondo cui progresso, etimologicamente pro gradius, abbia sempre e solo una accezione positiva.

I bisogni indotti: Marx descrive il fenomeno secondo cui vi sarebbero insiti nella natura umana due tendenze composte dai bisogni naturali che apparterrebbero alla sfera strutturale degli individui e i bisogni indotti che apparterrebbero agli aspetti sovrastrutturali. Per semplificare potremmo definire le due categorie come la distinzione sussitente tra Natura e Cultura, questa seconda categoria concepita all’interno del sistema capitalistico ridurrebbe l’individuo a consumatore in cui instillare bisogni eteronomi rispetto alla sua stessa natura. Se osserviamo la penetrazione delle nuove tecnologie nella nostra vita quotidiana non possiamo che notare questa tendenza, le nuove tecnologie si sono fatte strada negli ambienti di lavoro, nelle nostre case e nelle nostre tasche, all’interno della retorica delle cose “smart” e di quanto esse sarebbero straordinariamente fighe, ci hanno promesso di risparmiare tempo, che tutto sarebbe stato migliore e più fast, ma dietro a queste promesse non è forse vero che i ritmi di lavoro sono in realtà aumentati e che ci siamo esposti a un bombardamento cognitivo a discapito della nostra serenità e pagando un caro prezzo in termini di carico di stress? Pensate all’effetto della reperibilità permanente, siamo sempre raggiungibili, una connettività permanente che diventa simile a una droga quando si manifesta nella dimensione della dipendenza e dell’ansia quando vediamo le tacchette della nostra batteria scendere inesorabilmente verso lo 0% sugli schermi dei nostri dispositivi.

L’alienazione: in “ Il Capitale” di Marx vi è un capitolo emblematico: Le macchine. Un capitolo la cui profeticità risulta sconvolgente se pensiamo che esso è legato alla macchinazione industriale dell’Ottocento la cui pervasività nella vita era legata alla prossimità della macchina nelle fabbriche. Eppure già qualcosa allora nelle viscere degli uomini si muoveva, forse memori del racconto del Golem della cultura ebraica, una creatura generata da conoscenze esoteriche derivanti dalla Cabala all’interno della cultura ebraica, una creatura naturalmente portata a essere al servizio dell’uomo, ma destinata alla fine a ribellarsi a quest’ultimo cagionando vicende nefaste. Non a caso negli anni dell’industrializzazione si fece strada il Luddismo, un movimento di protesta operaia che si rifaceva a un mitologico operaio Ned Ludd il quale avrebbe distrutto un telaio meccanico in segno di protesta finalizzato alla riaffermazione della dignità dei lavoratori salariati rispetto all’introduzione di nuove macchine. L’alienazione è quel fenomeno che sorge nell’interazione delle macchine e dove la dimensione umana diventa funzionale alla macchina e non viceversa, dove gli uomini sono soggiogati dalle macchine e in funzione di esse. Scrive Marx a riguardo:

“Con la messa in valore del mondo delle cose cresce in rapporto diretto la svalutazione del mondo degli uomini. Il lavoro non produce soltanto merci; esso produce se stesso e il lavoratore come una merce, precisamente nella proporzione in cui esso produce merci in genere. Questo fatto non esprime nient’altro che questo: che l’oggetto, prodotto dal lavoro, prodotto suo, sorge di fronte al lavoro come un ente estraneo, come una potenza indipendente dal producente”.

Ho visto persone più attente a prendersi cura del proprio Smart Phone, con le sue app, i suoi aggiornamenti e i suoi ultimi giochi che assomigliano più a delle catene di Sant’Antonio che a una esperienza ludica, che pronte a prendersi cura di un essere vivente, di un cane, di un gatto e perfino dei propri simili.

Ci sono famiglie che si ritrovano a cena intorno allo stesso tavolo dove l’unico suono che si ode è il ticchettio delle dita sui monitor di cellulari e tablet, e quante volte ci ritroviamo a stare insieme fisicamente senza esserlo davvero? Nell’epoca in cui tutti siamo più connessi nei nostri iperurani digitali siamo tutti più disconnessi dalla nostra prossimità tanto che diventa sensato chiedersi se non siano più reali i nostri avatar digitali, le nostre vite digitali di quanto non lo sia la realtà stessa che stiamo vivendo.

Fotografiamo quello che abbiamo nel piatto, fotografiamo i nostri figli, fotografiamo i nostri luoghi, fotografiamo e postiamo, come se le cose che mangiamo, le esperienze che facciamo non fossero sufficientemente reali così come sono, come se il loro statuto ontologico fosse deficitario al punto da necessitare un rafforzamento all’interno della condivisione. Le cose esistono solo se le vedono in tanti e così facendo perdiamo il qui e ora, la realtà di quelle esperienze che nessun dispositivo potrà mai campionare così come sono, demandando tutto a un mondo di illusorio dove “bisogna esserci” perché è solo nella rete, nella socializzazione esasperata che le cose si affermano.

Siamo tutti connessi e tutti infinitamente più soli, più insicuri, più fragili. In molti casi lo sappiamo, sappiamo che forse dovremmo avere più coraggio di vivere il presente al posto di affidarci a un limbo fatto a suon di chat, condivisioni e tweet eppure continuiamo a ingannarci scientemente perché questa è la legge del tutti e nessuno, della dimensione collettiva che è diventata prima di tutto la prigione della nostra stessa esistenza.

La tecnologia e i suoi araldi ci hanno promesso benessere e libertà, noi ci siamo caduti in pieno. E a questo punto bisognerebbe chiedersi se non siano le macchine i veri soggetti e se non siano esse a usare in qualche misura noi. E’ questa la dittatura delle cose.

Scrive Calvino in “Le Città Invisibili”:

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”

Cosa dite cari lettori? Sì, in effetti anche io che vi sto scrivendo in fondo mentre vi scrivo sono soggetto alla stessa contraddizione di chi assomiglia a un cartello stradale che in effetti non va nella direzione che indica o forse, nel nostro caso, va perfino nella direzione opposta. Perché in effetti vi sto scrivendo attraverso un tablet, mi state leggendo su una piattaforma online chiamata La Chiave di Sophia che nasce proprio come uno strumento online che comunica tanto con Facebook quanto con Twitter.

Vi risponderò ironicamente che in realtà è tutta una strategia, non è forse Hegel che conia la definizione di “Critica immanente” e forse il nostro riscatto e la nostra liberazione non può che passare proprio attraverso gli stessi strumenti che ci hanno messi in catene…per quanto immateriali e digitali…pur sempre catene…

Matteo Montagner

[immagini tratte da Google Immagini]