Plutarco e l’arte della calma

«Ciascuno di noi ha in sé gli scrigni della serenità dell’anima e dell’inquietudine, e proprio la diversità degli stati d’animo dimostra che i vasi del bene e del male non giacciono sulla soglia di Zeus ma nella nostra anima»1.

Potremmo riassumere così il pensiero plutarcheo contenuto all’interno dell’opera dedicata alla tranquillità d’animo: La Calma. All’interno di questo testo Plutarco, scrittore e filosofo greco nato nella piccola città di Cheronea intorno al 46 d.c., delinea quella che potremmo definire come un vero e proprio itinerario verso la tranquillità d’animo. L’autore fornisce infatti tutta una serie di consigli pratici rivolti soprattutto alla prevenzione e all’insorgere di stati d’ansia e turbamenti eccessivi. Questo perché ansie, angosce e paure sono tutti stati d’animo che quotidianamente o meno affliggono le nostre menti impedendoci di vivere una vita felice e a pieno delle nostre capacità.

È vero, tutti noi siamo già a conoscenza di piccoli rimendi o trucchi in grado di arginare temporaneamente queste situazioni, ma nella maggior parte dei casi essi non bastano e restiamo profondamente delusi quando non riusciamo a protendere nel tempo la nostra serenità. Alcune persone, infatti, per natura più sensibili, ne risentono maggiormente quindi per loro può risultare più complicato che per altri sentirsi in pace e tranquilli.
E allora che fare? Come affrontarli al meglio impedendo che la nostra salute emotiva ne risenta eccessivamente?

Secondo Plutarco, una delle motivazioni principali per le quali questi stati d’animo insorgono risiede nel fatto che troppo spesso compiamo degli errori di valutazione che nella maggior parte dei casi ci portano a ritenere ad esempio, che la fonte della nostra tranquillità e della nostra felicità risieda nelle cose esterne, quando essa dipende solo ed esclusivamente dal nostro stato d’animo e dalla maniera nella quale decidiamo di affrontare le cose.

È quindi inutile cercare all’esterno tanto i responsabili quanto i rimedi della nostra irrequietezza: «come, dunque, potrebbe venirci un qualche aiuto dalle ricchezze o dalla fama o dall’autorità in assemblea per raggiungere la pace dell’anima e una vita non tempestosa, se l’uso di tali beni non porta massimo piacere a coloro che li possiedono ed anzi sempre si accompagna ad essi il rammarico per tutti gli altri beni che non si hanno?»2.

Ma non solo, anche il guardare troppo ai nostri difetti dimenticandoci dei beni presenti di cui disponiamo o il dolersi delle cose perse e il non saper godere di quelle superstiti, come del resto anche il trascurare i beni comuni non tenendo conto del fatto che siamo vivi e che godiamo di buona salute sono da ritenersi responsabili di ciò.

Quello che occorre fare, come scrive il filosofo greco in La calma appunto, è riabilitare il nostro erroneo modo di pensare, preparandosi per tempo, senza attendere di arrivare, come troppo spesso facciamo, all’insorgere di uno stato di turbamento, in quanto allora sarà troppo tardi: le passioni avranno già preso il sopravvento sulla nostra ragione e placarle risulterà ormai quasi impossibile.

«Come infatti i cani […], se da un lato si agitano a qualunque grido, dall’altro sono placati solo dalla voce loro familiare, così anche i dolori dell’anima, una volta che si sono svegliati, non è facile farli cessare, se ragionamenti ormai familiari e consueti non intervengono a frenare quelli nuovi che si stanno sollevando»3.

Ecco allora l’invito rivolto a ogni uomo ad organizzare durante i periodi di tranquillità un piccolo repertorio, una piccola “cassetta degli attrezzi”, composta di ragionamenti utili per vincere le passioni, da utilizzare nel momento del bisogno. Ed è proprio nella costruzione di tale repertorio che la filosofia, con le sue analisi e continue domande fornisce il massimo aiuto. Questo perché nella visione di Plutarco il compito primo della filosofia e in particolar modo dell’etica, è quello di condurre l’uomo sulla via della virtù e della vera felicità attraverso lo sviluppo della ragione, intesa come guida essenziale e necessaria della nostra parte passionale-emozionale-irrazionale.

Quindi, ascoltate Plutarco, guardatevi dentro ed individuate la fonte di serenità e di calma già presente in tutti noi. Solo accogliendo con positività qualunque risultato ci venga dalla sorte e assegnando a ogni cosa un posto tale per cui, sia ciò che è utile sia ciò che è indesiderabile possa giovarci, saremo in grado non solo di ricavare gioia e piacere dalle cose esterne, ma anche dalle situazioni più amare sapremo trovare qualcosa di conveniente ed utile per tutti noi.

 

Edoardo Ciarpaglini

 

NOTE:
1. Plutarco, La Calma, p. 49.
2. Ivi, p. 33.
3. Ibidem.

[Photo credit unsplash.com]

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Si può comunque passeggiare

Una sera d’inverno mi addentro incespicando nel bosco, tutto imbacuccato nel parka e travolto da mille pensieri che si affollano. Avvolto nel gelido amnio e protetto dal silenzio secolare degli alberi, combatto ancora per sedare quegli assilli inconcludenti, le voci dei morti che rammentano quel che passa senza l’intervento dei vivi. Cercano risposta, pretendono soluzione, vogliono che mi riappacifichi con le loro nenie per poter finalmente riposare in pace. Mi avvio lungo un sentiero di fango rossiccio per ammansire i tormenti con la semplicità ristoratrice di una passeggiata.

Sono colpe di quel che siamo stati, rimproveri per quel che potremo essere, sono i mesti sussurri di una storia che non ci appartiene e impera coi suoi sproloqui sulla miseria del mondo umano. La responsabilità del passato germina sulle nostre schiene, le incurva sotto il peso dei suoi fiori e ci fa ciondolare come tartarughe afflitte e incupite che vorrebbero per una volta sollevare lo sguardo. Ci toglie il diritto di vivere l’eterno presente, di sputare sulla tomba del tempo e di danzare liberi come gli animali che siamo. La libertà biologica è in catene e ci vediamo costretti a scandire l’intero arco della nostra permanenza nel mondo in brevi scadenze dal ritmo tartassante, che uccidono e innervosiscono la nostra primigenia indifferenza verso lo scorrere inesorabile dei giorni. Non possiamo più disfarci della maledizione cronologica perché portiamo gli orologi ai polsi, perché i doveri devono riempire la nostra vita anche quando si tratta di accendersi una sigaretta pur di fare qualcosa, perché le ore vengono indicate sugli schermi lampeggianti dei cellulari, sulle insegne che campeggiano per le città, la radio, la televisione, ogni dispositivo di comunicazione ci rinfaccia il ticchettare delle lancette con insistenza; persino il campanile coi suoi rintocchi ci ricorda quanto sia veloce e ineffabile questo inarrestabile fiume di secondi, che dobbiamo sbrigarci a inseguirlo se non vogliamo perdere il percorso che traccia. Non possiamo più prescindere da quest’autorità perché nasciamo in un mondo dove essa è venerata, considerata alla stregua di una divinità ambigua e amorale, un mondo che non ricorda più come quell’autorità beffarda si è conquistata il suo trono pacchiano ed è totalmente incapace di proporre una qualche alternativa al suo dominio aprioristico. Quel brulicare chiassoso della società odierna è solo l’eco amplificata di un fragore scoppiato in un passato remoto e l’ovvietà del presente ne paga lo scotto.

Nella volta inizia a brillare Venere, col suo ardore giallognolo, e sotto la luna è possibile scorgere il flebilissimo bagliore di Marte. Gli alberi anneriti frusciano e dai cespugli fuoriesce zampettando un gatto randagio, che mi avvicina miagolando e con la coda rizzata. Mi passa accanto quasi con indifferenza e si corica nell’erba alle mie spalle, fingendo di non guardarmi coi suoi occhi sornioni. Sorridendogli proseguo il cammino e m’incanalo sotto un arco di rami intricati, quando il gatto all’improvviso mi affianca strusciandomi tra le gambe e mi accompagna fedelmente lungo l’intero sentiero. Come due banali creature viventi, ognuna filtrante il mondo coi suoi parametri, silenziose e recidive che perdono tempo insieme, passeggiamo vuotamente.

La passeggiata è l’emblema della perdita di tempo, la premessa indiscutibile di una riflessione fresca e brillante, intuitiva come il più semplice dei silenzi. La passeggiata è l’espressione del minimalismo attivo, della semplicità di un agire cosciente che interagisce costante con lo spettacolo dischiuso della vita. È sincera e puntiforme, capace di uccidere il tempo e condannarne la memoria alla dannazione perché arresta il dinamismo artificiale della nostra corsa disperata. Dove il tempo ancora esiste il passato è nostalgia pura, il futuro fa vacillare le gambe, il presente è un istante inafferrabile, il nunc una leggenda utopica. Dove il tempo permane l’umanità è oppressa e avvilita, è spronata con le fruste ad affrettarsi lungo i canali di una macchina gigantesca e colossale, che sbuffa e digrigna i suoi ingranaggi sognando solamente di poter accelerare la sua corsa senza senso. Dove il tempo esiste il cuore è dominato dalla speranza e anela quindi a quel momento imminente che può esser latore di benefici quanto di malanni, la mente è indecisa, traballa su un suolo terremotato. La speranza è fomentata dall’incertezza, è imparentata col dubbio, sorge dal terrore per il fallimento e la morte, vive solo là dove è risaputo che si potrebbe stare meglio, ma altrove, in quelle mitiche zone in cui il tempo non esiste e non ossessiona, i vivi e i morti convivono senza differenze e il mondo passeggia per dare respiro a un universo più sereno, lento, e raccolto, dimentico della speranza e dei sospiri da innamorati.

Cala la notte e il buio gelato striscia tra le fronde e gli arbusti. Nell’aria risuonano le risate crudeli delle anatre e le cadute acquatiche dei loro ultimi tuffi. Il gatto mi sorpassa e sembra volermi fare strada lungo il sentiero oscurato, come uno spirito boschivo in soccorso di un vagabondo sperduto. Arrivati all’uscita che introduce al mondo luminoso degli umani, il felino sparisce dentro una baracca polverosa sgattaiolando in una fessura della parete e come pago della sua azione ‘virgiliana’ si accomiata magico e muto tornando nella selva. Il ritmo monocorde è spezzato e la vita passeggiante si rintana nell’intimità oscura, trascinando con sé lo stupore sognante e lasciandoci nelle grinfie degli ululati angosciati dei morti. Avere il tempo di dimenticarci del tempo, questo ci renderebbe finalmente felici.

Leonardo Albano