Meglio buoni o cattivi? Un confronto con l’Oriente

Una delle domande più scottanti che la filosofia si è posta – anche se come da tradizione non ha ancora trovato una risposta – è quella relativa alla natura degli esseri umani: siamo buoni o cattivi, altruisti o egoisti, virtuosi o dissoluti? E se siamo buoni, come rimaniamo tali nonostante tutte le tentazioni che gli altri e il mondo ci offrono quotidianamente; mentre, se siamo cattivi, come ribaltiamo la nostra natura?

La filosofia occidentale è nata e cresciuta sotto il marchio dell’individualismo, secondo cui ogni uomo rappresenta una cellula a se stante che è in tutto e per tutto indipendente da ogni altro uomo, e ha sviluppato una concezione egoistica dell’essenza dell’uomo. L’esempio più evidente è certamente quello di Hobbes che, riprendendo la citazione di Pluto, descrive il comportamento dell’uomo nei confronti dei suoi simili come quello di un lupo (homo homini lupus est). L’uomo nello stato di natura uccide e assoggetta chiunque si interponga tra sé e i suoi interessi privati, poiché ogni uomo rappresenta un potenziale ostacolo a questo soddisfacimento. Ciò significa che per Hobbes la natura umana si caratterizza come fondamentalmente egoista, cosicché ogni azione compiuta ha come oggetto più proprio soltanto l’istinto di sopravvivenza e quello di sopraffazione. Non c’è quindi nessuna possibilità che l’uomo possa sentirsi spinto ad avvicinarsi al suo simile in virtù di un naturale sentimento di amore verso il prossimo, come quello della compassione o della benevolenza. Al contrario, se gli uomini si legano tra loro in amicizie o società, ciò è dovuto soltanto a causa di un timore reciproco, che costringe a regolare ogni rapporto intersoggettivo (privato e pubblico) secondo delle leggi ben precise. Pare insomma non si possa essere buoni.

Tuttavia, l’individualismo e l’egoismo, che la filosofia occidentale afferma come una possibile verità, sono soltanto la voce più prepotente di una certa tradizione di pensiero, non di certo del pensiero in generale. E, infatti, altre tradizioni filosofiche – più incentrate sull’interconnessione di tutte le cose che sul singolo individuo – hanno dato una risposta diversa al quesito da cui siamo partiti. In particolare, nella filosofia cinese spicca la figura di Mencio, un pensatore confuciano, che ha una fede assoluta nell’intrinseca bontà degli esseri umani. Per dimostrare la sua convinzione in modo chiaro ed evidente, Mencio sviluppa un esperimento mentale che ha per protagonista un uomo e un bambino. Certamente questo esperimento non nasce come un’obiezione rivolta a Hobbes, ma è altresì vero che si applica benissimo alla filosofia egoistica di questo filosofico come sua controprova. Ecco l’esperimento mentale di Mencio:

Supponete che vi sia qualcuno che all’improvviso veda un bimbo nel preciso momento in cui sta per cadere in un pozzo; ebbene, chiunque proverebbe in cuor suo un senso di apprensione e sgomento, di partecipazione e compassione1

Analizzando quello che Mencio dice con grande semplicità, possiamo notare che ogni parola e ogni frase sono accuratamente selezionate. Prima di tutto, Mencio suppone che all’improvviso un uomo veda un bambino cadere in un pozzo. L’esser improvviso della vista del bambino è importante perché dimostra che la reazione avuta non è frutto di un calcolo riflessivo: non c’è tempo di pensare ai genitori del bambino, che potrebbero starci simpatici o anticipatici; non c’è tempo per calcolare i benefici che potremmo ottenere salvandolo; e non c’è neanche tempo di ponderare il fastidio che i pianti del bambino ci causerebbero, essendolo lui solo. Inoltre, Mencio è molto scaltro ed evita di dire che gli uomini, vedendo il bambino in difficoltà, lo salverebbero dal pozzo. Al contrario egli si limita a riconoscere che tutti proverebbero un immediato e genuino sentimento di compassione. Quindi, ciò che Mencio afferma con questo esperimento mentale è la capacità universale degli esseri umani di provare un sentimento di compassione. Questo sentimento li caratterizza nel profondo, tanto che se un uomo non avesse questo sentimento, gli mancherebbe qualcosa di cruciale per essere definito come un essere umano.

Caratterizzando la natura umana sotto il segno della bontà, è chiaro che Mencio esclude che il timore reciproco possa essere la base di ogni relazione; piuttosto, gli uomini si uniscono per un bene e un amore comune a crescere insieme e sviluppare la loro disposizione più innata.
E voi, vi sentite più buoni o cattivi?

 

Gaia Ferrari

 
NOTE:
1. Mencio 2.A.6

[Immagine tratta da Unsplash.com]

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Che cos’è la virtù? Un piccolo scorcio sull’Etica aristotelica

Uno dei testi più importanti della tradizione filosofica occidentale è senza dubbio l’Etica Nicomachea di Aristotele, ricchissima di spunti di riflessione che, se correttamente contestualizzati, possono ancora oggi dire qualcosa di significativo riguardo alla vita pratica dell’essere umano. Tra i tanti, uno dei più potenti è la definizione della virtù come una disposizione che orienta la vita dell’essere umano alla migliore forma possibile il richiamo alla sua fisica è qui evidentissimo: come ogni forma tende alla sua configurazione più compiuta, così l’essere umano tende virtuosamente al bene. Accade frequentemente, oggi, di imbattersi nell’immagine secondo cui l’essere umano virtuoso è granitico e immobile, secondo cui il discorso etico non sarebbe altro che un residuato della religione, che vuole l’uomo costretto a rinunciare a vivere e godere della vita. Almeno per quel discorso etico che nasce a partire dalla lettera aristotelica, nulla è più sbagliato di una simile immagine.

Per descrivere ciò a cui guarda, in fondo, la filosofia morale – e, a ben vedere, ciò a cui tutta la filosofia dovrebbe badare – potremmo invece utilizzare un’immagine che ripercorre costantemente nel testo di un filosofo contemporaneo, che proprio con Aristotele e Tommaso d’Aquino inizia a fare i conti: è l’immagine della fioritura umana, di cui nel 1980 ritorna a parlarci John Finnis nel suo libro Natural Law and Natural Right (pubblicato per i tipi della Oxford University Press). Il punto nodale della riflessione è la seguente questione: cosa è buono? Ciò che favorisce la fioritura della persona umana, cioè il raggiungimento da parte della persona della sua propria forma migliore. Per riprendere il dettato aristotelico, potremmo dire che l’essere umano ha in sé una naturale disposizione al suo bene più grande, desiderando il quale questi va desiderando e realizzando nientemeno che se stesso. Siamo davanti ad una filosofia che ricorda di essere un discorso elaborato per il bene dell’essere umano in tutte le sue sfaccettature, che rifiuta di scadere a libretto di istruzioni di una qualche macchina, seppur sofisticata. Trattare gli esseri umani come tali costituisce una vera e propria sfida per la filosofia odierna e, dunque, per la persona umana stessa, sempre più ingabbiata in inganni socio-culturali ed economici che confondono – qui si mente sapendo di farlo – la virtù con la noia e la consumazione sistematica di tutto con la libertà. Leggere testi come l’Etica Nicomachea è oggi un vero e proprio atto politico, oltre che filosofico: è intercettare un segnavia importante lungo il cammino verso la propria evoluzione. È avere il coraggio di affermare che esiste un bene a cui la persona umana tende per natura, un bene che non può essere venduto o acquistato, che non può essere manipolato.

Emanuele Lepore

[Immagine tratta da Google Immagini]